Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 32610 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 5 Num. 32610 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 15/12/2024
ha emesso la seguente ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 9383/2023 proposto da:
Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, nella persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALESwitzerland) RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE nelle persone dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , rappresentate e difese dal Prof. Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio
dell’Avv. NOME COGNOME, in Roma, INDIRIZZO giusta procura in calce al controricorso.
– controricorrenti e ricorrenti in via incidentale – avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA, n. 4164/2022, depositata in data 2 novembre 2022, non notificata;
udita la relazione della causa udita svolta nella pubblica udienza del 24 settembre 2024, dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, con assorbimento del ricorso incidentale;
udito, per la parte ricorrente, l’Avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso per cassazione;
udito per la parte controricorrente e ricorrente in via incidentale , l’Avv. NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso per cassazione e l’accoglimento del ricorso incidentale;
FATTI DI CAUSA
1. La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello proposto dall ‘Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (fatta eccezione per il capo relativo alle spese) avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto dalle società RAGIONE_SOCIALE, quale rappresentante doganale indiretto, RAGIONE_SOCIALESwitzerland) RAGIONE_SOCIALE quale importatore, e RAGIONE_SOCIALE quale rappresentante fiscale, avente ad oggetto l’annullamento dei processi verbali di rettifica e contestazioni di illeciti doganali del 17 gennaio 2019 e del 15 marzo 2019, con cui erano state rettificate alcune bollette doganali emesse il 17 gennaio 2019 e il 15 marzo 2019 e determinata la maggiore somma dovuta per dazio e Iva all’importazione.
I giudici di secondo grado hanno confermato la sentenza di primo grado, fatta eccezione per il capo relativo alle spese processuali che sono state compensate, affermando che:
-) l’esegesi dell’accordo di licenza compiuto dal primo giudice era corretto e convincente, conforme alla normativa anche unionale e privo di anomalie interpretative, diversamente da quanto affermato dall’Ufficio appellante;
-) la decisione del primo giudice, peraltro, era del tutto in linea con la decisione n. 4718/2019, avente valore di giudicato, di questa sezione di Commissione tributaria regionale, che in una analoga vicenda, riguardanti le stesse parti ma rettifiche relative all’annualità precedente, aveva respinto l’appello dell’Ufficio, basato su censure del tutto uguali a quelli qui agite, affermando in modo del tutto omologo alla decisione qui impugnata: « Osserva nel merito il Collegio che le recenti pronunce della Cassazione n. 8473/2018 e n. 25647 /2018, in linea con la normativa dell’Unione in materia e con quanto indicato nel Taxud/B/4/2016-IT n. 808781, indicano i riferimenti ermeneutici al Giudice di merito per valutare, in concreto, in ordine all’inclusione o meno delle royalties nel valore delle merci In dogana, chiarendo cosa debba intendersi per “condizione di vendita” e lasciando al Giudice il libero apprezzamento circa la sussistenza o meno di una delle seguenti tre condizioni: 1) Il venditore o una persona ad esso collegata chiede all’acquirente dl effettuare il pagamento delle royalties. 2) Il pagamento da parte dell’acquirente è effettuato per soddisfare un obbligo del venditore, conformemente agli obblighi contrattuali. 3) Le merci non possono essere vendute all’acquirente o da questa acquistate senza versamento dei corrispettivi o dei diritti di licenza ad un licenziante. Occorre, pertanto, fare riferimento agli accordi contrattuali tra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE dell’1/ 12/2013, al fine di stabilire l’effettiva volontà delle parti in ordine alla sussistenza di una delle condizioni sopra indicate. In forza di detto accordo la RAGIONE_SOCIALE ha autorizzato la RAGIONE_SOCIALE ad utilizzare alcuni marchi RAGIONE_SOCIALE su capi di abbigliamento dietro corresponsione dei relativi diritti di licenza. In base all’art. 3. 1 dell’accordo le royalties sono calcolate sulle vendite nette (net sales) e quindi sul prezzo di fattura al quale i capi di abbigliamento sono venduti dalla licenziataria ai clienti, con espressa esclusione delle vendite alla licenziante svizzera, agli affiliati della RAGIONE_SOCIALE, ai
licenziatari e sub licenziatari della licenziante svizzera (pag. 3 accordo).L’art. 3.2 dell’accordo prevede poi che i capi di abbigliamento a marchio RAGIONE_SOCIALE possano essere acquistati dalla licenziataria RAGIONE_SOCIALE da qualsiasi fonte di approvvigionamento indipendentemente dal pagamento , delle royalties che, quindi, è irrilevante rispetto alla fornitura effettuata dai produttori esteri, importando in Italia i prodotti attraverso la RAGIONE_SOCIALE, per la loro commercializzazione ed essendo attribuito alla Licenziante svizzera, ai sensi dell’art. 4 dell’accordo, soltanto un controllo di qualità. Da quanto risulta dalle clausole dell’accordo appare evidente che nessuna delle tre condizioni sopra elencate per l’inclusione delle royalties nel valore delle merci in dogana è realizzata. A ciò aggiungasi che nel caso in esame è carente l’ulteriore elemento del controllo penetrante della licenziante sulla licenziataria che, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, si concretizza qualora il titolare dei diritti immateriali sia dotato di poteri di controllo sulla scelta del produttore e sulla sua attività e sia destinatario del corrispettivo del diritti, nel qual caso soltanto i diritti di licenza possono essere aggiunti al valore della transazione in dogana… »;
-) il valore di giudicato della predetta sentenza, anche se non rilevante in quanto tale nel caso in esame, convinceva il Collegio dell’opportunità di rifarsi a tale decisione, ponendola a motivazione della presente sentenza.
