Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 2132 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 5 Num. 2132 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/01/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 14004/2021 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE
-intimato- sul controricorso incidentale proposto da RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO
INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato RAGIONE_SOCIALE (P_IVA) che lo rappresenta e difende
-ricorrente incidentale- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. ROMA n. 3660/2020 depositata il 23/11/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10/01/2024 dal Co: COGNOME NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso;
udito per la parte contribuente l’AVV_NOTAIO e l’AVV_NOTAIO dello Stato NOME COGNOME .
FATTI DI CAUSA
La ricorrente società RAGIONE_SOCIALE era proprietaria di un compendio in agro romano, di cui era stata disposta l’occupazione d’urgenza da parte del Comune di Roma con atto del 28 agosto 1984, ai fini di realizzare un piano per l’edilizia economica e popolare (PEEP 12/V – ‘Quartaccio’). Nel novembre dello stesso anno vi era l’immissione in possesso della mano pubblica per il termine massimo di 48 mesi che correvano senza fosse completato l’iter espropriativo, seppure con una irreversibile trasformazione del fondo.
In data 1° marzo 1990 la predetta società contribuente evocava il Comune di Roma innanzi al Tribunale ordinario, chiedendo in via principale il riconoscimento della sua proprietà sul predetto fondo in uno con gli immobili realizzati ed acquistati per accessione; in via subordinata, ove non fosse possibile riconoscere il mantenimento della proprietà, condannarsi il Civico ente al risarcimento dei danni subiti per l’occupazione illegittima.
Nelle more dell’azione civile e nell’incertezza della permanenza del diritto di proprietà, la società contribuente profittava del meccanismo di rivalutazione dei beni immobili di cui agli articoli 10 e 11 della legge n. 342/2000, corrispondendo la dovuta imposta sostitutiva per €.2.163.004, 00 con pagamento mediante modelli F 24 nel luglio 2002, nel luglio 2003 e nel luglio 2004.
Pur non essendo ancora esaurito il percorso giurisdizionale interno avanti il giudice ordinario, in data 24 maggio 2004 la società contribuente ricorreva alla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), formulando le medesime domande pendenti avanti il giudice italiano, cioè: in via principale la restituzione dell’area e l’indennità per il suo mancato godimento e, in via subordinata, il risarcimento del danno per il valore venale dell’area, oltre al plusvalore apportato dalle opere realizzate, nonché il ristoro per i danni morali ed il rimborso delle spese di giudizio.
Il collegio di Strasburgo si pronunciava in data 23 ottobre 2012 con sentenza divenuta definitiva in data 23 gennaio 2013, riconoscendo il buon diritto della società contribuente a ricevere dal convenuto Stato italiano un’equa somma a riparazione del torto subito per opera dei suoi enti od organi.
Il 14 luglio 2017 la società contribuente impugnava il silenzio -rifiuto formatosi sulla sua istanza di rimborso delle somme corrisposte per la rivalutazione di un cespite non più suo, essendo stata accertata -a suo dire -la perdita della proprietà dal 1990 o, comunque, in data antecedente ai versamenti del periodo di imposta 2002 -2004.
Il collegio di prossimità non apprezzava le ragioni del ricorso, donde la contribuente interponeva appello che sortiva però il medesimo effetto. In particolare, il collegio del gravame negava alla sentenza della Corte EDU il carattere di accertamento della perdita di proprietà al 1990, vuoi ritenendo che fosse circostanza meramente riportata in narrativa, vuoi perché la citazione avanti il
Tribunale di Roma non aveva comportato alcuna rinuncia abdicativa alla proprietà (come invece ritenuto dalla contribuente), posto che in principalità se ne chiedeva ancora il riconoscimento, mentre solo in via subordinata -ove la si ritenesse irrimediabilmente persa -chiedeva il risarcimento del danno. Ancora, la CTR rilevava che l’effetto del giudicato della medesima sentenza poteva riflettersi unicamente sulla Repubblica italiana, unico convenuto in tale tipologia di giudizi, non riguardando né l’Ufficio impositore, né il civico ente. Ed infine, rilevava che la portata oggettiva della predetta sentenza riguardava un’equa somma di riparazione, ma non prevedeva alcun profilo di restituzione di tributi indebitamente versati. Dubitava infine della regolarità dell’accesso alla procedura convenzionale, per essersi esperita l’azione prima dell’esaurimento dei gradi di giudizio nell’ordinamento interno.
