Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 24823 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 24823 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/09/2025
ORDINANZA
n. 16089/2017 R.G.
COGNOME
Rep.
A.C. 10 aprile 2025
sul ricorso (iscritto al n. 16089/2017 R.G.) proposto da:
RAGIONE_SOCIALE (Codice Fiscale: CODICE_FISCALE, con sede in Meda (MB), alla INDIRIZZO, in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliato in Roma, alla INDIRIZZO, presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME unitamente all’avv. NOME COGNOME che rappresenta e difende la società stessa, giusta procura speciale a margine del ricorso introduttivo del presente giudizio di legittimità (indirizzo p.e.c. del difensore: ‘ EMAIL ‘; indirizzo p.e.c. del domiciliatario: ‘ EMAIL ‘) ;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE (Codice Fiscale: CODICE_FISCALE, in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliata ‘ ope legis ‘ presso gli uffici di quest’ultima, siti in Roma, alla INDIRIZZO (indirizzo p.e.c.: EMAIL);
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia (Milano) n. 1845/19/2017, pubblicata il 28 aprile 2017; la relazione della causa svolta, nella camera di consiglio del 10
udita aprile 2025, dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
letta la memoria illustrativa depositata nell’interesse della ricorrente, ai sensi dell’art. 380 -bis .1. c.p.c.;
FATTI DI CAUSA
1.- In punto di fatto e limitando l’esposizione alle sole circostanze rilevanti in questa sede, si osserva che la vicenda ha ad oggetto un provvedimento di irrogazione di sanzioni (n. T95C0B500878/2013) relativo all’anno di imposta 2008 con il quale l’amministrazione finanziaria pretendeva, dalla società contribuente RAGIONE_SOCIALE, la sanzione di €. 62.690,00 (euro sessantaduemilaseicentonovanta/00) per la violazione dell’art. 7, comma 4-bis, d.lgs. n. 471 del 1997, nella formulazione all’epoca vigente.
La società contribuente era stata sottoposta ad un controllo, a seguito di segnalazione dell’Ufficio Territoriale di Monza che, in sede di esame di istanza di rimborso IVA, aveva verificato che la società, pur avendo effettuato cessioni di beni non imponibili a fini IVA (perché a favore di soggetti dichiaratisi esportatori abituali e quindi legittimati ad acquistare in regime di sospensione di imposta) e, pur avendo ricevuto lettere di intenti dai suoi clienti che avevano portato all ‘ emissione di fatture esenti IVA per un imponibile di €. 313.447,50 (euro trecentotredicimilaquattrocentoquarantasette/50), non aveva tuttavia provveduto, in qualità di fornitore, a comunicare telematicamente i dati contenuti nelle lettere di intento ricevute dai suoi clienti, entro il 16 del mese successivo a quello in cui le dichiarazioni erano state ricevute. L’art. 7, comma 4-bis, d.lgs. n. 471 del 1997 stabilisce, secondo la prospettazione dell’amministrazione finanziaria , che in caso di omesso invio delle comunicazioni, o in caso di invio di comunicazioni con dati incompleti o inesatti, deve essere irrogata una sanzione compresa fra il 100% (cento percento) e il 200% (duecento percento) dell’imposta dovuta sull’imponibile così fatturato. La sanzione era stata quindi determinata, considerando l’IVA dovuta nella misura del 20% (venti percento) dell’imponibile e al minimo previsto dal quadro edittale di riferimento, ossia quantificata nel 100% (cento percento) di quel valore.
2.- La società contribuente ricorreva dinanzi alla CTP di Milano sottolineando come, nel caso in esame, non fosse in discussione la legittimità sostanziale delle operazioni, nel senso che i soggetti che avevano acquistato in regime di sospensione di imposta perché qualificatisi come esportatori abituali avevano pacificamente diritto a farlo. Né questo aspetto era stato mai contestato dall’amministrazione finanziaria. Si doveva da ciò concludere che non si era verificata alcuna evasione di imposta né ostacolo al controllo, motivo per il quale non era applicabile l’art. 7, comma 4-bis, del d.lgs. n. 471 del 1997. Si era piuttosto in presenza di un errore meramente formale, e quindi sarebbe stata applicabile, al più, la sanzione di cui all’art. 11.