L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a due motivi.
Le società RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALESwitzerland) RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE resistono con controricorso e ricorso incidentale con un unico motivo e memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo del ricorso principale deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la nullità della sentenza per vizio di motivazione apparente, ex art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. e art. 118 disp att. cod. proc. civ.. Nella decisione, il Collegio aveva attribuito rilevanza alla sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia «n. 4718/2019» non in quanto avente valore
di giudicato, bensì per le argomentazioni giuridiche ivi espresse e, pur avendo superato completamente la questione del giudicato esterno, aveva omesso di argomentare le ragioni logico-giuridiche che lo inducevano a ritenere condivisibile la pronuncia di secondo grado richiamata, applicando asetticamente gli argomenti oggetto della stessa. La decisione, quindi, si limitava a riportare quanto disposto da altro giudice in separato giudizio.
2. Il secondo motivo del ricorso principale deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione degli artt. 69-76 del Codice Doganale dell’Unione (CDU), Reg. (UE) 952/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio, entrato in vigore il 1° maggio 2016, nonché dell’art. 71 del Regolamento delegato (UE) 2015/2446 della Commissione, degli artt. 127-146 del Regolamento di esecuzione (UE) 2015/2447 della Commissione ed, infine, dell’art. 1362 cod. civ. e della specifica disciplina fissata al punto 22 della TAXUD/B4/2016-IT n. 808781. La sentenza impugnata aveva violato le norme indicate, perché, nel caso di specie, l’Ufficio, come emergeva dagli atti di causa, esaminato il « Sublicense agreement » e valutato il contenuto complessivo dell’accordo, aveva rappresentato che il pagamento delle royalties all’importazione della merce a marchio RAGIONE_SOCIALE risultava essere una «condizione della vendita». Invero, sebbene non formalmente richieste per ogni singola importazione, il « Sublicense agreement » ne prevedeva il pagamento all’art. 3.1 nell’ambito di un rapporto continuativo tra le parti e le considerava condizione essenziale del contratto tanto da prevedere che il mancato pagamento di esse rappresentasse una causa di risoluzione del contratto medesimo (art. 8.2); inoltre, era concordato dalle parti che il requisito del pagamento delle royalties doveva regolare tutte le vendite di prodotti indipendentemente dalle modalità di approvvigionamento del Licenziatario (art. 4.1), con la conseguenza che il licenziatario poteva comprare le merci da chiunque produceva e/o distribuiva merce con
marchio RAGIONE_SOCIALE, ma in ogni caso doveva pagare le royalties al licenziante (o ad un terzo che poteva essere proprietario o licenziante dei diritti in questione). In conseguenza della risoluzione del contratto, la licenziataria cessava immediatamente dalla possibilità di commercializzare, distribuire, vendere i prodotti soggetti a licenza (art. 8.3, lett. ‘a’ e ‘b’). Contrariamente a quanto sostenuto dai giudici di secondo grado, la prima condizione, di cui alla lett. c) del citato art. 136, comma 4, risultava pienamente integrata nel contratto di sublicenza dell’1 dicembre 2014, con cui la RAGIONE_SOCIALE aveva autorizzato la RAGIONE_SOCIALE ad utilizzare alcuni marchi «RAGIONE_SOCIALE» per la loro rappresentazione su capi di abbigliamento e tale condizione risultava esplicitata dalle seguenti clausole del contratto agli atti: 1) art. 4.1 secondo cui le royalties erano dovute a prescindere dalle modalità di approvvigionamento, pertanto, il licenziatario poteva comprare da chiunque produceva e/o distribuiva merce con marchio RAGIONE_SOCIALE ma in ogni caso doveva corrispondere le royalties al licenziante; 2) art. 8.2, che prevedeva una clausola risolutiva espressa, nel caso in cui il licenziatario commetteva una violazione o un’inadempienza di uno qualsiasi dei suoi obblighi previsti dal contratto, tra cui indubbiamente la corresponsione delle royalties; 3) art. 8.3, in particolare lett. ‘a’ e ‘b’, secondo cui, in conseguenza della risoluzione del contratto, la licenziataria cessava immediatamente dalla possibilità di commercializzare, distribuire, vendere i prodotti soggetti a licenza. Le clausole previste agli artt. 4.1, 8.2 e 8.3 del contratto deponevano, poi, nel senso che il venditore non era disposto a vendere le merci senza che fosse pagato il corrispettivo del diritto di licenza. I giudici di secondo grado avevano pure errato, laddove sostenevano l’assenza del «controllo penetrante della licenziante sulla licenziataria», in quanto all’art. 4.2 del contratto era previsto che, qualora il licenziatario riteneva che i prodotti non ottemperassero ai propri standard qualitativi, nonché alle caratteristiche e ai requisiti tecnici, il licenziante
doveva notificare i difetti riscontrati e il licenziatario non poteva distribuire o vendere, ovvero autorizzare la distribuzione o la vendita dei prodotti in cui fossero stati riscontrati tali difetti, fino a quando non venivano corretti in maniera ragionevolmente soddisfacente per il licenziante, fatta eccezione per i prodotti di seconda scelta. Peraltro, le royalties dovevano essere incluse nel valore da dichiarare in dogana anche quando facevano riferimento a rapporti commerciali di società appartenenti ad uno stesso gruppo e, nella fattispecie in esame, da un’attenta analisi del contratto di licenza, si rilevava proprio l’esplicito e dettagliato controllo totale da parte del licenziante sul licenziatario e non già, come sostenuto dal Giudice del gravame, solamente un controllo di qualità. I giudici di secondo grado, ancora, avevano compiuto un errore di valutazione connesso alla rilevanza che risulta essere stata attribuita al tempo ed alla modalità di calcolo delle royalties (conteggiate, come noto, dopo l’importazione e sulla base del fatturato netto di rivendita), così confondendo i presupposti normativi per la daziabilità delle royalties con quella che era soltanto una delle molteplici modalità (del tutto irrilevanti ai presenti fini) con cui le royalties stesse potevano essere determinate.
