Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 15227 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 15227 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 07/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14004/2019 R.G. proposto da : RAGIONE_SOCIALE , elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE , domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende;
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. LAZIO n. 7385/2018 depositata il 24/10/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/03/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
RILEVATO CHE
L’Agenzia delle entrate emetteva nei confronti della RAGIONE_SOCIALE in liquidazione (di seguito, la società) due distinti avvisi di accertamento per IRES, IRAP e recupero di credito IVA per il 2008 e il 2009 sul presupposto che si trattasse di società
non operativa in quanto nel triennio 2007 -2009 aveva dichiarato ricavi pari a ‘zero’.
La Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Latina accoglieva il ricorso della contribuente contro l’avviso di accertamento TKF031300794 (con sentenza n. 1606/14) e rigettava il ricorso della società contro l’avviso TKF031300796 (con sentenza n. 278/15).
La Commissione Tributaria Regionale (CTR) del Lazio, con la sentenza in epigrafe, riuniti gli appelli proposti rispettivamente dall’Ufficio e dalla contribuente, accoglieva l’appello erariale e rigettava quello della società.
Con riferimento alla sentenza n. 1606/14, che aveva accolto il ricorso della società rilevando la mancata allegazione della delega di firma all’avviso di accertamento impugnato, osservava che l’atto era stato comunque prodotto dall’Amministrazione, presentava « i nominativi del delegato e quello del delegante, nonché l’oggetto per il quale (‘comunicazioni ai contribuenti’) è conferita » e la sua allegazione non era richiesta al fine di perfezionare la motivazione dell’atto impugnato.
Quanto alla sentenza n. 278/15, osservava che la motivazione della stessa non era né contraddittoria né insufficiente, ma anzi si soffermava su tutti i punti dedotti, spiegando le ragioni per cui le censure non potevano essere accolte, e doveva essere condivisa in quanto la società, sebbene avesse cessato l’attività nel 2005, nel 2008 e 2009 aveva ancora rapporti giuridici pendenti: era ancora proprietaria dell’immobile strumentale ed era titolare di una partecipazione pari al 99% di altra società in attività (RAGIONE_SOCIALE) titolare di immobilizzazioni materiali per euro 708.000,00. Inoltre, non aveva provato di aver avviato le attività necessarie alla liquidazione del patrimonio sociale, chiarendo modalità e tempistica, né di aver posto in essere un’attività volta a definire detti rapporti giuridici.
Infine, osservava che la qualità di società di comodo impediva il rimborso IVA relativa al periodo in cui era stata non operativa.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società che si è affidata a sei motivi e ha depositato memoria.
Ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo si deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti nonché « Concorrente e/o alternativa » violazione o falsa applicazione dell’art. 42 del d.P.R. n. 600/1973, dell’art. 56 del d.P.R. n. 633/1972 e degli artt. 4, 16 e 17 del d.lgs. n. 165/2001, « riguardante l’assenza di un’idonea delega alla sottoscrizione degli impugnati avvisi di accertamento nominativa, motivata e congruamente circoscritta, e la mancanza di prova della necessaria qualifica funzionale del dipendente delegato » , poiché gli atti prodotti erano mere disposizioni di servizio, ‘interne’ e ‘in bianco’, ossia non nominative e impersonali e non era stata prodotta alcuna documentazione comprovante la « specifica mansione impiegatizia» rivestita dal soggetto (NOME COGNOME che aveva sottoscritto gli avvisi impugnati.
C on il secondo motivo si deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 30 della legge n. 724/1994, discendente dall’erronea ed arbitraria applicazione della disciplina sulle c.d. società di comodo, in quanto la società, di cui era stato deliberato lo scioglimento anticipato e la sua messa in liquidazione in data 20.12.2006, nei periodi in esame si trovava in oggettive situazioni che rendevano impossibile lo svolgimento dell’attività, a) avendo ceduto a terzi il ramo d’azienda comprendente l’autorizzazione necessaria all’esercizio dell’attività, b) essendo proprietaria di un unico immobile, destinato a supermercato, di difficile collocazione per il quale aveva conferito mandato a vendere a terzi
(RAGIONE_SOCIALE) sin dal 2007, nonché di una partecipazione sociale nella RAGIONE_SOCIALE, la quale non svolgeva alcuna attività ma era soltanto proprietaria di un lotto di terreno agricolo incolto. Comunque, l’immobile commerciale era stato alienato nel 2010 mentre le quote societarie erano state cedute nel 2011.
