Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 5484 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 5484 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 02/03/2025
Oggetto: rivalsa iva – rapporti cedente/cessionario/Uff
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3155/2020 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del suo legale rappresentante pro tempore rappresentata e difesa in forza di procura speciale in atti dall’avv. prof. NOME COGNOME (con domicilio digitale all’indirizzo PEC: EMAIL) e dall’avv. NOME COGNOME (con domicilio digitale all’indirizzo PEC: EMAIL)
-ricorrente –
contro
AZIENDA PUBBLICA DI SERVIZI ALLA PERSONA ITIS in persona del legale rappresentante pro tempore rappresentata e difesa in forza di procura speciale in atti dall’avv. NOME COGNOME (con domicilio digitale all’indirizzo PEC: EMAIL
– controricorrente –
per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Trieste, n. 387/2019 depositata in data 06/06/2019;
Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 17/01/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Rilevato che:
la società RAGIONE_SOCIALE conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Trieste l’ AZIENDA PUBBLICA DI SERVIZI RAGIONE_SOCIALE chiedendo di accertarsi la sussistenza del proprio diritto di rivalsa per l’importo di euro 554.412,00 per IVA relativa a prestazioni di servizio svolte a seguito della stipula di contratto di appalto avente per oggetto servizi di pulizia e condannarsi la stessa al pagamento della sopra indicata somma;
tali prestazioni erano state oggetto dapprima della emissione di fattura in esenzione di IVA; successivamente però l’Agenzia delle entrate accertava a carico della odierna ricorrente per le annualità dal 2004 al 2009 la omessa applicazione del tributo in argomento e ne chiedeva il pagamento a RAGIONE_SOCIALE
l’odierna società ricorrente, dopo una prima fase contenziosa, definiva con l’Agenzia delle Entrate i giudizi pendenti, versando l’imposta accertata e ottenendo dall’Amministrazione Finanziaria la rinuncia alla pretesa per sanzioni;
il Tribunale di Trieste rigettava la domanda dell’odierna ricorrente; appellava RAGIONE_SOCIALE
con la sentenza gravata di fronte a questa Corte il giudice dell’appello ha confermato la statuizione di primo grado;
ricorre la società RAGIONE_SOCIALE con atto affidato a cinque motivi di doglianza;
resiste l ‘AZIENDA PUBBLICA DI RAGIONE_SOCIALE con controricorso;
entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative delle proprie difese;
Considerato che:
va preliminarmente esclusa la sussistenza di un giudicato rilevante nel presente giudizio, come sostiene l’ AZIENDA RAGIONE_SOCIALE specialmente in memoria;
invero, difetta qui in primo luogo il requisito della coincidenza delle parti, poiché è pacifico che la sopradetta non sia stata parte del giudizio tra la società ricorrente e l’Agenzia delle Entrate;
in secondo luogo, come questa Corte ha da tempo precisato (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 3291 del 02/03/2012) -in disparte qui la rilevanza e applicazione dell’art. 60 del d.P.R. n. 633 del 1972 (nella versione testuale applicabile ratione temporis ) per le ragioni che nel prosieguo si esporranno -che ‘l’ esecuzione di operazioni imponibili ai fini dell’IVA comporta ex lege l’instaurazione di due autonomi rapporti giuridici, l’uno tributario e pubblicistico tra l’Erario ed il cedente o prestatore, l’altro civilistico tra quest’ultimo e il cessionario o committente, riguardo alla rivalsa ‘ ; si tratta quindi di rapporti giuridici autonomi tra loro;
inoltre, come osservato correttamente da parte ricorrente in memoria, una volta doverosamente pagata l’IVA in forza della rivalsa esercitata da COGNOME, l ‘AZIENDA PUBBLICA DI RAGIONE_SOCIALE manterrebbe la facoltà di far valere il proprio giudicato intercorso nel presente giudizio nei confronti dell’Agenzia delle Entrate ai fini del rimborso naturalmente, ove ne sussistessero i presupposti che nella fattispecie, stante il difetto della qualifica di impresa, in capo ad essa, non paiono esser presenti;
