Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 25181 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 25181 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2064/2016 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dagli avv.ti NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, con domicilio eletto presso i propri indirizzi di posta elettronica certificata;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui Uffici è domiciliata in Roma, INDIRIZZO
-resistente- per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio n. 3240/2015, depositata il 9 giugno 2015.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24 giugno 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. -A seguito di verifica parziale della Guardia di Finanza, Nucleo Polizia Tributaria di Roma, conclusasi con la redazione di un processo verbale di constatazione, l’ Ufficio di Roma 6 dell’Agenzia delle entrate , in data 15 dicembre 2008, notificava all’allora RAGIONE_SOCIALEItaly), successivamente RAGIONE_SOCIALE e ora RAGIONE_SOCIALE, l’ atto di contestazione n. RCHO0101007/2008. L ‘ Ufficio contestava alla società, per il periodo di imposta 2006, l’omessa regolarizzazione dei documenti ricevuti dalla controllante inglese (per un imponibile pari a euro 168.227,49), relativi alla certificazione dei servizi di management (denominati ‘management fees”) resi alla società dalla controllante medesima. In particolare, nel recepire le risultanze del processo verbale di constatazione, l’Ufficio riteneva che la società avesse omesso di regolarizzare i documenti ricevuti dalla controllante relativi alla certificazione dei servizi denominati «management fees» rientranti nelle previsioni di cui agli artt. 17, comma 3 e 21, commi 1 e 5, d.P.R. n. 633/72. Riteneva l’ Ufficio che tali servizi (descritti nell’accordo intercompany esibito ai verbalizzanti quali servizi contabili, servizi di analisi dei dati amministrativi, servizi di amministrazione e gestione et similia) rientrassero nelle previsioni di cui all’art. 7, comma 4, lett. d) d.P.R. n. 633/1972 nella versione vigente ratione temporis , in quanto si estrinsecano in prestazioni di consulenza tecnica o legale o servizi resi tramite mezzi elettronici di elaborazione e fornitura di dati e simili; trattandosi di sevizi necessari al regolare funzionamento dell’impresa di diritto nazionale deve presumersi la loro utilizzazione in Italia. Ne conseguirebbe, per l’Ufficio, l’applicazione degli artt. 17, comma 3, e 21, commi 1 e 5,
d.P.R. n. 633/1972 che prevedono, in capo al committente, soggetto passivo d’imposta nazionale, l’emissione di apposita autofattura e l’annotazione della stessa in entrambi i registri IVA, ex artt. 23 e 25 d.P.R. n. 633/1972 (c.d. meccanismo dell’inversione contabile o ‘reverse charge’). Avendo la società omesso di autofatturare tali operazioni, veniva contestata la violazione, ritenuta sostanziale dall’Ufficio, degli obblighi concernenti la documentazione, registrazione e individuazione delle operazioni soggette ad IVA con applicazione della sanzione pecuniaria amministrativa, determinata ai sensi dell’art. 6, commi 1 e 4 , d.lgs. n. 471/1997, di euro 33.645,00.
All’atto di contestazione la società replicava ai sensi dell’art. 16, comma 4, d.lgs. 472/1997. Tali deduzioni venivano disattese dall’Ufficio che, con l’avviso di irrogazione di sanzioni n. RCHIR0100006/2009, confermava l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria di euro 33.645,00 invocando la nuova previsione di cui all’art. 6, comma 9 -bis del d.lgs. n. 471/1997 (norma introdotta con l. 24.12.2007, n. 244), ossia per aver omesso di assolvere l’imposta mediante il meccanismo di inversione conta bile di cui all’art. 17 d.P.R. n. 633/1972.
Avverso il suddetto avviso di irrogazione delle sanzioni, la società e il legale rappresentante dell’epoca, sia in proprio che in detta qualità, proponevano ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Roma.
Si costituiva l’ Agenzia delle entrate chiedendo il rigetto del ricorso.
La Commissione tributaria provinciale, con sentenza n. 335/19/13 del 3 luglio 2013, accoglieva parzialmente il ricorso, ritenendo la violazione di natura meramente formale e rientrante nell’ambito di applicazione della previsione di cui all’art. 9, comma
1, d.lgs. 471/1997, applicando la relativa sanzione nella sua misura minima, pari a euro 1.032,00.
-Avverso tale sentenza l’Agenzia delle entrate ha proposto appello.
Si costituiva la ricorrente chiedendo il rigetto dell’appello e proponeva appello incidentale.