Completava argomentando non essersi fornita prova univoca della riferibilità delle somme pagate al compendio immobiliare oggetto della procedura ablatoria.
Avverso questa sentenza ricorre la società contribuente affidandosi a due mezzi, cui replica il patrono erariale con tempestivo controricorso ed interponendo altresì ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo.
Il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, ha depositato requisitoria scritta in forma di memoria, chiedendo il rigetto del ricorso.
In prossimità dell’udienza la parte contribuente ha altresì depositato memoria ad illustrazione dei propri argomenti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Vengono proposti due mezzi di ricorso principale.
Con il primo motivo si profila censura ex articolo 360 numero 3 del codice di procedura civile, per violazione e falsa applicazione dell’articolo 38 del DPR numero 600 del 1973, dell’articolo 2033 del codice civile e dell’articolo 46 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo. Nella sostanza si critica la sentenza d’appello per aver ritenuto che le pronunce della Corte di Strasburgo non abbiano piena e diretta efficacia nell’ordinamento interno italiano e si lamenta non sia stata riconosciuta la perdita della proprietà del compendio immobiliare in oggetto a partire dal 1990.
Con il secondo motivo si profila censura ai sensi dell’articolo 360 numero 4 del codice di procedura civile per violazione delle norme sul riparto probatorio nel processo tributario, criticando la sentenza d’appello per avere ritenuto non univocamente riferibile al terreno in oggetto l’imposta sostitutiva versata per la sua rivalutazione e qui richiesta a rimborso. Nella sostanza si afferma di aver prodotto documentazione che collega le somme versate alla rivalutazione del terreno oggetto di occupazione d’urgenza, di cui si afferma la perdita della proprietà a far data dal 1990.
Con l’unico motivo di ricorso incidentale si profila censura ai sensi dell’articolo 360 numero 3 del codice di procedura civile per violazione dell’articolo 38, primo comma, del DPR numero 602 del 1973 per non avere rilevato la decadenza della contribuente dal diritto ad avere rimborso, in quanto la domanda è successiva ai 48 mesi dai singoli versamenti, ma altresì è successiva ai due anni dalla definitività della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, consolidatasi il 23 gennaio 2013. Ed infatti viene ricordato come il termine decadenziale per il rimborso decorra dal versamento quando la non debenza sia originaria, in base al citato articolo 38; mentre decorra (per due anni) da quando si è verificato il presupposto della restituzione, a norma dell’articolo 21, secondo comma, del decreto legislativo numero 546 del 1992.
Il primo motivo del ricorso principale non si confronta con la ratio decidendi della sentenza ed è pertanto inammissibile.
Dalla lettura della pronuncia in scrutinio emerge come il collegio d’appello non abbia negato, in linea di principio, la diretta efficacia delle sentenze CEDU nell’ordinamento italiano, ma abbia negato
che essa contenga l’accertamento vincolante sulla data di perdita della proprietà del bene in oggetto da parte della società immobiliare qui ricorrente. Ed infatti, correttamente, il giudice d’appello rileva che la data del 1990 sia riportata in narrativa della predetta sentenza CEDU e che, comunque, da essa non posso ricavarsi alcuna accertamento sulla data di effettiva perdita della proprietà, anche considerando che quella data, cioè quella della proposizione dell’azione civile avanti il tribunale di Roma, è stata individuata dalla società contribuente stessa, sul motivo che contiene una rinuncia abdicativa alla stessa proprietà nel momento in cui è formulata la domanda risarcitoria.