Si costituiva in primo grado l’Agenzia delle Entrate ribadendo la correttezza del proprio operato e precisando, al riguardo, che l’intenzione del legislatore nel prevedere un quadro sanzionatorio così severo era legata alla volontà di prevenire frodi IVA; soggiungeva essere prevista una responsabilità solidale fra emittente la fattura e acquirente (destinatario della fattura) solo nei casi in cui la dichiarazione di intenti fosse infedele, mentre laddove, come nel caso di specie, si fosse in presenza di un omesso invio, doveva rispondere solo il cedente. Il richiamo all’art. 11 era, secondo l’assunto dell’amministrazione finanziaria, inconferente perché quella norma riguarderebbe solo casi in cui non sono effettuati acquisti in regime di sospensione IVA.
La CTP di Milano accoglieva le ragioni della contribuente, ispirandosi alla ratio della riforma del sistema sanzionatorio del 1997 incentrata sulla evasione di imposta e, preso atto che, pacificamente, nel caso in esame, non vi era stata alcuna evasione, riteneva non applicabile l’art. 7, comma 4-bis, d.lgs. n. 471 del 1997, interpretando il richiamo al precedente comma 3 dello stesso art. 7 come esteso al presupposto che vi fosse stata evasione di imposta. Tuttavia, poiché era altrettanto pacifico che la contribuente fosse venuta meno ad uno specifico obbligo di legge (le comunicazioni omesse) la norma applicabile era, secondo i giudici di prime cure, quella dell’art. 11, comma 1, lett. a), che prevede una sanzione compresa fra un minimo di €. 258,23 (euro duecentocinquantotto/23) e un massimo di €. 2.065,83 (euro duemilasessantacinque/83). La Commissione in primo grado rideterminava così la sanzione ritenuta equa
in € . 1.000,00 (euro mille/00) per ciascuna comunicazione omessa e compensava interamente le spese di lite.
3.L’amministrazione finanziaria proponeva appello, lamentando l’erronea applicazione della normativa vigente in ambito di sanzioni per omessa trasmissione delle dichiarazioni di intento. Ribadiva gli argomenti già addotti in primo grado e precisava che vi era stato ostacolo all’attività di controllo, chiarendo che non era applicabile la nuova formulazione dell’art. 7, comma 4-bis, d.lgs. n. 471 del 1997, per come introdotta dall’art. 15 d.lgs. n. 158 del 2015, sia perché in vigore dal 1° gennaio 2016, sia perché non esisteva continuità normativa con il sistema previgente di distribuzione degli obblighi comunicativi in caso di acquisti in regime di sospensione IVA.
La società contribuente resisteva proponendo altresì appello incidentale (pur dichiarando che in assenza dell’appello dell’amministrazione finanziaria avrebbe accettato la pronuncia di primo grado). L’appellata richiamava i principi di cui all’art. 7 del citato decreto, che prevede anche che, qualora la sanzione appaia sproporzionata all’entità del tributo, può essere ridotta fino alla metà del minimo.
Aggiungeva che i criteri per una corretta determinazione della sanzione sono anche riferibili alla gravità della stessa rispetto alla condotta dell’agente, alla sua personalità e ai suoi precedenti fiscali. E in questo caso era sproporzionata anche la sanz ione di €. 1.000,00 (euro mille/00) per ogni dichiarazione omessa. Era poi legittimo chiedere l’esclusione di qualsiasi sanzione perché l’art. 6, comma 5-bis, prevede la non punibilità delle violazioni che non arrecano pregiudizio all’esercizio delle funzioni di controllo e che non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo. Nel caso di specie non esisteva base imponibile perché non c’era evasione di imposta e non c’era ostacolo alle funzioni di controllo perché tutte le fatture in esame erano regolarmente registrate in contabilità, sebbene ne fosse stato omesso l’invio telematico. La contribuente rilevava come la fattispecie in esame non fosse più sanzionata in base alla normativa oggi vigente, modificata medio tempore, e quindi doveva intendersi abolita, essendo del tutto cambiati gli adempimenti posti a carico dei contribuenti in materia di esportatori abituali. Ne derivava che o si doveva intendere abolita la
fattispecie o, al massimo, si sarebbe dovuto applicare la sanzione in vigore, più favorevole al reo (compresa fra €. 250,00 ed €. 2.000,00). In tal senso deponeva, a parere della contribuente, anche la circolare del Ministero delle Finanze n. 180 del 10 luglio 1998, la giurisprudenza unanime e la circolare n. 4/E del 4 marzo 2016 sulla validità e necessità di applicazione del principio del favor rei.
