Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 24732 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 24732 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 07/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26788/2022 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-ricorrente-
contro RAGIONE_SOCIALE
-intimata- e nei confronti di AGENZIA DELLE RAGIONE_SOCIALE (A.D.E.R.)
-intimata- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. SARDEGNA n. 238/2022 depositata il 05/04/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/03/2025 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
La SOCIETA’ RAGIONE_SOCIALE presentava relativamente al periodo compreso tra gli anni 2006 e 2009, diverse istanze di disapplicazione delle disposizioni antielusive di cui all’art. 30 legge n. 724/1994.
L’Ufficio procedeva al controllo relativo all’attività della società ed accertava in capo alla stessa la qualifica di ‘società non operativa’. Conseguentemente, non riscontrando le condizioni contemplate dall’art. 30 comma 4 bis della legge n. 724/1994, notificava alla stessa provvedimenti di rigetto delle istanze presentate. Appurato che la società non provvedeva a dichiarare il reddito minimo presunto, l’Ufficio determinava i ricavi presunti per ogni annualità e notificava gli avvisi di accertamento n. 804030401610/2009, 804030401613/2009, TW3031004231/2013,
TW3031002149/2014, TW30301001252/2015 e i conseguenti atti di recupero del credito IVA indebitamente utilizzato in compensazione n. 804CR0400050/2009 e 804CR0400051/2009.
Con distinti ricorsi la società impugnava gli avvisi di accertamento dinanzi alla CTP di Cagliari che decideva come segue.
Con sentenza n. 192/6/11 depositata in data 30/08/2011, previa riunione dei ricorsi proposti avverso gli avvisi di accertamento n. 804030401610/2006 e n. 804030401613/2007, li rigettava ritenendoli infondati nel merito e compensava le spese di giudizio tra le parti.
Con sentenza n. 294/2/13 depositata il 31/10/2013 rigettava il ricorso proposto avverso l’atto di recupero 804CR0400050/2006 e condannava la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.
Con sentenza n. 295/2/13 depositata il 31/10/2013 rigettava il ricorso proposto avverso l’atto di recupero n. 804CR0400051/2007 con condanna della ricorrente al pagamento delle spese di giudizio. Con sentenza n. 882/6/15 depositata il 21/09/2015 previa riunione dei ricorsi proposti avverso gli avvisi di accertamento n. NUMERO_DOCUMENTO e n. TW30301002149/2009, li accoglieva ritenendo assorbente la censura preliminare relativa alla violazione del principio del contraddittorio endoprocedimentale.
Con sentenza n. 1040/5/2016 depositata il 10/10/2016 rigettava il ricorso proposto avverso l’avviso di accertamento n. TW3031001252/2010 e condannava la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.
La società impugnava le sentenze n. 192/6/11, 294/2/13, 295/2/13 e 1040/5/2016 dinanzi alla CTR di Sardegna.
L’Ufficio impugnava la sentenza n. 882/6/15. Resisteva la società con appello incidentale.
La CTR adita, con sentenza n. 238/2022 del 13/09/2021 depositata il 5/04/2022, previa riunione dei ricorsi presentati, accoglieva gli appelli proposti dalla società e rigettava l’appello presentato dall’Ufficio, nonché l’ulteriore appello incidentale presentato dalla società. Nello specifico, nel definire gli appelli, la CTR ha ravvisato l’esimente dall’applicazione della normativa sulle società non operative, sia perché lo stato di non agibilità e di fatiscenza dell’immobile sono provati da perizia tecnica, come provati sono i furti di mobili, arredi e attrezzature, sia perché ‘ non esisteva un volontario immobilismo, la società ha più volte tentato di cedere l’intero complesso o di riconvertire l’immobile in diversi monolocali, ottenendo all’uopo anche le dovute autorizzazioni ‘; ha affermato che l’Agenzia aveva omesso di comunicare il diniego dell’interpello e non ha rispettato l’obbligo del contraddittorio; ha fatto conseguire la caducazione degli atti di recupero, in quanto comunque non motivati perché contenenti riferimenti ad atti non ancora conosciuti
dalla contribuente; ha ritenuto che l’iscrizione ipotecaria dovesse essere annullata, perché non preceduta da preavviso; ha reputato assorbite le questioni veicolate con l’appello incidentale.
L’Agenzia affida il proprio ricorso per cassazione a cinque motivi , cui non v’è replica .