Con il terzo motivo si deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, riguardante la presenza di oggettive situazioni tali da rendere impossibile il raggiungimento dei ricavi, degli incrementi, dei proventi e dei redditi induttivamente determinati dalla disciplina sulle c.d. società di comodo, consistente nelle « decisive prove documentali fornite dalla Società a riscontro di tale fatto e che hanno formato oggetto di discussione tra le parti processuali, ma che il giudice d’appello ha totalmente mancato di considerare ».
Con il quarto motivo si deduce la nullità dell’impugnata sentenza per omessa pronuncia e ultrapetizione sul dedotto difetto di motivazione degli avvisi di accertamento impugnati: la ricorrente aveva denunziato la mancanza di motivazione di questi atti ma la CTR aveva omesso di decidere su tale domanda, neppure riportata nell’espositiva della sentenza, ed era invece incorsa nel vizio di extrapetizione argomentando sulla motivazione della sentenza di primo grado.
Con il quinto motivo si deduce la nullità dell’impugnata sentenza per omessa pronuncia sulla dedotta erroneità della sanzione irrogata per l’anno d’imposta 2009 in quanto si era previsto il cumulo della sanzione per i due anni ma non era stata dedotta la sanzione per l’anno 2008.
Con il sesto motivo si deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 30 della legge n.724/1994 in relazione all’infondato e illegittimo disconoscimento del credito IVA vantato dalla contribuente.
Il primo motivo deve essere disatteso.
7.1. In disparte il difetto di autosufficienza della censura laddove non riporta puntualmente il contenuto delle deleghe prodotte dall’Amministrazione, cosicché non permette la valutazione della fondatezza di tali ragioni senza dover accedere a fonti esterne allo stesso ricorso ovvero ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito (cfr. Cass. n. 15952 del 2007) adempimento tanto più necessario deducendosi circostanze in contrasto con quanto riportato in sentenza -, il motivo presenta plurimi profili di inammissibilità.
7.2. Il motivo è inammissibile con riguardo all’omesso esame circa un fatto decisivo, censura riconducibile all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., perché questa censura deve riguardare un fatto storico, principale o secondario, ossia un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico -naturalistico, la cui esistenza risulti dalla sentenza o dagli atti processuali, che ha costituito oggetto di discussione tra le parti e ha carattere decisivo (Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017), senza che possano considerarsi tali né le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, né le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio ( ex multis , v. Cass. n. 10525 del 2022; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 5795 del 2017). In questo caso, si deduce non l’omesso esame di un fatto storico ma si lamenta la valutazione del giudice del merito in ordine alla documentazione prodotta dall’Amministrazione.
7.3. La censura è inammissibile anche perché l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio mira ad una rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, ciò che non è
consentito nel giudizio di legittimità (Cass., sez. un., n. 34476 del 2019), ovvero contesta l’esistenza del contenuto dell’atto come accertato dalla CTR, censura che può trovare spazio solo entro gli stretti limiti del cd. ‘travisamento della prova’ (sui quali v. Cass. sez. un. n. 5792 del 2024).
7.4. In ogni caso la doglianza è infondata alla luce del orientamento consolidato di questa Corte, secondo cui « La delega alla sottoscrizione dell’avviso di accertamento conferita, ai sensi dell’art. 42, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973, dal dirigente a un funzionario diverso da quello istituzionalmente competente, avendo natura di delega di firma e non di funzioni, non richiede, per la sua validità, l’indicazione del nominativo del soggetto delegato, né del termine di validità, poiché tali elementi possono essere individuati anche mediante ordini di servizio, idonei a consentire ex post la verifica del potere in capo al soggetto che ha materialmente sottoscritto l’atto» (Cass. n. 21972 del 2024; Cass. n. 8814 del 2019); la delega ex art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, infatti, « realizza un mero decentramento burocratico senza rilevanza esterna, restando l’atto firmato dal delegato imputabile all’organo delegante, con la conseguenza che, nell’ambito dell’organizzazione interna dell’ufficio, l’attuazione di detta delega di firma può avvenire anche mediante ordini di servizio, senza necessità di indicazione nominativa, essendo sufficiente l’individuazione della qualifica rivestita dall’impiegato delegato, la quale consente la successiva verifica della corrispondenza tra sottoscrittore e destinatario della delega stessa », Cass. n. 11013 del 2019; in senso conforme Cass. n. 28850 del 2019, anche in relazione alla necessità di tenere distinta l’ipotesi disciplinata nell’art. 42 d.P.R. n. 600 del 1973 rispetto alla delega di funzioni di cui all’art. 17, comma 1 -bis, d.lgs. n. 165 del 2001).