venendo allora all’esame dei motivi di doglianza, la Corte rileva che il primo motivo di gravame si incentra sulla violazione e/o falsa ed erronea applicazione dell’art. 60 comma 7 del d.P.R. n. 633 del 1972 in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c. per avere la sentenza di appello erroneamente esclusa la sussistenza del diritto di rivalsa rigettando la domanda di accertamento e condanna poiché troverebbe, secondo il giudice del merito, applicazione alla fattispecie presente ratione temporis – la disciplina previgente al 2012 che escludeva il diritto alla rivalsa in capo al cedente/prestatore, come illustrato dalla sentenza impugnata alle pagg. 10 e 12 della motivazione;
– il secondo motivo di ricorso deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 18 e 60 comma 7 del d.P.R. n. 633 del 1972 (vigente e
previgente) e degli artt. 11 e 117 comma 1 Cost., nonché dei principi comunitari di cui alla giurisprudenza della Corte di giustizia UE e di cui agli artt. 1 e 167 e seguenti della Direttiva 2006/112/CE in materia di neutralità e proporzionalità nell’iva, nonché di libera concorrenza, tutto in relazione all’art. 360 c.1 n. 3 c.p.c.; secondo parte ricorrente la sentenza di appello ha fatto applicazione di una norma in contrasto col diritto comunitario, in particolare con i principi di neutralità proporzionalità e necessaria traslazione in avanti dell’imposta, non avendo ritenuto il divieto di rivalsa in contrasto con i principi fiscali di proporzionalità e di libera concorrenza del mercato unico, avendo quindi fatto applicazione di una normativa nazionale – impeditiva del diritto di rivalsa dell’iva pagata a seguito di accertamento definitivo – contrastante con il superiore diritto unionale il cui effetto è stato quello di escludere la neutralità dell’imposta per il fornitore di un servizio negandogli il diritto al recupero dell’imposta versata nei confronti del committente; – i sopra riportati i motivi, che possono esaminarsi congiuntamente poiché sfaccettature di una medesima censura in diritto, sono entrambi
fondati;
va premesso e ricordato che nel sistema del d.P.R. n. 633 del 1972 l’ obbligo del soggetto passivo IVA – cedente o prestatore, soggetto passivo di diritto ai sensi dell’art. 17 del medesimo d.P.R. – di esercitare la rivalsa nei confronti del cessionario o committente addebitandogli l’IVA che grava sull’operazione imponibile attua la traslazione palese dell’onere dell’imposta sull’acquirente. Attraverso la concatenazione della rivalsa di cui all’art. 18 d.P.R. n. 633 del 1972 e della detrazione di cui all’art. 19 del medesimo testo normativo, viene garantita la caratteristica struttura plurifase del tributo IVA, diretta a realizzare il prelievo complessivo attraverso l’imposizione delle diverse fasi di circolazione del bene o servizio sul mercato lasciando generalmente indenni dall’onere del tributo i soggetti passivi di diritto ed o contribuente di fatto, salve le eccezioni previste espressamente dalla legge;
– secondo la regola generale prevista dal comma 1 proprio dell’art. 18 del d.P.R. n. 633 del 1972, chi effettua una cessione di beni o una prestazione di servizi imponibile deve addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o committente. Il soggetto che deve rivalersi è dunque il soggetto passivo dell’IVA come individuato dall’art. 17 del medesimo d.P.R., cioè il cedente o prestatore. L’ obbligo di rivalsa costituisce, per tale soggetto, anche un vero e proprio diritto, in quanto gli consente di porre a carico della sua controparte ex lege l’onere dell’imposta da versare all’Erario. Effetto della norma sulla rivalsa, al verificarsi dei relativi presupposti, è infatti l’insorgenza di un diritto di credito del cedente o prestatore nei confronti del cessionario o committente;
– l ‘art. 60, comma 7, del d.P.R. n. 633 del 1972, così come novellato dall’art. 93 del d.L. n. 1 del 2012, prevede ora che «il contribuente ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta relativa ad avvisi di accertamento o rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi soltanto a seguito del pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi. In tal caso, il cessionario o il committente può esercitare il diritto alla detrazione, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui ha corrisposto l’imposta o la maggiore imposta addebitata in via di rivalsa e alle condizioni esistenti al momento di effettuazione della originaria operazione»;