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si lamenta la nullità della sentenza per motivazione apparente in violazione degli artt. 132, comma 1 n. 4 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c., art. 111 comma 6 Cost., in relazione all’art. 360 comma 1 n.4 c.p.c., per aver la CTR ritenuto di valorizzare ‘ unicamente le prove offerte dalla controparte, senza in alcun modo prendere in considerazione le osservazioni dell’Ufficio, la motivazione degli atti impugnati e gli elementi di prova offerti ‘.
Con il secondo motivo di ricorso si adombra la violazione dell’art. 115 c.p.c e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., per aver la CTR ritenuto sussistenti e provati dalla contribuente gli elementi oggettivi idonei e sufficienti a giustificare il mancato raggiungimento degli standard minimi di legge soltanto sulla base della documentazione esibita dalla società in sede di contraddittorio e giudizio e, in particolare, della perizia prodotta, comunque proveniente dalla parte interessata.
Con il terzo motivo di ricorso si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 30, comma 4 legge 724/1994, 2728 c.c., in relazione all’art. 360 comma 1, n. 3 c.p.c., per aver la CTR ritenuto che la società avesse documentalmente provato in giudizio la presenza di situazioni oggettive che avevano causato la inoperatività della società.
Con il quarto motivo di ricorso si contesta la nullità della sentenza per ultrapetizione in violazione dell’art. 112 c.p.c. ed in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., per essersi la CTR espressa in
ordine alla censura relativa alla notificazione del parere del Direttore Generale non oggetto di specifica doglianza da parte della società che nei ricorsi dei precedenti gradi di giudizio mai aveva affermato di aver ricevuto il diniego delle istanze di disapplicazione da parte della Direzione Regionale.
Con il quinto motivo di ricorso si adombra la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 37 bis DPR n. 600/1973, dell’art. 12 comma 7 legge 212/2000 e del principio dell’obbligo di contraddittorio procedimentale, dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., per aver la CTR erroneamente affermato che l’Ufficio aveva omesso di instaurare il contraddittorio preventivo, in realtà instaurato.
Il primo motivo non coglie nel segno e va disatteso.
Ad onta della contestata apparenza della motivazione, la sentenza ben lascia intendere la propria ratio decidendi , che s’impernia sull’accertata sussistenza di situazioni oggettive impeditive del raggiungimento della soglia minima di ricavi, avuto riguardo alle condizioni di fatiscenza della struttura da adibire ad attività alberghiera e sull’impraticabilità nell’immediato di interventi di ripristino. Nel censurare la mancata valorizzazione delle ‘osservazioni dell’ufficio’ si coglie il tentativo, invero precluso nella presente sede, di ottenere una più appagante rivisitazione del merito della controversia. D’altronde, questa Corte ha incisivamente affermato che ‘ In seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi -che si convertono in violazione
dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza -di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia ‘ (Cass. n. 23940 del 2017; Cass. n. 22598 del 2018; Cass. n. 7090 del 2022). Nella specie, la soglia del ‘minimo costituzionale’ non è infranta, tendendosi piuttosto ad una riedizione di un sindacato già compiuto dal giudice a tal fine deputato.
Il secondo motivo è inammissibile.
Vi è, invero, un accertamento di fatto ad opera del giudice di secondo grado, al quale l’Agenzia contrappone una diversa ricostruzione dei fatti, mediante un’alternativa valutazione degli elementi istruttori e documentali.
Tuttavia, la dedotta violazione dell’art. 115 c.p.c. tende all’evidenza ad ottenere una rivisitazione del merito della controversia, benché interdetta in questa sede.
D’altronde, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. n. 26769 del 2018).
Peraltro, come chiarito ancora di recente da questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. non può porsi per una erronea
valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. n. 6774 del 2022; Cass. n. 1229 del 2019).
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno anche osservato che in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass., Sez. Un., n. 20867 del 2020).
Mette in conto rilevare che in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., in virtù del quale il giudice di merito può porre a fondamento della propria decisione anche una perizia stragiudiziale (Cass. n. 25593 del 2023), opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54
del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012 (Cass. n. 23940 del 2017; Cass. n. 2572 del 2021). Tra l’altro la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., anche al solo fine di rilevare entro i limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., dovrebbe emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. n. 24434 del 2016).
Non miglior sorte assiste il motivo di ricorso nella parte in cui adombra la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., che è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., soltanto nell’ipotesi -qui non riscontrabile -in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.). (Cass. n. 13395 del 2018; Cass. n. 26739 del 2014).
Il terzo motivo è fondato e va accolto nei limiti di seguito indicati.