La CTR Lombardia accoglieva l’appello dell’amministrazione finanziaria e rigettava quello incidentale della contribuente. In particolare, affermava che: – la norma di riferimento era senz’altro l’art. 7, comma 4 -bis, d.lgs. n. 471 del 1997, nella formulazione vigente ratione temporis ; – sebbene il regime sanzionatorio potesse effettivamente risultare eccessivamente severo in presenza della violazione di un obbligo solo formale, la determinazione della cornice edittale di riferimento rientrava certamente nella discrezionalità propria del legislatore; – non veniva in rilievo l’art. 6, comma 5-bis, d.lgs. n. 471 del 1997, in quanto la violazione dell’obbligo di comunicazione aveva una rilevanza causale diretta sull ‘ efficacia dell ‘ azione di controllo dell’amministrazione finanziaria, in funzione del corretto espletamento della quale è previsto l’obbligo predetto; – era inconferente il richiamo all’art. 7, comma 4, d.lgs. n. 472 del 1997 nella misura in cui la possibilità di ridurre la sanzione è prevista per i casi in cui la sproporzione fra la sanzione e l’entità del tributo cui la violazione si riferisce sia da correlare alla concorrenza di eccezionali circostanze che, nel caso in esame, nemmeno risultavano essere state allegate; – non appariva pertinente il richiamo all’art. 11, dal momento che quest’ultimo era da considerarsi, per stessa dizione letterale, norma residuale che riguarda testualmente « altre violazioni in materia di imposte dirette e imposta sul valore aggiunto » e ciò vuol dire che è la disposizione applicabile per le violazioni diverse da quelle espressamente disciplinate; – nemmeno rilevava il richiamo all’art. 7 d.lgs. n. 472 del 1997 sui principi che devono guidare la corretta determinazione della sanzione, giacché era stata applicata la sanzione prevista nel suo minimo edittale; – quanto alle modifiche normative intervenute per effetto dell’art. 15, comma 1, lett. g) del d.lgs. n. 158 del 2015, nonostante le modificazioni introdotte, non ricorreva un’ipotesi di soppressione dell’obbligo, ma piuttosto un’ipotesi di ridefinizione della portata oggettiva e soggettiva dello stesso.
4.- Avverso la menzionata sentenza d’appello , la società contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
5.L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso .
6.- La ricorrente ha depositato memoria illustrativa, ai sensi dell’art. 380bis .1. c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Preliminarmente, deve evidenziarsi come sia stata rigettata, dall’Agenzia delle Entrata, l’istanza di definizione agevolata avanzata dalla contribuente ai sensi dell’art. 9 d.l. n. 119 del 2018 conv., con modif., dalla l. n. 136 del 2018, con conseguente necessità di procedere alla disamina dei motivi di ricorso.
2.- Con il primo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 7, commi 3 e 4-bis, e 11, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 471 del 1997.
Lamenta, al riguardo, mediante una serie di osservazioni, l’ingiustizia della sanzione e la sproporzione della stessa, argomentando dall’assenza di evasione dell’imposta e di danno a carico dell’erario.
3.- La censura è inammissibile, in quanto diretta, con tutta evidenza, a contestare gli accertamenti di fatto, operati dalla CTR.
Ed invero, questa Corte ha più volte affermato che « Le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice de l caso concreto; b) quello afferente l’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell’ambito
applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità. » (Cass. civ., Sez. 1, ordinanza n. 640 del 14 gennaio 2019, Rv. 652398-01; conf. Cass. civ., Sez. 3, sentenza n. 7187 del 4 marzo 2022, Rv. 664394-01).
Orbene, non è chi non veda come il motivo oggetto di disamina, in quanto si concentra sull’accertamento delle circostanze di fatto e dei presupposti che, alla stregua di quanto chiarito dalla CTR, hanno giustificato l’applicazione della sanzione, finisce con il risolversi nella prospettazione di una ricostruzione alternativa della vicenda fattuale e, dunque, nella richiesta di una nuova valutazione del compendio istruttorio, notoriamente preclusa in sede di giudizio di legittimità (cfr., al riguardo, Cass. civ., Sez. 2, ordinanza n. 10927 del 23 aprile 2024, Rv. 670888-01, secondo cui « In tema di ricorso per cassazione, deve ritenersi inammissibile il motivo di impugnazione con cui la parte ricorrente sostenga un’alternativa ricostruzione della vicenda fattuale, pur ove risultino allegati al ricorso gli atti processuali sui quali fonda la propria diversa interpretazione, essendo precluso nel giudizio di legittimità un vaglio che riporti a un nuovo apprezzamento del complesso istruttorio nel suo insieme. »).