7.5. Con riguardo, poi, alla questione della mancata prova della spettanza della qualifica attribuita al soggetto delegato che ha
sottoscritto l’atto, essa è inammissibile perché nuova, come eccepito dall’Agenzia controricorrente. La ricorrente si è limitata ad osservare che la questione sarebbe compresa nella contestazione della delega ma si tratta, con ogni evidenza, di un diverso e autonomo profilo di censura: un conto è la delega e il suo contenuto, altro è la ricorrenza delle qualità soggettive richieste dalla norma in capo al delegato.
Il secondo e terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente e sono fondati.
8.1. Questa Corte ha più volte precisato che il legislatore, con l’art. 30 della l. n. 724 del 1994 ha inteso disincentivare la costituzione di società “di comodo”, ovvero il ricorso all’utilizzo dello schema societario per il raggiungimento di scopi eterogenei rispetto alla normale dinamica degli enti collettivi commerciali (come quello, proprio delle società c.d. di mero godimento, dell’amministrazione dei patrimoni personali dei soci con risparmio fiscale) ( ex multis , Cass. n. 2636 del 2023; Cass. n. 12862 del 2021; Cass. n. 4946 del 2021; Cass. n. 21358 del 2015; Cass. n. 26728 del 2017). Si è detto, quindi, che « Il disfavore dell’ordinamento per tale incoerente impiego del modulo societario -ricavabile, oltre che dalla disciplina fiscale antielusiva, dal più generale divieto, desumibile dall’art. 2248 c.c., di regolare la comunione dei diritti reali con le norme in materia societaria -trova spiegazione nella distonia tra l’interesse che la società di mero godimento è diretta a soddisfare e lo scopo produttivo al quale il contratto di società è preordinato » (Cass. n. 4946 del 2021). La disposizione ha, dunque, la finalità di contrastare la diffusione di società anomale, utilizzate quale involucro per il perseguimento di finalità estranee alla causa contrattuale, spesso prive di un vero e proprio scopo lucrativo e talvolta strutturalmente in perdita, al fine di eludere la disciplina tributaria (Cass. n. 36365 del 2021). L’effetto deterrente perseguito muove dalla determinazione di
standard minimi di ricavi e proventi, correlati al valore di determinati beni aziendali. In particolare, secondo l’art. 30, comma 1, cit. una società si considera non operativa se la somma di ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati nel conto economico è inferiore a un determinato ricavo figurativo, calcolato, attraverso il test di operatività, applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli asset patrimoniali intestati alla società. Come è stato già chiarito da questa Corte, il mancato raggiungimento degli standard minimi di ricavi di cui al primo comma dell’art. 30, riconducibili agli assetti patrimoniali della struttura societaria, funge da elemento sintomatico di selezione ed individuazione degli enti non operativi (Cass. n. 4850 del 2020). Il mancato raggiungimento di tale soglia fonda quindi una presunzione legale relativa di non operatività, basata sulla massima di esperienza secondo cui, di regola, non vi è effettività di impresa senza una continuità minima nei ricavi (Cass. n. 6195 del 2017, in motivazione).
8.2. Peraltro, secondo quanto previsto dal comma 4 bis dell’art. 30 cit., nella versione applicabile ratione temporis , « In presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinati ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto di cui al comma 4, la società interessata può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi dell’articolo 37-bis, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600» ; in altri termini, il contribuente può vincere la presunzione dimostrando all’Amministrazione -attraverso l’interpello finalizzato alla disapplicazione delle disposizioni antielusive, ovvero in giudizio, nel caso di contrasto -le oggettive situazioni che abbiano reso impossibile raggiungere il
volume minimo di ricavi o di reddito determinato secondo i predetti parametri normativi (Cass. n. 16472 del 2022). L’onere della prova contraria deve essere inteso « non in termini assoluti quanto piuttosto in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni di mercato » (Cass. n. 16204 del 2018; Cass. n. 31626 del 2019; Cass. n. 3063 del 2019). E’ stato peraltro escluso che, attraverso il meccanismo della presunzione relativa e dell’onere della prova contraria gravante sul contribuente, si pervenga ad un sindacato di merito del giudice sulle scelte imprenditoriali: invero, « il sindacato del giudice non coinvolge le scelte di merito dell’imprenditore, attenendo alla verifica del corretto adempimento degli obblighi degli amministratori e dei sindaci, con riduzione dell’operatività della “business judgement rule”, sempre valutabile, sotto il profilo tributario, per condotte platealmente antieconomiche » (Cass., n. 36365 del 2021).