Con sentenza n. 3240/2015, depositata il 9 giugno 2015, la Commissione tributaria regionale ha accolto l’appello dell’Ufficio e rigettato l’appello della società.
-La contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a dieci motivi.
L’ Agenzia delle entrate si è costituita al fine dell ‘ eventuale partecipazione all’udienza di discussione.
-Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ai sensi dell’art. 380 -bis .1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Con il primo motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 2702 c.c., 83, 122, comma 1, e 123 c.p.c. in relazione agli artt. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. e 62 d.lgs. n. 546/1992. Si evidenzia, al riguardo, che la procura alle liti rilasciata dal Sig. NOME COGNOME -legale rappresentante pro tempore della società -agli avvocati Bordello e della Valle ai fini della proposizione del ricorso introduttivo (con atto autenticato nella firma dal Notaio inglese NOME COGNOME NOME COGNOME ed apostillato ai sensi della Convenzione del l’ Aja del 5 ottobre 1961), è pienamente valida ed efficace in base alla legge processuale italiana. La Commissione tributaria regionale ha ritenuto che la procura ad lites conferita al difensore nel caso di specie, non è pienamente valida secondo la legge processuale italiana in quanto priva di traduzione certificata conforme al testo originale e comunque contenuta in un
documento la cui data risulta evidentemente modificata, senza certificazione che la correzione sia stata apposta dallo stesso notaio. Quanto all’asserita carenza di una traduzione certificata conforme al testo originale, si evidenzia come la procura sia espressa tanto in lingua italiana quanto in lingua inglese. Si rileva altresì che l’art. 122, comma 1, c.p.c. che prescrive l’ uso della lingua italiana in tutto il processo, non può essere interpretato nel senso di richiedere, a pena d’invalidità, la traduzione in lingua italiana certificata conforme all’originale della procura alle liti rilasciata all’estero corredata da apostille conformemente alla Convenzione del l’ Aja del 5 ottobre 1961. La disposizione in esame, invero, dispone obbligatoriamente l’utilizzo della lingua italiana per i soli atti endoprocessuali, o processuali in senso proprio, ovverosia per gli atti e i provvedimenti che promanano dal giudice e che sono interni al processo, nonché per gli atti introduttivi della causa, quelli depositati nel corso del processo e il verbale di causa. Restano, invece, esclusi dall’ambito di operatività della predetta norma tutti quegli atti che non hanno un’influenza immediata nel processo, anche se ad esso sono coordinati, né quegli atti aventi carattere preparatorio rispetto al processo, quali la procura alle liti.
1.1. -Il motivo è fondato.
Quanto al profilo concernente la mancata traduzione, preme osservare che il principio dell’obbligatorietà della lingua italiana, previsto dall’art. 122 c.p.c., si riferisce agli atti processuali in senso proprio (tra i quali, i provvedimenti del giudice e gli atti dei suoi ausiliari, gli atti introduttivi del giudizio, le comparse e le istanze difensive, i verbali di causa) e non anche ai documenti esibiti dalle parti; ne consegue che, qualora siffatti documenti siano redatti in lingua straniera, il giudice, ai sensi dell’art. 123 c.p.c., ha la facoltà, e non l’obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore, della quale
può farsi a meno allorché le medesime parti siano concordi sul significato delle espressioni contenute nel documento prodotto ovvero esso sia accompagnato da una traduzione che, allegata dalla parte e ritenuta idonea dal giudice, non sia stata oggetto di specifiche contestazioni della parte avversa (Cass. n. 5200/2025).
È valida la procura alle liti conferita per atto pubblico rogato da notaio in un paese aderente alla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, corredato dalla cd. “apostille”, contestualmente autenticata ancorché non in lingua italiana, atteso che l’art. 122, primo comma, c.p.c., prescrivendone l’uso, si riferisce agli atti endoprocessuali e non anche a quelli prodromici, per i quali vige il principio generale della traduzione in lingua italiana a mezzo di esperto (Cass. Sez. Un. n. 26937/2013).