Del resto, anche con riguardo alla lamentata sproporzione della sanzione, giova rammentare il principio affermato da questa Corte regolatrice, secondo cui « In tema di sanzioni amministrative pecuniarie, ove la norma indichi un minimo e un massimo della sanzione, spetta al potere discrezionale del giudice determinarne l’entità entro tali limiti, allo scopo di commisurarla alla gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi. Peraltro, il giudice non è tenuto a specificare nella sentenza i criteri adottati nel procedere a detta determinazione, né la Corte di cassazione può censurare la statuizione adottata, ove tali limiti siano stati rispettati e dal complesso della motivazione risulti che quella valutazione è stata compiuta. » (Cass. civ., Sez. 2, ordinanza n. 4844 del 23 febbraio 2021, Rv. 660460-01).
4.Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 7, commi 3 e 4-bis, 6, comma 5-bis, d.lgs. n. 471 del 1997 e 10 l. n. 212 del 2000.
Evidenzia, al riguardo e con argomentazioni varie, che si sarebbe trattato di una violazione meramente formale rimasta del tutto priva di rilevanza sul piano impositivo e priva di effetti pregiudizievoli sull’azione di controllo dell’amministrazione finanziaria.
5.- La censura è inammissibile e infondata.
È inammissibile, in quanto, anche in tal caso, il motivo oggetto di disamina, concentrandosi sull’accertamento delle circostanze di fatto e dei presupposti che, alla stregua di quanto chiarito dalla CTR, hanno permesso di escludere la natura meramente formale della violazione di cui si tratta, finisce con il risolversi nella prospettazione di una ricostruzione alternativa della vicenda fattuale e, dunque, nella richiesta di una nuova valutazione del compendio istruttorio, notoriamente preclusa in sede di giudizio di legittimità (cfr., al riguardo, Cass. civ., Sez. 2, ordinanza n. 10927 del 23 aprile 2024, Rv. 670888-01, secondo cui « In tema di ricorso per cassazione, deve ritenersi inammissibile il motivo di impugnazione con cui la parte ricorrente sostenga un’alternativa ricostruzione della vicenda fattuale, pur ove risultino allegati al ricorso gli atti processuali sui quali fonda la propria diversa interpretazione, essendo precluso nel giudizio di legittimità un vaglio che riporti a un nuovo apprezzamento del complesso istruttorio nel suo insieme. »).
È infondata, in quanto, come più volte chiarito dalla giurisprudenza di questa sezione e diversamente da quanto sostenuto dalla contribuente, la disposizione di cui all’art. 7, comma 4-bis, d.lgs. n. 471 del 1997, nella formulazione vigente all’epoca dei fatti, benché avente carattere speciale, si pone in coerenza con la disciplina generale in tema di sanzioni tributarie, in base alla quale costituiscono violazioni formali quelle che, pur non incidendo sulla determinazione dell’imponibile o dell’imposta, come quelle di carattere sostanziale, comportano un pregiudizio all’attività di accertamento, risultando prive di rilevanza ai fini in esame solo le violazioni meramente formali, ossia quelle che non arrecano alcun pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo e non incidono sulla
determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo previste dall’art. 6, comma 5-bis, d.lgs. n. 472 del 1997 (cfr. Cass. civ., Sez. 5, ordinanza n. 901 del 16 gennaio 2019, Rv. 652459-01; Cass. civ., Sez. 5, ordinanza n. 27598 del 30 ottobre 2018, Rv. 650964-01). Infatti, l’obbligo di comunicazione della dichiarazione di intenti si correla all’esigenza di consentire un efficace controllo sull’applicazione della disciplina in tema di IVA e, in particolare, del regime di riscossione dell’imposta relativa ad operazioni di cessione infracomunitaria o all’esportazione e, per tale ragione, la sua inosservanza non può dare luogo ad una violazione meramente formale, in quanto tale non punibile (Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 19738 del 12 luglio 2021, Rv. 661885-01 e Rv. 661885-02, in motivazione).
6.- Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 7, commi 3 e 4bis, d.lgs. n. 471 del 1997, nonché dell’art. 20, commi 1 e 2, d.lgs. n. 175 del 2014 e dell’art. 3 d.lgs. n. 472 del 1997.
Sostiene, al riguardo, l’intervenuta abolizione della necessità di comunicazione da parte del cedente e il suo ribaltamento a carico dell’acquirente e invoca il principio del favor rei, affermando che la violazione sarebbe stata abolita.
In particolare, la ricorrente evidenzia che, con effetto dal 1° gennaio 2015, in esecuzione dell ‘ art. 20 d.lgs. n. 175 del 2014, gli aspetti esecutivi e quelli sanzionatori dell’adempimento sarebbero stati radicalmente modificati.
La normativa sopravvenuta prevede che gli esportatori abituali che intendono acquistare o importare in regime di non imponibilità o esenzione dell’IVA, debbano – essi stessi – trasmettere telematicamente all’Agenzia delle Entrate la dichiarazione d’intento, da consegnare, poi, al fornitore o al prestatore (oppure in Dogana, per i casi di esportazione) insieme alla ricevuta di presentazione (emessa dalla stessa Agenzia delle Entrate).