– la norma precedentemente in vigore, rilevante nel presente processo ratione temporis , come precisa la relazione di accompagnamento del d.L. n. 1 del 2012, era stata censurata dalla Commissione Europea nella procedura di infrazione n. 2011/4081 (erroneamente indicata per meo evidente lapsus calami come n. 2011/2081 in alcuni passi del ricorso per cassazione) ove si rilevava la contrarietà con il diritto comunitario del divieto di rivalsa a seguito di accertamento (e ciò benché la rivalsa non sia disciplinata dalla direttiva n. 2006/112/CE ). Essa prevedeva, come ricorda qui correttamente la sentenza impugnata, che ‘ il contribuente non ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta pagata
in conseguenza dell’accertamento o della rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi ‘ ;
orbene, secondo quanto più volte chiarito per tempo dalla stessa prassi amministrativa (cfr. la Circolare n. 35/E, pubblicata nel sito istituzionale il 17 dicembre 2013, le risposte ad interpelli n. 84 del 26 novembre 2018, n. 176 del 31 maggio 2019, n. 510 del 26 luglio 2021) il citato art. 93 è stato introdotto nel nostro ordinamento al fine di ripristinare la neutralità garantita dal meccanismo della rivalsa, esercitabile dal fornitore soggetto passivo, e dal diritto di detrazione, esercitabile dell’acquirente soggetto passivo, consentendo il normale funzionamento dell’imposta IVA. Essa deve, per sua natura, colpire solamente i consumatori finali e non gli operatori economici;
proprio in merito alla definitività dell’accertamento, con la citata circolare 35/E del 2013 è stato chiarito, che l’art. 60, ultimo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972 si applica anche nei casi in cui, come avviene nella fattispecie che ci occupa, in relazione ad un accertamento operato dall’Amministrazione finanziaria il contribuente provveda a definirlo utilizzando uno degli strumenti deflattivi del contenzioso tributario previsti dall’ordinamento, tra i quali, l’istituto dell’accertamento con adesione/adesione all’invito al contraddittorio, di cui agli artt. 6 e seguenti del d. Lgs. 19 giugno 1997, n. 218 (cfr. punto 2.1);
dalla lettura della sentenza qui impugnata si evince che essa ha ritenuto, in sintesi, di fare applicazione -ratione temporis -della previgente disciplina, senza porsi né quindi risolvere correttamente (e qui sussiste effettivamente l’errore di diritto enunciato nel motivo di ricorso in esame, come ora si vedrà) i profili di compatibilità di tale disposizione con il diritto unionale, anteriormente alla modifica della stessa, che invece risultano essenziali per la corretta decisione della questione che si pone;
la Corte di Giustizia UE anche di recente (CGUE, sentenza causa C715/20, 20 febbraio 2024, K.L. contro X sp. z o.o.) si è soffermata proprio sul potere dei giudici nazionali di disapplicare le norme interne in contrasto con il diritto unionale, per quanto si tratti di affermazione
ormai del tutto pacifica nella giurisprudenza di detta Corte (CGUE, 12 febbraio 2019, C-492/18 PPU, TC , punto 68; 8 maggio 2019, C-486/18, Praxair MRC , punto 37; 19 settembre 2019, C-467/18, Rayonna prokuratura Lom , punto 60; 14 ottobre 2020, C-681/18, KG (Missions successives dans le cadre du travail intérimaire), punto 65;
– nella più recente delle sentenze sora citate si ricorda, dal par. 68 in avanti che ‘… Per quanto riguarda la questione se il giudice nazionale sia tenuto, nell’ambito di una controversia tra privati, a disapplicare una disposizione nazionale contraria alla clausola 4 dell’accordo quadro, occorre ricordare che, quando i giudici nazionali sono chiamati a dirimere una controversia simile, nella quale la normativa nazionale interessata risulti contraria al diritto dell’Unione, tali giudici devono assicurare ai singoli la tutela giurisdizionale derivante dalle disposizioni del diritto dell’Unione e garantirne la piena efficacia (sentenza del 7 agosto 2018, Smith, C-122/17, EU:C:2018:631, punto 37, e giurisprudenza ivi citata). Più precisamente, la Corte ha ripetutamente affermato che un giudice nazionale, cui venga sottoposta una controversia intercorrente esclusivamente tra privati, deve, quando applica le norme