8.3. Tanto premesso, se la messa in liquidazione non esclude la sottoposizione dell’ente al regime delle cd. ‘società di comodo’ (Cass. n. 13336 del 2023), deve ammettersi che tale regime pone la società in una condizione peculiare, in cui l’attività è rivolta alla dismissione dei beni sociali e alla definizione dei rapporti pendenti, e in quest’ottica deve essere valutata la condotta degli organi sociali, tenuto altresì conto che la normativa applicabile ratione temporis non richiede più il ‘carattere straordinario’ delle oggettive situazioni che rendevano impossibile il superamento del test di operatività. Sotto questo profilo l’accertamento della CTR appare carente e non aderente alle risultanze di causa. Da un lato, si è dato rilievo, per individuare l’inerzia liquidatoria, al mero dato temporale, sebbene vengano in esame i periodi d’imposta immediatamente successivi alla messa in liquidazione, senza tener conto delle specificità dei beni e dei rapporti da liquidare. D’altro lato, si è negato che la società avesse « avviato le attività necessarie alla liquidazione del patrimonio sociale » quando
risultavano, invece, concrete iniziative in tal senso: se prima della messa in liquidazione vi era stata la cessione del ramo d’azienda comprendente la licenza d’esercizio, successivamente era stato dato mandato a terzi per la vendita dell’immobile commerciale, alienato in tempi ragionevoli (nel 2010) così come la quota di partecipazione nell’altra società (ceduta nel 2011). Si tratta di circostanze rilevanti che la CTR ha del tutto trascurato affermando apoditticamente l’assenza di « modalità e tempistica » della liquidazione.
Il quarto motivo è per un verso infondato e per altro verso inammissibile.
9.1. E’ infondato perché non si tratta di omessa pronunzia ma di rigetto implicito della questione, atteso che questa è incompatibile con la decisione assunta (per tutte, Cass. n. 12131 del 2023); infatti, la conferma dell’accertamento implica il riconoscimento della sua validità formale e, quindi, l’insussistenza del dedotto vizio motivazionale. E’ inammissibile, inoltre, la censura di extrapetizione che riguarda, secondo lo stesso assunto della ricorrente, un profilo meramente argomentativo che non intacca la ratio decidendi (Cass. n. 22380 del 2014).
Il quinto motivo, relativo alle sanzioni, resta assorbito nell’accoglimento del secondo e terzo motivo.
Deve accogliersi anche il sesto motivo.
11.1. Con la sentenza 7 marzo 2024, RAGIONE_SOCIALE, in causa C -341/22, la Corte di giustizia ha stabilito che « l’articolo 167 della direttiva 2006/112 nonché i principi di neutralità dell’IVA e di proporzionalità … ostano a una normativa nazionale in forza della quale il soggetto passivo è privato del diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte, a causa dell’importo, considerato insufficiente, delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA effettuate da tale soggetto passivo a valle », come quella prevista dal citato art. 30. A seguito di questa pronuncia
l’accertamento svolto dalla CTR, che si è limitata a verificare la situazione di oggettiva impossibilità di conseguire ricavi, al fine di disapplicare l’art. 30 comma 4, senza verificare gli altri profili evidenziati dall’Agenzia che precludevano il rimborso del credito IVA, risulta insufficiente.