Senonché, la rinuncia abdicativa, come tutti gli atti di rinuncia ai propri diritti, deve essere univoca; al contrario, nel caso che occupa, l’azione civile esperita avanti il tribunale di Roma nel 1990 conteneva due domande: in principalità l’accertamento del mantenimento della proprietà e la restituzione dei beni usurpati; in subordine, ove venisse rigettata la prima, per l’accertamento della perdita di proprietà, era chiesta la corresponsione di adeguato risarcimento o indennizzo. Come si vede, trattasi di richiesta eventuale e non può essere univoco ciò che è dato per eventuale o subordinato (cfr. Cass. II, n. 16061/2019; Cass. III, n. 460/09).
Altresì, la sentenza in scrutinio non ha negato, per ulteriore profilo, la diretta rilevanza in Italia delle sentenze della Corte di Strasburgo, ma ne ha riferita l’efficacia nei confronti dello Stato italiano, cui compete offrire l’equa riparazione prevista in sentenza, che non si riflette sui suoi organi o enti.
Deve peraltro aggiungersi, che quanto versato non è tributo impositivo che grava sul proprietario di un bene immobile quale concorso alle spese pubbliche, fondamentale dovere previsto dalla Carta repubblicana, bensì trattasi di imposta correlata ad una rivalutazione in base ad una disposizione di legge che consente ai proprietari di allibrare a maggior valore i propri beni, quale
comodità futura sia per i propri bilanci, sia per l’accertamento del valore nei successivi atti negoziali. Trattasi cioè di una facoltà concessa alla generalità dei proprietari e lasciata alla propria autonomia discrezionale, donde il suo versamento, cui segue un beneficio, non è soggetto a rimborso secondo le regole proprio della restituzione dell’indebito tributario. In fattispecie simili, ancorché non sovrapponibili, comunque riguardanti istituti di rivalutazione di cespiti, previa corresponsione di tributo, questa Corte ha ritenuto che sebbene le denunce dei redditi costituiscano di norma delle dichiarazioni di scienza e come tali possano essere emendate dal contribuente in presenza di errori che lo espongano al pagamento di tributi maggiori, tuttavia, qualora la legge subordini la concessione di un beneficio fiscale ad una precisa manifestazione di volontà del contribuente da compiersi attraverso la compilazione di un modulo, detta dichiarazione assume il valore di atto negoziale, come tale irretrattabile anche in caso di errore (in quanto recante indicazioni volte a mutare la base imponibile e come tali inidonee a costituire oggetto di un mero errore formale), salvo che il contribuente dimostri che lo stesso fosse conosciuto o conoscibile da parte dell’Amministrazione (cfr. Cass. VI -5 n. 18180/2015), sicché la libera scelta del contribuente di rideterminare il valore del bene e di versare l’imposta sostitutiva ex art. 7 del d.lgs. n. 448 del 2001 non è revocabile, per cui, in caso di pagamento rateale, restano dovuti i successivi versamenti, non potendo invocarsi il principio dell’emendabilità della dichiarazione in relazione a specifiche manifestazioni di volontà negoziale (cfr. Cass. VI -5, n. 26317/2016).
Pertanto, il versamento effettuato si è concretato, tuttalpiù, in un maggior valore del bene di cui si potrà eventualmente tener conto nel giudizio di equa riparazione, sempre che tale rivalutazione sia ritenuta utile da chi è divenuto effettivo proprietario del bene.
Il primo motivo non può quindi essere accolto.
Il secondo motivo, attinente alla prova della riferibilità delle somme versate per la rivalutazione del bene in oggetto, con particolare riguardo all’identificazione oggettiva del compendio immobiliare, non riveste interesse alla pronuncia. Ed infatti, il rigetto del motivo precedente, riguardante l’insussistenza del diritto al rimborso, priva di utilità la domanda relativa all’identificazione oggettiva del bene cui si riferisce.
Deve ora esaminarsi il ricorso incidentale, frapposto da parte integralmente vincitrice e da ritenersi condizionato all’accoglimento del principale, il cui rigetto lo rende quindi inammissibile.
In conclusione, il ricorso principale e inammissibile, così come l’incidentale condizionato.
Le spese seguono la regola della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale e il ricorso incidentale.
Condanna la ricorrente principale al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in €.dodicimila/00, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, il 10/01/2024.