Da ultimo questi principi sono stati ribaditi dalle Sezioni Unite di questa Corte, le quali hanno stabilito, per un verso, che «In materia di atti prodromici al processo, quale, nella specie, la procura speciale alle liti, la traduzione in lingua italiana di quest’ultima e dell’attività certificativa, sia nelle ipotesi di legalizzazione, sia ai sensi della Convenzione di L’Aja del 5 ottobre 1961, sia ai sensi della Convenzione di Bruxelles del 25 maggio 1987, non integra un requisito di validità dell’atto, sicché la sua carenza non dà luogo ad alcuna nullità» e, per altro verso, che «Ai sensi degli artt. 122 e 123 cod. proc. civ., la lingua italiana è obbligatoria per gli atti processuali in senso proprio e non anche per gli atti prodromici al processo (quali, in particolare, gli atti di conferimento di poteri a soggetti processuali: procura alle liti, nomina di rappresentanti processuali, autorizzazioni a stare in giudizio e correlative certificazioni), che, se redatti in lingua straniera, devono pertanto ritenersi prodotti validamente, avendo il giudice la facoltà, ma non l’obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore, del quale può fare a meno
allorché sia in grado di comprendere il significato degli stessi documenti o qualora non vi siano contestazioni sul loro contenuto o sulla loro traduzione giurata allegata dalla parte» (Cass., Sez. Un., n. 17876/25; Cass., Sez. Un., n. 18467/25).
In definitiva, al di là della natura perplessa della pronuncia al riguardo ( si afferma che la procura ‘non è pienamente valida secondo la legge processuale italiana’ ), risulta evidente che la procura conferita era pienamente conforme alla giurisprudenza richiamata, potendo al più il giudice disporne la traduzione.
Quanto al secondo aspetto, concernente la pretesa interpolazione del documento contenente la procura, l’estratto dell’autentica riprodotto in ricorso depone per la mera correzione di errore materiale.
2. -L’accoglimento del primo motivo determina l’a ssorbimento del secondo e del terzo indicati in subordine (con il secondo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 182, co. 2 c.p.c., come modificato dall’a rt. 46, comma 2, della 1. 18 giugno 2009. n. 69 in relazione agli artt. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. e 62 d.lgs. n. 546/1992. Omessa pronuncia sulla rinnovazione della procura asseritamente invalida in grado di appello; con il terzo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art . 182, co. 2 c.p.c., come modificato dall’alt. 46 , comma 2, l. 18 giugno 2009. n. 69 in relazione agli artt. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. e 62 d.lgs. n. 546/1992).
3. -La natura perplessa della pronuncia riguardante la procura e la circostanza che comunque la CTR ha esaminato il fondo delle questioni comportano l’inapplicabilità del principio fissato dalle Sezioni unite con sentenza n. 3840/2007, evocato a pag. 20 del ricorso (arg. da Cass., Sez. Un., n. 20107/24).
Con il quarto motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 c.c., 324 c.p.c. e 7 TUIR, in relazione agli art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. e 62 d.lgs. n. 546/1992. Estensibilità del giudicato esterno al periodo composta per cui è causa. Al riguardo, si evidenzia che la sentenza n. 5/14/12, pronunciata dalla Commissione tributaria regionale l’8 novembre 2011, relativa al periodo d’imposta 2003 e passata in giudicato ad esito di mancata impugnazione dell’Ufficio, ha riconosciuto la correttezza della determinazione della sanzione nella misura minima prevista dall’a rt. 9, comma 1, d.lgs. n 471/1997 (ossia euro 1.032), in ragione della natura formale della violazione riscontrata, operata dalla sentenza appellata in quella sede, ossia la n. 274/10/10 emessa dalla Sezione 10 della Commissione tributaria provinciale di Roma, depositata in data 28 luglio 2020. Tuttavia, la Commissione tributaria regionale ha negato l’estensibilità del giudicato esterno formatosi in relazione all’anno 2003 al periodo d’imposta per cui è causa sulla scorta dell’apodittico assunto secondo cui l’estensibilità del giudicato esterno trova un limite assoluto nell’art. 7 del TUIR, in forza del quale l’imposta è dovuta per anni sola ri, ciascuno dei quali corrisponde ad una obbligazione tributaria autonoma, pertanto manca il presupposto dell’identità oggettiva, ai fini dell’estensibilità del giudicato.
3.1. -Il motivo è inammissibile.
In materia tributaria, l’effetto vincolante del giudicato esterno opera nel caso di giudizi identici – per soggetti, causa petendi e petitum -ma non certo con riguardo alla valutazione delle conseguenze giuridiche (tra le più recenti, Cass. n. 6405/2025).
Nel caso di specie non sussistono i presupposti per l’estensione del giudicato invocato poiché la qualificazione come meramente formale della violazione in relazione a un precedente anno d’imposta
configura appunto la valutazione di una conseguenza giuridica, senz’altro non vincolante .