Va evidenziato in premessa che la censura intercetta la problematica della compatibilità unionale della disciplina nazionale sulle cd. società di comodo e sulla liceità del diniego del diritto di detrazione dell’iva , oggetto della decisione della Corte di giustizia, a seguito di rinvio ex 267 TFUE da parte di questa Corte, con la sentenza 7 marzo 2024, RAGIONE_SOCIALE, C-341/22. La Corte di giustizia ha fornito una risposta chiara e precisa evidenziando: 1) ” l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva IVA deve essere interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo IVA al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini dell’IVA il cui valore economico non raggiunge la
soglia fissata da una normativa nazionale, la quale soglia corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone ” (par. 25) posto che per determinare la qualità di soggetto passivo rileva ” esclusivamente il fatto che detta persona eserciti effettivamente un’attività economica e… sfrutti un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità “; 2) ” nessuna disposizione della direttiva IVA subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia ” e, anzi, al contrario, ” il diritto alla detrazione dell’IVA è garantito, purché ricorrano le condizioni richieste… indipendentemente dai risultati delle attività economiche del soggetto passivo interessato ” (par. 31), fatta salva l’ipotesi in cui ricorra una frode o un abuso del diritto (come delineati dai par. da 33 a 36 della sentenza); 3) l’art. 30 della legge n. 724/1994 assolve alla funzione di disincentivare le evasioni e, a tal fine, si basa sulla presunzione per cui, quando l’importo delle operazioni effettuate a valle da una società in un determinato periodo d’imposta non raggiunge una soglia (calcolata applicando i criteri previsti dalla norma), la società non è operativa salvo che essa ” non riesca a dimostrare che elementi oggettivi giustificano l’impossibilità di raggiungere la soglia ” (par. 38), da cui l’impossibilità di esercitare il diritto di detrazione; 4) tuttavia, tale presunzione, si fonda ” su un criterio, quello di una soglia di ricavi, che è estraneo a quelli richiesti ai fini della dimostrazione di un’evasione o di un abuso ” poiché prescinde da una valutazione ” della realtà effettiva delle operazioni rilevanti ai fini IVA ” ed è ancorata solo al parametro della ” valutazione del volume ” degli affari (par. 39), sicché essa ” eccede quanto necessario per conseguire l’obiettivo di prevenire le evasioni e gli abusi ” (par. 42). Da tutto ciò, dunque, la Corte di giustizia ha derivato che ” l’articolo
167 della direttiva 2006/112 nonché i principi di neutralità dell’IVA e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale in forza della quale il soggetto passivo è privato del diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte, a causa dell’importo, considerato insufficiente, delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA effettuate da tale soggetto passivo a valle “. In materia di società non operative, alla stregua della pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE, 7 marzo 2024 in causa C-341/22, RAGIONE_SOCIALE), l’art. 9, par. 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, va interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo IVA al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini di tale imposta il cui valore economico non raggiunga la soglia fissata da una normativa nazionale, che corrisponda ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale soggetto dispone, in quanto nessuna disposizione della direttiva subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia. Pertanto, ciò che rileva ai sensi dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994 è esclusivamente il fatto che detto soggetto, in un determinato periodo d’imposta, abbia esercitato effettivamente un’attività economica, ponendosi detta disposizione in contrasto con l’art. 167 della direttiva IVA nella parte in cui, invece, prevede la perdita del diritto a detrazione al mancato raggiungimento di determinate soglie di ricavi (Cass. n. 24442 del 2024). Alla luce dei principi su esposti, pertanto, l’art. 30 l. n. 724 del 1994 va disapplicato, non potendosi derivare la privazione del diritto di detrazione in mera dipendenza dell’entità delle operazioni realizzate dalla contribuente ma solo ove la situazione sia riconducibile ad una frode o ad un
abuso (Cass., 6 agosto 2024, n. 22249; Cass., 11 settembre 2024, n. 24416). Occorre quindi l’accertamento che, di là dall’operatività delle presunzioni stabilite dall’art. 30 l. 724/94, la società abbia comunque svolto attività economica ai fini dell’iv a, anche in chiave prospettica.
Quanto alle imposte dirette, il giudice d’appello ha puntato sul reiterato tentativo, da parte della società, di alienare il complesso immobiliare, di monetizzarlo, di riconvertirlo. V’è, tuttavia, in sentenza l’accertamento che ‘ lo stato di non agibilità e di fatiscenza dell’immobile, il recupero ottenibile solo con costose e radicali trasformazioni, è stato documentato da perizia tecnica dell’ingegnere NOME COGNOME; anche oltre si evidenzia lo ‘ stato di degrado del complesso alberghiero e -ilmancato esercizio dell’attività ‘, nonché le ‘ difficoltà per ottenere permessi e licenze ‘.