3. Il primo ed unico motivo del ricorso incidentale deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la v iolazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c od. civ., nonché del principio di intangibilità del giudicato nazionale, di cui all’ordinamento dell’Unione Europea e quale elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. La sentenza impugnata era errata, nella parte in cui aveva ritenuto che gli effetti esterni del giudicato non si producevano in quanto preclusi dall’applicazione di norme UE . La circostanza per cui il diritto UE non prevaleva sul giudicato nazionale risultava evidenziata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (Corte di Giustizia, sentenza 16 marzo 2006, causa C-234/04; Corte di Giustizia, sentenza 1 giugno 1999, causa C-126/97; Corte di Giustizia, sentenza 10 luglio 2014, C-
213/13) e ciò anche alla luce del principio di cooperazione derivante dall’art. 10 del Trattato CE. Nel caso di specie, la sentenza n. 4718/2019, depositata in data 25 novembre 2019, aveva deciso tra le stesse parti, in relazione al medesimo contratto di licenza e medesima tipologia di importazioni, che il pagamento delle royalties non costituiva condizione di vendita (« Da quanto risulta dalle clausole dell’accordo appare evidente che nessuna delle tre condizioni sopra elencate per l’inclusione elle royalties nel valore delle merci in dogana è realizzata. A ciò aggiungasi che nel caso in esame è carente l’ulteriore elemen to del controllo penetrante della licenziante sulla licenziataria che, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, si concretizza qualora il titolare dei diritti immateriali sia dotato di poteri di controllo sulla scelta del produttore e sulla sua attività e sia destinatario del corrispettivo del diritti, nel qual caso soltanto i diritti di licenza possono essere aggiunti al valore della transazione in dogana »). Trovava, dunque applicazione, ai sensi dell’art. 2909 cod. civ., il principio del giudicato esterno, stante la comunanza dei presupposti oggettivi tra la pronuncia definitiva e quella oggetto del presente giudizio (i.e. identico contratto di fornitura di merce e medesimi rilievi sulle relative clausole), l’identità delle parti e del tipo di imposte richieste.
L’unico motivo del ricorso incidentale , che va esaminato in via prioritaria, unitamente all’eccezione sollevata in via preliminare di inammissibilità del ricorso per preclusione derivante da giudicato tra le stesse parti e relativamente alle stesse questioni, riguardanti (il motivo e l’eccezione) il passaggio in giudicato delle se ntenze nn. 4715/2019, 4718/2019, 2467/2021 della Commissione tributaria regionale della Lombardia e n. 177/2023 della Commissione tributaria provinciale di Como, è inammissibile, così come inammissibile è l’eccezione sollevata per intervenuto giudicato (cfr. anche memoria depositata con modalità informatiche in data 12-13 settembre 2024).
4.1 Occorre, infatti, muovere dal rilievo che « il principio della rilevabilità del giudicato esterno va coordinato con l’onere di autosufficienza del ricorso; pertanto, la parte ricorrente che deduca
l’esistenza del giudicato deve, a pena d’inammissibilità del ricorso, riprodurre in quest’ultimo il testo integrale della sentenza che si assume essere passata in giudicato, non essendo a tal fine sufficiente il richiamo a stralci della motivazione » (Cass., 27 febbraio 2024, n. 5126; Cass., 23 giugno 2017, n. 15737), necessitando, in particolare, il « richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo » (Cass., 8 marzo 2018, n. 5508), onere che, nel caso in esame, non è stato assolto dalle società controricorrenti.
4.2 Il motivo e l’eccezione sono, pure, infondati.
4.2.1 E’ necessario premettere che nel caso in esame viene in rilievo il giudicato sostanziale che trova la sua fonte normativa nell’art. 2909 cod. civ., a tenore del quale « l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa » e che, a differenza del giudicato formale di cui all’ art. 324 cod. proc. civ. (che determina il momento nel quale gli effetti della sentenza diventano immutabili, momento che viene individuato nell’esaurimento di tutti i mezzi di impugnazione oppure nel mancato esercizio del potere di impugnazione nei termini stabiliti), stabilisce i limiti oggettivi e soggettivi degli effetti sostanziali, ormai non più soggetti a modificazione, determinati dalla sentenza.