-Con il quinto motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. i n relazione agli artt. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. e 62 d.lgs. n. 546/1992. Omessa pronuncia sul motivo in tema di disapplicazione delle sanzioni per obiettiva incertezza della normativa IVA relativa alla territorialità dei servizi di management.
4.1. -Va premesso che nel giudizio di legittimità, alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di cassazione può evitare la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito sempre che si tratti di questione di diritto che non richiede ulteriori accertamenti di fatto (tra le più recenti, Cass. n. 17416/23).
Il motivo è in effetti infondato.
In tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, l’incertezza normativa oggettiva – causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, alla stregua dell’art. 10, comma 3, del d.lgs. n. 212 del 2000 e dell’art. 8 del d.lgs. n. 546 del 1992 – postula una condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, riferita non già ad un generico contribuente, né a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, sono capaci di interpretazione normativa qualificata, né all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere – dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione; ne consegue che la condizione di obiettiva incertezza normativa consiste, pertanto, in un’oggettiva impossibilità, accertabile
esclusivamente dal giudice, d’individuare la norma giuridica in cui sussumere un caso di specie, mentre resta irrilevante l’incertezza soggettiva, derivante dall’ignoranza incolpevole del diritto o dall’erronea interpretazione della normativa o dei fatti di causa (Cass. n. 15144/2025).
Nel caso di specie non sussiste alcuna obiettiva incertezza per come invocata.
L’art. 7, comma 3, d.P.R. n. 633/1972, nel testo applicabile ratione temporis , prevedeva, in generale, ai fini della individuazione dei criteri di collegamento in materia di territorialità dell’IVA relativa a prestazione di servizi, che queste si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando sono rese da soggetti che hanno il domicilio nel territorio stesso o da soggetti ivi residenti che non abbiano stabilito il domicilio all’estero, nonché quando sono rese da stabili organizzazioni in Italia di soggetti domiciliati e residenti all’estero; non si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando sono rese da stabili organizzazioni all’estero di soggetti domiciliati o residenti in Italia. Per i soggetti diversi dalle persone fisiche, agli effetti del presente articolo, si considera domicilio il luogo in cui si trova la sede legale e residenza quello in cui si trova la sede effettiva. In deroga a quanto previsto dalla regola generale, poi, il comma 4, lett. d), prevede che le prestazioni di consulenza e assistenza tecnica o legale si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando sono rese a soggetti domiciliati nel territorio stesso o a soggetti ivi residenti che non hanno stabilito il domicilio all’estero e quando sono rese a stabili organizzazioni in Italia di soggetti domiciliati o residenti all’estero, a meno che non siano utilizzate fuori dalla Comunità economica europea e la successiva lettera e) prevede che le prestazioni di servizi e le operazioni di cui alla lettera precedente rese a soggetti domiciliati o residenti in altri
Stati membri della Comunità Economica Europea, si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando il destinatario non è soggetto passivo dell’imposta nello Stato in cui ha il domicilio o la residenza. Per altro verso, il terzo nucleo normativo del comma 4 dell’art. 17 del d.P.R. n. 633/72 stabilisce che «Gli obblighi relativi alle cessioni di cui all’articolo 7, secondo comma, terzo periodo, ed alle prestazioni di servizi di cui all’articolo 7, quarto comma, lettera d), rese da soggetti non residenti a soggetti domiciliati nel territorio dello Stato, a soggetti ivi residenti che non abbiano stabilito il domicilio all’estero ovvero a stabili organizzazioni in Italia di soggetti domiciliati e residenti all’estero, sono adempiuti dai cessionari e dai committenti medesimi qualora agiscano nell’esercizio di imprese, arti o professioni».