A questo punto al fornitore-cedente, prima di eseguire la prestazione o la cessione, spetta la semplice verifica in via telematica attraverso il sito dell’Agenzia delle Entrate della presenza della dichiarazione di intento senza altro vincolo o adempimento.
Ne è derivato, secondo la prospettazione della ricorrente, un radicale ribaltamento dell’obbligo della comunicazione dal fornitore all’esportatore abituale il quale, in ultima analisi, è il dominus (oltre che beneficiario e responsabile) dell’agevolazione.
A carico del cedente sarebbe rimasto, quindi, esclusivamente un compito di verifica dello status del cessionario quale esportatore abituale presso l’Agenzia delle Entrate, salvo il prudenziale preordinamento della relativa documentazione per nell’ipotesi in cui fossero avanzate contestazioni.
Contestualmente, è stato modificato anche il regime punitivo in quanto la sanzione per il fornitore è prevista solo nel caso di operazioni eseguite prima della ricezione della dichiarazione di intenti e prima di aver riscontrato la dichiarazione stessa. In sostanza per il fornitore-cedente vi sarebbe stata la totale abrogazione di qualsiasi attività dichiarativa e/o comunicativa verso l’Agenzia delle Entrate e la conseguente abrogazione di qualsiasi relativa sanzione. Con l’ulteriore sostanziale conseguenza che il fornitore non appena ha la conferma (grazie al riscontro presso l’Agenzia delle Entrate) della dichiarazione di intento non sarebbe più tenuto ad alcun adempimento né, tantomeno sarebbe passibile di sanzione o penalità alcuna.
7.- La censura è parzialmente fondata.
Ed invero, come recentemente chiarito da questa Corte regolatrice, « La modifica dell’art. 7, comma 4 bis, del d.lgs. n. 471 del 1997 ad opera dell’art. 20 del d.lgs. n. 175 del 2014, poi ulteriormente novellato con riguardo al regime sanzionatorio dall’art. 15 del d.lgs. n. 158 del 2015, non ha comportato una “abolitio” attesa la persistente illiceità del fatto e, quanto alla condotta del cedente/prestatore, la continuità strutturale tra l’originaria previsione e le modifiche sopravvenute che hanno riguardato un mutamento di ordine solo quantitativo degli adempimenti richiesti; tuttavia, mentre va esclusa l’applicazione retroattiva della disciplina introdotta dalla prima novella in forza dell’esplicita norma transitoria contenuta nell’ultimo comma dell’art. 20 del d.lgs. n. 175 del 2014, è applicabile, per il principio del “favor rei” e in assenza di norme derogatorie dei principi generali di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 472 del 1997, il regime
sanzionatorio più lieve introdotto con l’art. 15 del d.lgs. n. 158 del 2015. » (Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 23695 del 28 luglio 2022, Rv. 66534701). In particolare, l’art. 15 , comma 1, lett. g), d.lgs. n. 158 del 2015 prevede una sanzione in misura fissa e non proporzionale, restando esclusa non soltanto la modificazione di cui all’art. 20 d.lgs. n. 175 del 2014, ma anche quella intervenuta con l’art. 12 -septies d.l. n. 34 del 2019, che – eliminata la prevista comunicazione della dichiarazione di intenti dall’esportatore al fornitore, cui è imposto un onere di piena ed autonoma verifica ha reintrodotto l’originario regime sanzionatorio dal cento al duecento per cento dell’imposta (cfr., sempre Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 23695 del 28 luglio 2022, Rv. 665347-01, in motivazione).
Nella specie, dunque, non condivisibile risulta la sentenza impugnata nella parte in cui, pur avendo correttamente escluso l’applicazione retroattiva della disciplina introdotta dalla prima novella, ha escluso altresì l’applicazione del regime sanzionatorio più favorevole di cui all’art. 15 d.lgs. n. 158 del 2015.
8.Dalle considerazioni finora sviluppate, deriva, dunque, l’accoglimento del terzo motivo di ricorso, nei limiti già sopra chiariti, nonché il rigetto del primo e del secondo.
Deve, conseguentemente, disporsi, ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c., la cassazione della sentenza impugnata con rinvio della causa alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, la quale procederà a un nuovo esame della controversia uniformandosi al principio di diritto sopra richiamato e provvedendo, altresì, a statuire sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione
Accoglie il terzo motivo di ricorso, nei limiti di cui in motivazione; rigetta i restanti; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Tributaria,