del diritto interno adottate ai fini della trasposizione degli obblighi previsti da una direttiva, prendere in considerazione l’insieme delle norme di tale diritto nazionale ed interpretarle, per quanto possibile, alla luce del testo e della finalità di tale direttiva per giungere a una soluzione conforme all’obiettivo perseguito da quest’ultima (sentenza del 18 gennaio 2022, RAGIONE_SOCIALE, C-261/20, EU:C:2022:33, punto 27 e seguenti e giurisprudenza ivi citata). Pertanto, qualora non sia possibile procedere a un’interpretazione di una disposizione nazionale che sia conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione, il principio del primato di quest’ultimo esige che il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di tale diritto, disapplichi qualsiasi disposizione del diritto nazionale contraria alle disposizioni del diritto dell’Unione aventi effetto diretto;
-occorre poi ricordare che i giudici nazionali degli Stati membri hanno l’obbligo di verificare la compatibilità del diritto interno con le norme di diritto unionale primario e secondario, anche indipendentemente da una specifica domanda di parte, che peraltro in questo caso il motivo di ricorso in esame espressamente propone. Tale considerazione rende quindi, tra l’altro, ulteriormente irrilevante ogni valutazione -eccepita in controricorso – in ordine al comportamento processuale tenuto dalla ricorrente nel corso dei giudizi intercorsi con l’Amministrazione finanziaria;
venendo alle singole pronunce della Corte di Giustizia che rilevano, si deve ricordare che nella sentenza 14 dicembre 1995, C-312/93, COGNOME COGNOME & C.ie SCS la Corte comunitaria ha affermato il seguente principio: “il diritto comunitario osta all’applicazione di una norma processuale nazionale che, in condizioni analoghe a quelle del procedimento di cui trattasi nella causa davanti al giudice a quo, vieta al giudice nazionale, adito nell’ambito della sua competenza, di valutare d’ufficio la compatibilità di un provvedimento di diritto nazionale con una disposizione comunitaria, quando quest’ultima non sia stata invocata dal singolo entro un determinato termine”. Nella sentenza resa nella stessa data in cause riunite C – 430 e 431/93, COGNOME, punto 1 del sommario, la medesima Corte ha statuito che “è compito del giudice nazionale applicare disposizioni comunitarie vincolanti… anche qualora la parte che ha interesse alla loro applicazione non le abbia invocate”, pur nei procedimenti aventi ad oggetto diritti disponibili;
e ancora, il ridetto principio è stato ulteriormente ribadito dalla medesima Corte del Lussemburgo nella sentenza 13 marzo 1997, C358/95, Morellato, il cui punto 2 del sommario dispone: “allorché si richieda al giudice nazionale di applicare una legge nazionale incompatibile con l’art.30 del Trattato, esso ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tale norma, disapplicando di propria iniziativa la detta legge ‘;
l’applicazione di tali enunciati al giudizio di cassazione comporta che, ove sussistano casi analoghi in cui il giudice dell’impugnazione debba conoscere, anche d’ufficio, di questioni non formanti oggetto dei motivi dedotti, la verifica di compatibilità col diritto comunitario deve sempre e comunque esser operata, non potendo neppure essere condizionata alla deduzione di uno specifico motivo sul punto. I casi che presentano una spiccata analogia con quello della verifica di compatibilità col diritto comunitario sono costituiti dallo jus superveniens e dalla questione di legittimità costituzionale;
con riguardo poi alla giurisprudenza di questa Corte, si è puntualizzato che tali questioni possono essere conosciute, sempre anche d’ufficio oltre che anche per la prima volta in cassazione, purché l’applicazione della norma (anche sopravvenuta o della quale si sospetti una contrarietà alla Costituzione, stante l’analogia di cui appena sopra si è detto) costituisca ancora oggetto del dibattito introdotto coi motivi. In questo senso la norma comunitaria è una delle tante norme di rango superiore di cui il giudice può e deve liberamente conoscere e che può e deve applicare d’ufficio per risolvere la questione di diritto che gli viene sottoposta (in argomento Cass. sentenza n. 7909 del 9 giugno 2000, conf. Cass. sentenza n. 17564 del 20 dicembre 20019);