Va quindi osservato che la Corte di giustizia ha considerato dirimente dal punto di vista fiscale non “il nome della professione del soggetto che fornisce le prestazioni”, ma la natura stessa di quest’ultime e la “finalità” perseguita (sentenza del 6 dicembre 2007, causa C-401/06, che richiama le sentenze 6 marzo 1997, causa C-167/95, Linthorst, Pouwels en Scheres e 6 settembre 1997, causa C-145/96, von COGNOME). Più precisamente, secondo la Corte di giustizia le prestazioni elencate nell’articolo 9, par. 2, lett. e), terzo trattino (art. 56 della direttiva 2006/112) , ossia ‘ prestazioni fornite da consulenti, ingegneri, uffici studi, avvocati, periti contabili ed altre prestazioni analoghe nonché elaborazioni di dati e fornitura di informazioni ‘ (corrispondenti quindi a quelle descritte dal suddetto art. 7, comma 4, lett. d), del d.P.R. n. 633 del 1972) riguardano non solo le attività tipiche delle professioni di avvocato, consulente, perito contabile o di ingegnere, ma ogni altra attività “analoga” a una delle attività menzionate, singolarmente considerate, da chiunque effettuate. A tal fine una prestazione deve ritenersi “analoga” a una
delle attività menzionate quando persegue la medesima finalità. Le attività “analoghe” sono normalmente riconducibili a soggetti diversi da quelli che professionalmente svolgono le attività di avvocato, consulente, perito contabile o ingegnere, che tuttavia esprimono contenuti e finalità uguali e detta “analogia” non è ravvisabile, invece, nelle prestazioni in cui sia preminente l’organizzazione di mezzi tecnici, tipica delle attività imprenditoriali, rispetto alla componente intellettuale e valutativa. In definitiva, ciò che caratterizza la “consulenza” è lo svolgimento di un’attività consistente in giudizi, precisazioni, chiarimenti o pareri in cui sia preminente la valutazione personale del soggetto che li effettua ed il profilo intellettuale della prestazione: giova rilevare al riguardo che la stessa ricorrente riferisce che si trattava appunto di attività valutative e intellettuali ( ‘servizi contabili, servizi di analisi dei dati amministrativi, servizi di amministrazione e gestione, ecc.’ ), limitandosi a evidenziare di aver rappresentato che i servizi in questione ‘non vengono specificamente menzionati’ dal suddetto art. 7 del d.P.R. n. 633/72.
Non c’è dunque nessuna obiettiva incertezza dal tenore delle norme, anche alla luce della richiamata giurisprudenza della Corte di giustizia (v., in termini, Cass. n. 2368/22).
5. -Con il sesto motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione del l’ artt. 10, comma 3, l. n. 212/2000 in relazione agli artt. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. e 62 d.lgs. n. 546/1992. Non applicazione della sanzione perché la violazione è di carattere meramente formale. La sentenza impugnata sarebbe comunque da cassare in quanto non considera ‘meramente formale’ la violazione in cui è incorsa la società (ossia l’omessa autofatturazione dei servizi di management di cui si è detto), con conseguente disapplicazione tout court delle sanzioni ex art. 10, comma 3, l. n. 212/2000.
Con il settimo motivo si invoca lo ius superveniens e l’ applicazione del principio del favor rei di cui all’a rt. 3, comma 3, del d.lgs. n. 472/1997, con applicazione della sanzione della misura minima di quella compresa tra euro 500 e euro 20.000 (secondo quanto previsto dall’a rt. 6, comma 9bis , applicabile a far data dal 1 gennaio 2016).
Con l’ottavo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 c.p.c., in relazione agli artt. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. e 62 d.lgs. n. 546/1992, omessa pronuncia sulla richiesta di applicazione, sulla base del principio del favor rei del l’ art. 6, comma 9-bis, secondo periodo del d.lgs. n. 471/1997.
Con il nono motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli arti. 6 comma 9bis del d.lgs. n. 471/97 e 3, comma 3 del d.lgs. n. 472/1997 in relazione all’art. 360 , comma 1, n. 3 c.p.c. e 62 d.lgs. n. 546/1992. Applicazione, sulla base del principio del favor rei della sanzione nella misura del 3% dell’imposta irregolarmente assolta (secondo quanto previsto dall’ art. 6, comma 9-bis, cit. applicabile dal 1 gennaio 2008 al 31 dicembre 2015).
Con il decimo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 6, comma 9bis , e 9, comma 1, del d.lgs. n. 471/1997, in relazione all’art. 360, comma 1 , n. 3) c.p.c. La violazione ha natura formale ed è soggetta, conformemente ai principi espressi dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, alla sanzione in misura minima di cui all’art. 9 , comma 1, del d.lgs. n. 471/1997.
5.1. -I motivi, da trattarsi congiuntamente, sono fondati nei termini di cui in motivazione.