11.1. Invero, la Corte di giustizia ha affermato quanto segue: 1) «l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva IVA deve essere interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo IVA al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini dell’IVA il cui valore economico non raggiunge la soglia fissata da una normativa nazionale, la quale soglia corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone » (par. 25) posto che per determinare la qualità di soggetto passivo rileva « esclusivamente il fatto che detta persona eserciti effettivamente un’attività economica e … sfrutti un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità »; 2) « nessuna disposizione della direttiva IVA subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia» e, anzi, al contrario, «il diritto alla detrazione dell’IVA è garantito, purché ricorrano le condizioni richieste … indipendentemente dai risultati delle attività economiche del soggetto passivo interessato » (par. 31), fatta salva l’ipotesi in cui ricorra una frode o un abuso del diritto (come delineati dai par. da 33 a 36 della sentenza); 3) l’art. 30 della legge n. 724/1994 assolve alla funzione di disincentivare le evasioni e, a tal fine, si basa sulla presunzione per cui, quando l’importo delle operazioni effettuate a valle da una società in un determinato periodo d’imposta non raggiunge una soglia (calcolata applicando i criteri previsti dalla norma), la società non è operativa salvo che essa « non riesca a dimostrare che
elementi oggettivi giustificano l’impossibilità di raggiungere la soglia » (par. 38), da cui l’impossibilità di esercitare il diritto di detrazione; 4) tuttavia, tale presunzione, si fonda « su un criterio, quello di una soglia di ricavi, che è estraneo a quelli richiesti ai fini della dimostrazione di un’evasione o di un abuso » poiché prescinde da una valutazione « della realtà effettiva delle operazioni rilevanti ai fini IVA » ed è ancorata solo al parametro della « valutazione del volume » degli affari (par. 39), sicché essa « eccede quanto necessario per conseguire l’obiettivo di prevenire le evasioni e gli abusi » (par. 42).
11.2. Se l’art. 30 l. n. 724 del 1994 va disapplicato, non potendosi far derivare la perdita del diritto di detrazione dall’entità delle operazioni realizzate dalla contribuente, potendo dipendere invece, alla luce degli stessi principi affermati dalla Corte unionale, dalla ricorrenza di una frode o di un abuso, il motivo deve essere accolto per le ulteriori verifiche, imposte in attuazione della citata decisione, rimesse al giudice nazionale che dovrà altresì considerare tutte le circostanze evidenziate dall’Ufficio e che hanno giustificato il diniego del rimborso. In particolare, il diritto di detrazione va riconosciuto se: a) nel corso del periodo d’imposta controverso, in relazione al quale l’autorità tributaria ha reputato la società non operativa, la stessa abbia effettivamente esercitato un’attività economica (indipendentemente dallo scopo o dai risultati), intesa come comprensiva di ogni attività di produzione, commercializzazione o prestazione di servizi, per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità; b) la società medesima abbia impiegato i beni e servizi acquistati per le sue operazioni soggette ad imposta, e ciò indipendentemente dai risultati delle attività economiche; c) le operazioni non si inseriscano in una frode (connotata anche soggettivamente secondo il consolidato principio per cui la parte sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare ad una evasione) o non integrino, ai fini unionali, un abuso, inteso
anche, come si esprime la sentenza della CGUE (v. par. 33 -36), quale ‘realizzazione di una costruzione artificiosa’. Va sottolineato che non viene introdotto un nuovo ambito o tema di prova ma, semplicemente, viene assolta l’esigenza del necessario accertamento della realtà concreta, la cui doverosità è diretta conseguenza ed applicazione della disciplina unionale e della sentenza della Corte di giustizia, accertamento che la disposizione in rilievo -e qui disapplicata -mirava, con una modalità incoerente e lesiva dei principi unionali, a far ritenere presunto. Né, del resto, si poneva, a monte dell’originaria contestazione, la necessità di una ulteriore e specifica contestazione di carenza di effettività dell’attività economica ovvero di una frode e/o di un abuso posto che la ricorrenza degli indici contemplati dall’art. 30 l. n. 724/1994 era idonea a fondare (sia pure illegittimamente) una presunzione in sé esaustiva dell’inconsistenza dell’attività economica perché apparente, in frode od artificiosa (v. Cass. n. 24416 del 2024; Cass. n. 24442 del 2024).
Conclusivamente, accolti il secondo, il terzo e il sesto motivo, la sentenza deve essere cassata e la causa deve essere rinviata al giudice del merito.
P.Q.M.
accoglie il secondo, terzo e sesto motivo di ricorso, rigettati il primo e il quarto e assorbito il quinto, cassa la sentenza impugnata in relazione ai profili accolti e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 12/03/2025.