Va quindi rilevato che, in base all’orientamento di questa Corte (v., fra varie, Cass. n. 18657 del 2024) il mancato ottenimento delle autorizzazioni rimesse alla discrezionale valutazione dell’Autorità amministrativa, che è chiamata ad operare un bilanciamento degli interessi coinvolti al fine di tutelare nel massimo grado l’interesse pubblico, di per sé non è dirimente. Occorre pertanto anche vagliare se l’impedimento al conseguimento dell’oggetto sociale, nel caso di specie, non dipenda dalle pur legittime scelte imprenditoriali effettuate dall’imprenditore, che conserv i in vita la società per anni, anche se lo svolgimento dell’attività imprenditoriale risult i precluso (si lamenta al riguardo in ricorso che ‘… la parte non ha spiegato in alcun modo perché, pur avendo completato i lavori del complesso alberghiero sin dai primi anni 90, la struttura non sia entrata in funzione, tanto da richiedere, allo stato attuale, dopo oltre 20 anni di inattività, la competa ristrutturazione ai fini dell’agibilità ‘: pag. 52 del ricorso). In particolare, se il requisito dell’oggettività allude a un impedimento estraneo alla sfera di controllo causale
dell’imprenditore è altrettanto vero che la condotta di quest’ultimo sul modo di confrontarsi con l’evento impeditivo che preclude il superamento del test di operatività non è sindacabile nella misura in cui sia riconducibile a una scelta imprenditoriale (per quanto sbagliata), ma non quando il protrarsi di tale evento sia tale da comportare l’impossibilità assoluta e oggettiva di esercitare l’attività d’impresa.
Merita in proposito di essere ricordato come questa Corte regolatrice abbia già evidenziato che il protrarsi per anni dell’inattività di una impresa ben possa – almeno potenzialmenterisolversi in una scelta soggettiva dell’imprenditore, e non essere perciò riconducibile ad una circostanza oggettiva (cfr. Cass. n. 13336 del 2023).
Il quarto motivo è fondato e va accolto.
La ricorrente, nell’esposizione del motivo, in ossequio al principio di specificità e autosufficienza ha riportato in parte qua le argomentazioni censorie dedotte dalla contribuente in primo e in secondo grado. Dalle stesse si ricava che il profilo relativo alla notificazione del parere del Direttore Generale (prot. 13763 di rigetto dell’istanza presentata per l’anno 2008 e prot. 16488 di rigetto in relazione al 2009) non è stato fatto oggetto di doglianza da parte della società né in primo grado, né in sede d’appello, Segnatamente, dai ricorsi avanzati in prime cure e mediante il gravame di merito -il cui tenore testuale è riportato integralmente -non è evincibile che la contribuente avesse fatto questione in ordine alla mancata ricezione del diniego interposto dall’Amministrazione finanziaria alle istanze disapplicative formulate dal contribuente. Pertanto, appare evidente come la CTR, nel soffermarsi e nello statuire sulla questione in parola, sia incorsa in un vizio di ultrapetizione. Questa Corte ha affermato che ‘ Il giudice di merito incorre nel vizio di extrapetizione quando attribuisce alla parte un bene non richiesto perché non compreso
neppure implicitamente o virtualmente nelle deduzioni o allegazioni’ (Cass. n. 12014 del 2019). Del resto, ‘ il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione («petitum» e «causa petendi»), attribuendo o negando ad uno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nell’ambito della domanda o delle richieste delle parti», con la conseguenza che «non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una questione non espressamente formulata, tutte le volte che questa debba ritenersi tacitamente proposta, in quanto in rapporto di necessaria connessione con quelle espressamente formulate ‘ (Cass. n. 17897 del 2019). La giurisprudenza nomofilattica è chiara nell’evidenziare la sussistenza del vizio di ultrapetizione quando ‘ il giudice pronuncia oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato, fermo restando che egli è libero non solo di individuare l’esatta natura dell’azione e di porre a base della pronuncia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle prospettate, ma pure di rilevare, indipendentemente dall’iniziativa della parte convenuta, la mancanza degli elementi che caratterizzano l’efficacia costitutiva o estintiva di una data pretesa, in quanto ciò attiene all’obbligo inerente all’esatta applicazione della legge ‘ (Cass. n. 20932 del 2019). Questa Corte ancor di recente ha soggiunto che ‘ Il potere-dovere del giudice di inquadrare nell’esatta disciplina giuridica i fatti e gli atti che formano oggetto della contestazione incontra il limite del rispetto del petitum e della causa petendi, sostanziandosi nel divieto di introduzione di nuovi elementi di fatto nel tema controverso, sicché il vizio di ultra o extra petizione ricorre quando il giudice di merito,
alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori ‘ (Cass. n. 644 del 2025; Cass. n. 8048 del 2019) .