In tema di inversione contabile (o “reverse charge”), la violazione consistente nel trattare l’operazione come se fosse fuori campo IVA, con omissione dell’autofattura e delle conseguenti
registrazioni e dichiarazioni, non costituisce una violazione meramente formale, atteso che, determinando un “vulnus” all’azione di controllo, impedisce all’amministrazione finanziaria di verificare l’applicazione del regime dell’inversione contabile, esclude il tempestivo assolvimento dell’imposta, sia pure mediante il meccanismo di compensazione proprio dell’inversione contabile, ed incide sui tempi di esercizio del diritto alla detrazione (Cass. n. 1690/2022; Cass., Sez. Un. n. 22727/2022).
Le singole fattispecie contemplate nei commi 9-bis, 9-bis.1, 9bis.2 e 9-bis.3 dell’art. 6 rispondono a criteri di progressività:
a.- il comma 9-bis disciplina l’inosservanza degli adempimenti del reverse charge da parte del cessionario (nell’acquisto di beni) o committente (nell’acquisto di servizi) che agisce nell’esercizio di imprese, arti o professioni, e distingue tra 1) sanzioni in misura fissa (primo periodo), riguardanti i casi di irregolare adempimento delle operazioni di reverse charge; 2) sanzioni in misura proporzionale (secondo periodo), riguardanti i casi di omessa annotazione nei registri contabili ai fini delle imposte sui redditi; 3) sanzioni, anch’esse proporzionali, derivanti dall’indebita detrazione e dichiarazione infedele (terzo periodo), riguardanti i casi in cui l’iva non risulti detraibile e scaturenti dall’applicazione, che resta ferma, dell’art. 5, comma 4, e dal comma 6, con riferimento all’imposta che non avrebbe potuto essere detratta dal cessionario o dal committente; le disposizioni si applicano anche in caso di omessa autofatturazione e omessa regolarizzazione della fattura ricevuta dal cedente;
b.i commi 9-bis.1 e 9-bis.2 regolano le due speculari fattispecie di “concorde errore” dovuto alle difficoltà di qualificare l’operazione ai fini della sottoposizione alla disciplina corretta, consistenti in errori di scelta del regime applicabile, e concernono,
quindi, il caso in cui l’iva sia assolta dal cedente benché l’operazione fosse sottoposta al regime del reverse charge, nonché, viceversa, quello in cui l’iva sia assolta dal cessionario mediante inversione contabile sebbene l’operazione fosse sottoposta al regime ordinario. Si tratta, in entrambi i casi, di fattispecie in cui l’acquirente/committente gode del diritto di detrazione. La sanzione è quindi stabilita in misura fissa, conformemente ai principi stabiliti dalla giurisprudenza unionale (Corte giust., causa C-935/19), secondo cui va distinta la situazione in cui l’irregolarità derivi da un errore di valutazione commesso dalle parti quanto alla natura imponibile dell’operazione, non vi siano indizi di frode, né perdite di gettito fiscale per l’erario, da quelle in cui non sussistono queste particolari circostanze;
c.- il comma 9-bis.3 esclude la sanzionabilità in caso di applicazione dell’inversione contabile a operazioni esenti, non imponibili o comunque non soggette ad imposta, in considerazione della mancanza, in sé, di danno per l’erario, e dispone l’espunzione sia del debito computato nella liquidazione dell’imposta, sia della corrispondente detrazione. L’insidiosità insita nelle operazioni inesistenti, idonee a ostacolare, con valutazione da condurre ex ante , l’azione di controllo del fisco (si veda, al riguardo, Cass. 7 dicembre 2020, n. 28938), comporta che in questi casi la sanzione è irrogata, nella misura compresa tra il cinque e il dieci per cento dell’imponibile, con un minimo di 1000,00 euro.
Nel caso in esame, dunque, occorre verificare se sussistano i presupposti per l’applicazione del primo periodo, oppure del secondo periodo del comma 9-bis dell’art. 6 del d.lgs. n. 471/97, nel testo introdotto dal d. lgs. n. 158/15. Nel caso di specie, alla luce della giurisprudenza richiamata, non vi è una violazione meramente formale perché la contribuente ha omesso del tutto la fatturazione.
-In conclusione, il ricorso va accolto in relazione al primo motivo e ai motivi dal sesto al decimo motivo, nei termini di cui motivazione, assorbito il secondo e il terzo, rigettato il quarto e il quinto, con rinvio, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado competente, in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo e i motivi dal sesto al decimo, nei termini di cui in motivazione, rigetta il quarto e il quinto, assorbiti il secondo e il terzo. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai profili accolti e rinvia, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 24 giugno 2025.
La Presidente NOME–NOME COGNOME