4.2.2 I limiti oggettivi del giudicato, che sono delineati dall’accertamento contenuto nella sentenza, corrispondono all’oggetto del processo e riguarda non solo quanto dedotto dalle parti (il c.d. giudicato esplicito o dedotto), ma anche le ragioni non specificamente dedotte che si presentano come un antecedente logico necessario rispetto alla pronuncia (c.d. deducibile o giudicato implicito) (Cass., 9 novembre 2022, n. 33021; Cass., 7 dicembre 2021, n. 38767; Cass., 12 marzo 2020, n. 7115; Cass., 26 febbraio 2019, n. 5486).
4.2.3 Come affermato da questa Corte, anche di recente, « il principio in virtù del quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile concerne i limiti oggettivi del giudicato, il cui ambito di operatività è correlato
all’oggetto del processo e riguarda, perciò, tutto quanto rientri nel suo perimetro, estendendosi non soltanto alle ragioni giuridiche e di fatto esercitate in giudizio, ma anche a tutte le possibili questioni, proponibili in via di azione o eccezione, che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici, essenziali e necessari, della pronuncia; i limiti oggettivi del giudicato, pertanto, anche con riguardo al deducibile, non si estendono a domande diverse per petitum e causa petendi, rispetto alle quali può porsi soltanto il problema di una eventuale preclusione che, tuttavia, non può ritenersi sussistente in ragione del mero rapporto di connessione intercorrente con una domanda già proposta in un giudizio precedente, in quanto la connessione incide normalmente sulla competenza del giudice, ma non postula il necessario cumulo delle domande connesse » (Cass., 11 gennaio 2024, n. 1259).
4.2.4 Ancora, nell’ambito del giudicato, si opera un’ulteriore distinzione tra giudicato interno e giudicato esterno (che è quello che rileva nel caso in esame) e mentre il giudicato interno si forma nell’ambito dello stesso processo, tra le stesse parti e sul medesimo oggetto, per effetto di una impugnazione parziale, con il conseguente corollario che sono coperti da giudicato i punti della sentenza non impugnati (Cass., 30 giugno 2022, n. 20951; Cass., 15 dicembre 2021, n. 40276; Cass., 18 settembre 2017, n. 21566; Cass., 17 settembre 2008, n. 23747; Cass., 23 agosto 2007, n. 17935), i l giudicato esterno si forma in un diverso giudizio, tra le stesse parti ed avente lo stesso oggetto e ciò anche se il giudizio successivo ha delle finalità diverse (Cass., 29 dicembre 2021, n. 41895, Cass., 1 luglio 2015, n. 13498; Cass., 30 ottobre 2012, n. 24433; Cass., 29 luglio 2011, n. 16675; Cass., Sez. U., 16 giugno 2006, n. 13916).
4.2.5 Ed invero, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sussiste giudicato esterno qualora due giudizi tra le stesse parti si riferiscano al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con
sentenza passata in giudicato; in tal caso, l’accertamento compiuto nel giudicato in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo del giudicato, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo (cfr. Cass., 29 dicembre 2021, n. 41895, in motivazione; Cass., 3 gennaio 2019, n. 37).
4.2.6 Più specificamente, il giudicato esterno impedisce la proposizione di un nuovo giudizio caratterizzato dalla identità dei predetti elementi (soggetti e oggetto) ed è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, anche nell’ipotesi in cui il medesimo si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, trattandosi di un dato che può essere assimilato agli elementi normativi astratti, in quanto destinato a fissare la regola del caso concreto, sicché il suo accertamento non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del «ne bis in idem», corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo e consistente nell’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione (Cass., 11 gennaio 2022, n. 571; Cass., 26 luglio 2021, n. 21375).
4.2.7 Dunque, qualora due giudizi tra le stesse parti facciano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto e tale efficacia, riguardante anche i rapporti di durata, non trova ostacolo, in materia tributaria, nel principio
dell’autonomia dei periodi d’imposta, in quanto l’indifferenza della fattispecie costitutiva dell’obbligazione relativa ad un determinato periodo rispetto ai fatti che si siano verificati al di fuori dello stesso si giustifica soltanto in relazione ai fatti non aventi caratteristica di durata e comunque variabili da periodo a periodo (ad esempio, la capacità contributiva, le spese deducibili), e non anche rispetto agli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi d’imposta (ad esempio, le qualificazioni giuridiche preliminari all’applicazione di una specifica disciplina tributaria), assumono carattere tendenzialmente permanente. In riferimento a tali elementi, il riconoscimento della capacità espansiva del giudicato appare d’altronde coerente non solo con l’oggetto del giudizio tributario, che attraverso l’impugnazione dell’atto mira all’accertamento nel merito della pretesa tributaria, entro i limiti posti dalle domande di parte, e quindi ad una pronuncia sostitutiva dell’accertamento dell’Amministrazione finanziaria (salvo che il giudizio non si risolva nell’annullamento dell’atto per vizi formali o per vizio di motivazione), ma anche con la considerazione unitaria del tributo dettata dalla sua stessa ciclicità, la quale impone, nel rispetto dei principi di ragionevolezza e di effettività della tutela giurisdizionale, di valorizzare l’efficacia regolamentare del giudicato tributario, quale «norma agendi» cui devono conformarsi tanto l’Amministrazione finanziaria quanto il contribuente nell’individuazione dei presupposti impositivi relativi ai successivi periodi d’imposta (Cass., 24 maggio 2022, n. 16684; Cass., 27 ottobre 2021, n. 38950; Cass., 20 febbraio 2020, n. 15171; Cass., 20 dicembre 2018, n. 32957).