ciò chiarito, rileva ora la Corte come sia del tutto consolidato, nella giurisprudenza comunitaria, che la neutralità costituisca da sempre, sin dalla prima introduzione nel sistema tributario dell’imposta, un tratto qualificante della struttura dell’IVA in quanto funzionale a garantire la piena concorrenzialità delle imprese ed il perseguimento delle libertà fondamentali dell’ordinamento comunitario (si vedano, tra le tante, Corte Giust. CE 23 maggio 1996, causa C-331/94, Commissione c. Grecia; Corte Giust. UE 16 settembre 2008, causa C-288/07, Isle of Wight). La novella legislativa, intervenuta con l’art. 93 del c.d. ‘decreto liberalizzazioni’ di cui si è detto sopra elimina quindi uno dei ‘tabù’ della gestione dell’IVA (come la dottrina ha efficacemente scritto in argomento) considerata, a partire dalla sua introduzione nel 1973, alla stregua di una qualsiasi imposta indiretta che, se accertata, doveva
rimanere -nella disciplina previgente -ad esclusivo carico dell’operatore, con una palese violazione del principio di simmetria tra esigibilità e detrazione, sancito dalla norma comunitaria;
-nel diritto dell’Unione l ‘art. 167 della Direttiva 2006/112/CE, prevedendo che ‘ il diritto a detrazione sorge quando l’imposta detraibile diventa esigibile ‘ fissa invero una relazione del tutto inscindibile e biunivoca tra l’iva detratta e l’iva esigibile, vale a dire tra l’iva a debito che il cessionario detrae (se ha diritto alla detrazione in quanto soggetto differente dal consumatore finale) e l’iva a credito che il cedente addebita in rivalsa;
la ridetta previsione completa quella -ancora più essenziale, se così può dirsi -di cui all’art. 1 par. 2 della Direttiva 2006/112/CE enunciante il principio di neutralità; tale principio esso rappresenta uno degli elementi fondamentali per il corretto funzionamento dell’imposta IVA. Il tributo in argomento deve essere infatti applicato fino allo stadio del consumo finale ovvero fino all’acquisizione definitiva dell’imposta sul bene o sul servizio. Dunque, nell’applicazione fisiologica dell’imposta, la neutralità del tributo è garantita, nella fase del processo economico in cui il soggetto passivo cedente/prestatore è parte attiva dell’operazione, dalla possibilità per costui di recuperare l’I VA nei confronti del cessionario/committente esercitando la rivalsa. In questo modo il cedente/prestatore rimane indenne dal tributo, traslando il peso finanziario dell’imposta sul cessionario/committente che è consumatore finale o si comporta come tale;
il legislatore interno è intervenuto sul tema proprio ripristinando l ‘imprescindibile neutralità che si concretizza ed attua proprio nella rigorosa simmetria tra ‘esigibilità’ e ‘detrazione’ del tributo; tale intervento è avvenuto con il più volte richiamato art. 93 del c.d. ‘decreto liberalizzazioni’ (ovvero il d.L. n. 1 del 2012). Nondimeno, alla luce delle indicazioni di cui si è detto resta fermo e va pur sempre esercitato il potere del giudice dello Stato membro di disapplicare la normativa precedente per la sua contrarietà già sussistente al diritto unionale,
anche anteriormente l’entrata in vigore della ridetta disposizione di diritto interno;
tale potere (oltre che dovere) in questa sede di Legittimità viene ora esercitato cassando la sentenza di merito che è andata erroneamente di diverso avviso, applicando il divieto di rivalsa in capo al prestatore nei confronti del committente, divieto che in quanto contrario al diritto dell’Unione andava invece già nei gradi di merito disapplicato;
pertanto, il primo e il secondo motivo di ricorso vanno accolti;
la sentenza impugnata è conseguentemente cassata con rinvio al giudice del merito che si atterrà, nel nuovo esame della controversia, ai sopra illustrati principi;
i restanti motivi sono assorbiti in quanto divenuti irrilevanti ai fini del decidere;
p.q.m.
accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso; dichiara assorbiti i restanti motivi di impugnazione; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Trieste, in diversa composizione personale, alla quale demanda di provvedere anche con riferimento alle spese del presente giudizio di Legittimità.
Così deciso in Roma, il 17 gennaio 2025.