Il quinto motivo è fondato.
Con detta censura si stigmatizza l’affermazione della CTR secondo cui l’Ufficio avrebbe omesso di instaurare un contraddittorio preventivo ‘ endoprocedimentale ‘ in relazione agli avvisi di accertamento concernenti le annualità 2008 e 2009.
La CTR ha in effetti testualmente affermato che ‘ L’ufficio avrebbe, per contro, dovuto chiedere alla società di produrre nuova documentazione atta a chiarire meglio le ragioni del diritto alla disapplicazione. Analogamente non è stato rispettato l’obbligo di contraddittorio endoprocedimentale che ha limitato ulteriormente il diritto di difesa e ha impedito all’Amministrazione pubblica di agire nella massima trasparenza e correttezza indipendentemente dalla questione circa la sua obbligatorietà ‘.
La CTR ha, dunque, ritenuto che l’Ufficio avrebbe dovuto attivare un ulteriore contraddittorio con la società contribuente, sollecitandola a produrre documentazione aggiuntiva volta a chiarire le ragioni della disapplicazione, e ha reputato il recupero fiscale infirmato d all’omessa attivazione di tale fase interlocutoria. Tuttavia, tale ricostruzione non tiene conto del fatto che in ambito di ‘società di comodo’ il contraddittorio è espressamente previsto e regolato da una disciplina ad hoc .
In particolare, ai sensi dell’art. 30, comma 4 -bis, della L. n. 724/1994, è il contribuente a poter chiedere la disapplicazione della disciplina sulle società non operative, attivando la procedura di interpello disapplicativo regolata dal D.M. 19 luglio 1998, n. 259, la quale si inserisce nel più ampio quadro previsto dall’art. 37 -bis,
commi 8 e 9, del D.P.R. n. 600/1973. La richiesta va presentata alla Direzione regionale, che è tenuta a pronunciarsi con provvedimento espresso e motivato.
Questa procedura costituisce una forma tipica di contraddittorio endoprocedimentale, strutturata su base legale, che garantisce al contribuente la possibilità di esporre le proprie ragioni prima che l’Amministrazione assuma una determinazione definitiva. Non è quindi corretto affermare che il contraddittorio è stato disatteso; per converso, è stato puntualmente rispettato quello previsto in relazione al caso di specie (v., da ultimo, Cass. n. 22007 del 2025). Come risulta dagli atti, la società ha effettivamente presentato istanza di disapplicazione alla Direzione regionale, la quale ha rigettato la richiesta con provvedimento motivato, successivamente notificato alla società. L’Ufficio ha fondato la ripresa fiscale sui contenuti di tale provvedimento e su dati oggettivi tratti dai bilanci e dalle dichiarazioni fiscali depositate dalla stessa contribuente.
In tale contesto, non sussisteva alcun obbligo ulteriore per l’Ufficio di sollecitare la produzione di documentazione integrativa, tenuto conto, peraltro, che l’onere della prova in ordine alle condizioni che giustificano la disapplicazione della disciplina antielusiva incombe interamente sul contribuente, che è tenuto a fornire, sin dall’istanza, tutti gli elementi rilevanti. Il procedimento di interpello disapplicativo costituisce il ‘ luogo ‘ deputato all’esposizione delle ragioni giustificative da parte del contribuente, con la conseguenza che l’Amministrazione non è onerata di richiedere ulteriori chiarimenti o integrazioni documentali.
La CTR ha quindi errato nel ritenere che l’Ufficio fosse tenuto a un’attività istruttoria supplementare non prevista dalla legge e nel considerare come omesso un contraddittorio che, invece, si è regolarmente svolto secondo le modalità e i termini imposti dalla disciplina speciale di riferimento.
Il ricorso va, in ultima analisi, accolto in relazione al terzo, al quarto e al quinto motivo di ricorso, disattese per quanto esposto le prime due censure. La sentenza d’appello dev’essere, pertanto, cassata e la causa rinviata per un nuovo esame e per la regolazione delle spese del giudizio alla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado della Sardegna.
P.Q.M.
Respinti i primi due motivi del ricorso, ne accoglie il terzo, il quarto e il quinto. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti. Rinvia per un nuovo esame e per la regolazione delle spese del giudizio alla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado della Sardegna in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 12/03/2025.