4.3 Ciò posto, osserva la Corte che, nel caso di specie, non sia invocabile l’autorità del giudicato sostanziale esterno che opera, come già detto, entro i rigorosi limiti degli elementi costitutivi dell’azione, e presuppone, quindi, che la causa precedente e quella in atto abbiano in comune, oltre ai soggetti, anche il petitum e la causa petendi ,
restando irrilevante, a tal fine, l’eventuale identità delle questioni giuridiche o di fatto da esaminare per pervenire alla decisione (cfr. Cass., 1 marzo 2024, n. 5515; Cass., 7 giugno 2021, n. 15817; Cass., 25 giugno 2018, n. 16688; Cass., 24 marzo 2014, n. 6830).
4.3.1 Ed invero, è sufficiente rilevare, al riguardo, che la causa in esame riguarda bollette doganali afferenti ad operazioni doganali diverse rispetto a quelle in relazione alle quali le società hanno dedotto la sussistenza del giudicato esterno, ciò che rende diverso il « petitum » degli atti di contestazione degli illeciti doganali oggetto di impugnazione nelle rispettive cause.
4.3.2 E’ utile precisare che, nel caso di specie, il fatto generatore dell’imposta è retto dalla dichiarazione in dogana e sul valore doganale delle merci importate oggetto della bolletta doganale; vi è, dunque, una dichiarazione doganale, atto con il quale il soggetto interessato manifesta la volontà di vincolare quelle determinate merci dichiarate ad uno specifico regime doganale e la merce dichiarata è proprio quella oggetto della dichiarazione, con il valore doganale esposto in dichiarazione, ovvero il fatto generatore dell’obbligazione doganale è retto dalla dichiarazione in dogana (Cass., 26 febbraio 2019, n. 5560). Inoltre, questa Corte ha pure affermato che, nella specifica materia doganale, non sussiste un equipollente alla « diversità di periodo d’imposta », che, sicuramente, non è identificabile nel compimento delle singole operazioni doganali e ha statuito il principio di diritto secondo cui « In tema di sanzioni doganali è inapplicabile il regime della continuazione di cui all’art. 12, comma 5, d.lgs. n. 472 del 1997, che postula che le violazioni siano state “commesse in periodi d’imposta diversi”, nozione questa estranea alla materia doganale, senza che ad essa possa ritenersi equivalente il compimento delle singole operazioni d’importazione o esportazione » (Cass., 21 settembre 2020, n. 19663), il che esclude, al contempo, la problematica della configurabilità, nella vicenda in esame, dell’istituto
del giudicato esterno in caso di situazioni giuridiche di durata, (nella specie, per quanto rilevato, del tutto assenti), che, come già rilevato, opera in presenza di elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi d’imposta, assumono carattere tendenzialmente permanente.
4.4 Né, all’evidenza, in assenza di un giudicato, viene in rilievo un problema di compatibilità o di contrasto tra norme europee produttive di effetti diretti e disposizioni nazionali di diritto sostanziale, quale quella di cui all’art. 2909 cod. civ., con la conseguente disapplicazione delle disposizioni nazionali in virtù del carattere di supremazia dell’ordinamento dell’Unione.
4.4.1 In proposito, occorre precisare che la questione dei rapporti tra la normativa nazionale che fissa la autorità del giudicato ed il diritto dell’Unione è stata già esaminata da questa Corte sulla base dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia, che ha affermato che « Il diritto dell ‘UE, così come costantemente interpretato dalla corte di giustizia (sentenze 3 settembre 2009, in causa C-2/08, RAGIONE_SOCIALE, e 16 marzo 2006, in causa C234/04, COGNOME) non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una violazione del diritto unionale da parte di tale decisione. Invero, la corte di giustizia ha fatto salve le ipotesi, assolutamente eccezionali, in cui il rinvio pregiudiziale è possibile o obbligatorio anche a fronte di passaggio in giudicato della sentenza impugnata, ipotesi che ricorrono allorquando sussistano discriminazioni tra situazioni di diritto unionale e situazioni di diritto interno ovvero che sia reso in pratica impossibile o estremamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento UE. Neppure sussistono le ipotesi eccezionali in cui, invece, il giudice nazionale può superare il giudicato: non vertesi in ipotesi di discriminazioni tra situazioni di diritto dell’UE e situazioni di diritto interno, né le norme dell’ordinamento nazionale da
cui deriva l’inammissibilità del ricorso in cassazione rendono in pratica impossibile o estremamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento unionale » (Cass., 13 luglio 2018, n. 18642 e, più di recente, Cass., 6 agosto 2019, n. 2100 e Cass., 14 dicembre 2021, n. 397902).
4.4.2 Ed invero, « Il giudice dell’Unione ha, con plurime pronunce (per tutte: Corte di Giustizia 4 marzo 2020, in causa C-34/19, punti 65-71, Telecom s.p.a. e giurisprudenza ivi citata ) evidenziato che: – qualora le norme procedurali interne applicabili prevedano la possibilità, a determinate condizioni, per il giudice nazionale di ritornare su una decisione munita di autorità di giudicato, per rendere la situazione compatibile con il diritto nazionale, tale possibilità deve essere esercitata – conformemente ai principi di equivalenza e di effettività e sempre che dette condizioni siano soddisfatte – per ripristinare la conformità della situazione oggetto di giudizio alla normativa dell’Unione; – in caso diverso, il diritto dell’Unione non impone che, per tener conto dell’interpretazione di una disposizione pertinente di tale diritto adottata dalla Corte, un organo giurisdizionale nazionale debba necessariamente riesaminare una sua decisione che goda dell’autorità di cosa giudicata . A tale riguardo la Corte di Giustizia ha evidenziato l’importanza che riveste, sia nell’ordinamento giuridico dell’Unione sia negli ordinamenti giuridici nazionali, il principio dell’autorità della cosa giudicata. Infatti, al fine di garantire tanto la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici quanto una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione. Il diritto dell’Unione non impone, dunque, ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetta di porre rimedio alla violazione di una disposizione del diritto
dell’Unione, di qualunque natura essa sia. Nella sentenza del 10 luglio 2014 in causa C-213/13 COGNOME la Corte di Giustizia ha chiarito che il suddetto principio non è posto in discussione dalla propria sentenza 18 luglio 2008, in causa C-119/05 COGNOME spa (secondo la quale il diritto dell’Unione osta all’applicazione di una disposizione nazionale, come l’articolo 2909 del codice civile italiano, che mira a consacrare il principio dell’intangibilità del giudicato nei limiti in cui la sua applicazione impedirebbe il recupero di un aiuto di Stato concesso in violazione del diritto dell’Unione e dichiarato incompatibile con il mercato comune da una decisione della Commissione europea divenuta definitiva). Si è precisato che nel caso ivi esaminato si trattava di una situazione del tutto particolare, in cui erano in questione principi di disciplina della ripartizione delle competenze tra gli Stati membri e l’Unione europea in materia di aiuti di Stato » (Cass., 12 maggio 2022, n. 15102, in motivazione; Cass. 14 dicembre 2021, n. 39790).
4.4.3 Le considerazioni sopra espresse sono state esaminate anche alla luce della giurisprudenza unionale in materia di limiti di applicabilità del giudicato quando la pretesa impositiva ha avuto ad oggetto, quale quella in esame, tributi armonizzati, cioè sottoposti alla specifica disciplina e questa Corte ha rilevato che « Peraltro trattandosi pur sempre dell’opponibilità di un giudicato, con riferimento ai tributi armonizzati occorre tenere conto della regola di diritto ricavabile da CGUE 3 settembre 2009, in causa C-2/08, RAGIONE_SOCIALE, secondo la quale, in assenza di una normativa unionale in materia, ‘ le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi. Esse non devono tuttavia essere meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né essere strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico
comunitario (principio di effettività) ‘ ; 2.4.1. Sicché, secondo la menzionata sentenza, il diritto unionale osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 cod. civ., in una causa vertente sull’IVA concernente un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, ‘ in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta ‘ . 2.4.2. Tale principio è stato già recepito dalla giurisprudenza della S.C. in materia di IVA, affermando che non è possibile estendere ad altri periodi di imposta un giudicato in contrasto con la disciplina unionale, avente carattere imperativo, proprio perché ne comprometterebbe la sua effettività (Cass. n. 9710 del 19/04/2018; conf. Cass. n. 8855 del 04/05/2016; Cass. 5 ottobre 2012, n. 16996; Cass. 19 maggio 2010, n. 12249). 2.4.3. Peraltro, è la stessa sentenza Olimpiclub a chiarire che, in linea di principio, gli effetti del giudicato vanno salvaguardati salvo ipotesi del tutto particolari (si veda, in senso analogo, anche CGUE 10 luglio 2014, in causa C-213/13, COGNOME, § 58) o che investono la stessa ripartizione di competenze tra gli Stati membri e la UE (cfr. CGUE 18 luglio 2007, in causa C-119/05, COGNOME). Si tratta, pertanto, di un principio da applicare restrittivamente, in quanto ‘ il diritto dell’Unione non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con detto diritto ‘ (CGUE 10 luglio 2014, cit., § 59) » e ha concluso affermando che «2.5. Orbene, non è dubbio che la materia dei dazi doganali risenta, al pari dell’IVA, delle norme dettate dalla UE, trattandosi di risorsa propria dell’Unione. E, tuttavia, non può non evidenziarsi che, diversamente dall’IVA, l’imposta non è suscettibile di applicazione periodica, ma riguarda singole importazioni, sicché l’occasionale impedimento all’effettività del diritto unionale
conseguente all’applicabilità della regola prevista dall’art. 2909 cod. civ. non è di rilevanza pari a quanto prospettato dalla CGUE nella sentenza RAGIONE_SOCIALE, laddove la non corretta applicazione del diritto dell’unione «si riprodurrebbe per ciascun nuovo esercizio fiscale, senza che sia possibile correggere tale erronea interpretazione» (CGUE 3 settembre 2009, cit., § 30 )» (Cass., 16 dicembre 2019, n. 33095, in motivazione).
4.4.4 In conclusione, la Corte di giustizia, tenuto conto dei precedenti sopra indicati, ha confermato il valore che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario che negli ordinamenti giuridici nazionali e che il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, fatte salve situazioni eccezionali (a titolo di esempio, aiuti di Stato e pratiche abusive in tema di Iva), in cui il giudicato non può impedire al giudice nazionale di applicare le norme comunitarie, precisando che una interpretazione dell’art. 2909 cod. civ., che consenta di ritenere comunque prevalente l’autorità della cosa giudicata rispetto all’esigenza di tutelare l ‘ applicazione del diritto comunitario, non è corretta, in quanto ostacoli di tale portata all’applicazione effettiva delle norme comunitarie in materia di tributi unionali non possono essere ragionevolmente giustificati dal principio della certezza del diritto e devono essere, dunque, considerati in contrasto con il principio di effettività. Ancora, le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi (adesso principio di competenza ex art. del TUE, che richiama l’art 47 della Carta, cfr. Corte di giustizia, sentenza 2 marzo 2021, causa C-824/18) e non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano
situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né essere strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività).
4.5 In ultimo, è utile precisare che il giudicato giammai può riguardare l’attività interpretativa delle norme di diritto, in quanto « l’attività interpretativa delle norme giuridiche compiuta dal Giudice, consustanziale allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale, non può mai costituire limite all’attività esegetica esercitata da altro Giudice, dovendosi richiamare a tale proposito il distinto modo in cui opera il vincolo determinato dall’efficacia oggettiva del giudicato ex art. 2909 cod. civ. rispetto a quello imposto, in altri ordinamenti giuridici, dal principio dello ‘ stare decisis ‘ (cioè, del precedente giurisprudenziale vincolante) che non trova riconoscimento nell’attuale ordinamento processuale (cfr. Cass, 15 luglio 2016, n. 14509, Cass., 21 ottobre 2013, n. 23723) », con la conseguenza che « l’interpretazione ed individuazione della norma giuridica posta a fondamento della pronuncia -salvo che su tale pronuncia si sia formato il giudicato interno -non limitano il Giudice dell’impugnazione nel potere di individuare ed interpretare la norma applicabile al caso concreto e non sono, quindi, suscettibili di passare in giudicato autonomamente dalla domanda o dal capo cui si riferiscono, assolvendo ad una funzione meramente strumentale rispetto alla decisione (cfr. Cass. 20 ottobre 2010, n. 216561, Cass. 23 dicembre 2003, n. 19679) » (cfr. Cass., 5 marzo 2024, n. 5822, in motivazione). 4.6 Né può farsi richiamo al principio, più volte enunciato in sede di legittimità, in forza del quale « se l’accertamento dell’esistenza, validità e natura giuridica di un contratto, fonte di un rapporto obbligatorio, costituisce il presupposto logico -giuridico di un diritto derivatone, il giudicato si estende al predetto accertamento e pertanto spiega effetto in ogni altro giudizio, tra le stesse parti, nel quale il medesimo contratto
è posto a fondamento di ulteriori diritti, inerenti al medesimo rapporto (Cass., Sez. 3, 24 marzo 2006, n. 6628; Cass., Sez. L, 14 agosto 1999, n. 8680; Cass., Sez. 3, 29 settembre 1997, n. 9548; Cass., Sez. L, 13 maggio 1995, n. 5243; Cass., Sez. 1, 22 novembre 1990, n. 11277) » (Cass., 14 giugno 2024, 16618, in motivazione), poiché, per quanto rilevato, tale principio postula che i giudizi interessati siano fra le stesse parti e vertano sul medesimo negozio o rapporto giuridico, ancorché le finalità dei due giudizi siano diverse, evenienza che non sussiste nella fattispecie in esame. Solo in tal caso « la denuncia di violazione del giudicato esterno attribuisce poi a questa Corte il potere di accertare direttamente l’esistenza e la portata del giudicato esterno con cognizione piena che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice di merito » (Cass., Sez. U., 28 novembre 2007, n. 24664).
4.7 In conclusione, il primo ed unico motivo del ricorso incidentale e l’eccezione di giudicato esterno sollevata nel controricorso, devono essere rigettati in applicazione del seguente principio di diritto: « Il diritto dell’UE, come interpretato dalla Corte di giustizia nel rispetto del principio di competenza ex art. 4 del TFUE, non impone al giudice nazionale, anche in tema di tributi armonizzati, di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una violazione del diritto unionale da parte di tale decisione, fatte salve situazioni eccezionali (a titolo di esempio, aiuti di Stato e pratiche abusive in tema di Iva), in cui il giudicato, in ossequio ai principi di equivalenza e di effettività, non può impedire al giudice nazionale di applicare le norme comunitarie».
Passando ora al ricorso principale, l’esame delle esposte censure, porta all’accoglimento del primo motivo di ricorso con assorbimento del secondo.
5.1 E’ orientamento consolidato di questa Corte che gli estremi della dedotta doglianza di nullità processuale della sentenza, per motivazione totalmente mancante o motivazione apparente, sono integrati nell’ipotesi di « assenza » della motivazione, quando cioè « non sia possibile individuare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione », non configurabile nel caso di « una pur succinta esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione impugnata » (cfr. Cass., 15 novembre 2019, n. 29721) ovvero nel caso di « motivazione solo apparente, che non costituisce espressione di un autonomo processo deliberativo, quale la sentenza di appello motivata “per relationem” alla sentenza di primo grado » (cfr. Cass., 25 ottobre 2018, n. 27112) ovvero (è quello che rileva in questa sede) qualora la motivazione « risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione » (Cass., 25 settembre 2018, n. 22598; ipotesi ravvisata anche in caso di « contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, che rendono incomprensibili le ragioni poste a base della decisione », Cass., 25 giugno 2018, n. 16611).
5.2 Questa Corte, poi, con orientamento condiviso, ha affermato che la sentenza d’appello può essere motivata per relationem , purché il giudice del gravame dia conto, sia pur sinteticamente, delle ragioni della conferma in relazione ai motivi di impugnazione ovvero della identità delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle già esaminate in primo grado, sicché dalla lettura della parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un percorso argomentativo esaustivo e coerente (cfr. Cass., 5 novembre 2018, n. 28139; Cass.,
5 agosto 2019, n. 20883; Cass., 3 febbraio 2021, n. 2397; Cass., 2 agosto 2022, n. 23997, in motivazione).
5.3 In altre parole, la motivazione per relationem non è inesistente e la sentenza d’appello può essere motivata per relationem , purché il giudice del gravame dia conto, sia pur sinteticamente, delle ragioni della conferma in relazione ai motivi di impugnazione ovvero della identità delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle già esaminate in primo grado, sicché dalla lettura della parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un percorso argomentativo esaustivo e coerente, mentre va cassata la decisione con cui la corte territoriale si sia limitata ad aderire ad altra pronuncia in modo acritico senza alcuna valutazione di infondatezza dei motivi di gravame.
5.4 Nel caso di specie, si è verificata questa evenienza, poiché la Commissione tributaria regionale, dopo avere genericamente affermato che l’esegesi dell’accordo di licenza compiuto dal primo giudice era corretto e convincente, conforme alla normativa anche unionale e privo di anomalie interpretative, ha trascritto virgolettato la decisione n. 4718 del 2019, affermando, in modo contradditorio, dapprima che tale decisione, riguardante le stesse parti ma rettifiche relative all’annualità precedente, aveva valore di giudicato (pag. 4) e, subito dopo, che « il valore di giudicato della predetta sentenza, anche se non rilevante in quanto tale nel caso in esame, convinceva il collegio dell’opportunità di rifarsi a tale decisione, ponendola a motivazione della presente sentenza » (pag. 5). I giudici di secondo grado, dunque, si sono limitati a dichiarare infondato il gravame proposto dall’Agenzia delle Dogane, richiamando la sentenza n. 4718 del 2019 senza spiegare, in alcun modo, le ragioni poste a fondamento del convincimento di infondatezza delle censure prospettate nell’atto di gravame (pure ampiamente riportate alle pagine 1 e 2 della sentenza impugnata) e senza esplicitare una valutazione effettiva e doverosa, in quanto giudici di appello, della infondatezza dei motivi di gravame, alla
luce, peraltro, del contenuto motivazionale della sentenza di primo grado di primo grado che aveva accolto l’appello della società importatrice, del rappresentante doganale indiretto e del rappresentante fiscale della stessa società. Si tratta, dunque, di una motivazione del tutto astratta, con la quale la Commissione tributaria regionale si è limitata ad esprimere la propria adesione alla sentenza n. 4718 del 2019, prescindendo da qualsiasi riferimento ai fatti allegati dall’Agenzia appellante, tanto da adottare una motivazione priva di ogni intelligibile aggancio con la fattispecie concreta portata alla sua cognizione. Né, del resto, una siffatta motivazione può ritenersi legittimamente resa per relationem , in assenza, come già detto, di un comprensibile richiamo ai fatti allegati dall’Agenzia appellante e alle ragioni del gravame, così da risolversi in una acritica adesione al provvedimento trascritto, in assenza di una autonoma ed effettiva valutazione, avendo omesso i giudici di appello di argomentare le ragioni logico-giuridiche che inducevano a ritenere condivisibile la pronuncia di secondo grado richiamata ed avendo, piuttosto asetticamente gli argomenti oggetto della stessa. Deve, quindi, concludersi, condivisibilmente con la prospettazione erariale, che la decisione impugnata si è limitava a riportare quanto disposto da altro giudice in separato giudizio. In conclusione, i giudici di secondo grado non hanno specificato, con una valutazione autonoma, gli elementi in base ai quali le royalties non dovevano essere addizionate al valore delle merci importate, ovvero il pagamento delle royalties non doveva essere considerato come una condizione di vendita delle merci importate.
Per le ragioni di cui sopra, va accolto il primo motivo del ricorso principale, con assorbimento del secondo motivo del ricorso principale e va rigettato il ricorso incidentale; la sentenza impugnata va cassata, in relazione al motivo accolto, e la causa va rinviata alla Corte di
giustizia di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale, con assorbimento del secondo motivo, e rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia la causa alla Corte di giustizia di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle società ricorrenti in via incidentale , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma del comma 1 bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, in data 24 settembre 2024.