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Rinuncia al ricorso: conseguenze sull’appello

Una società energetica, dopo aver presentato ricorso in Cassazione contro una decisione sfavorevole in materia di accise, ha successivamente optato per la rinuncia al ricorso. La Suprema Corte, prendendo atto della rinuncia, ha dichiarato il ricorso inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse. Di conseguenza, ha disposto la compensazione delle spese legali e ha chiarito che il ricorrente non è tenuto al versamento dell’ulteriore contributo unificato, poiché l’inammissibilità non deriva da una soccombenza nel merito.

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Pubblicato il 15 novembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Rinuncia al Ricorso: Le Conseguenze Pratiche secondo la Cassazione

La rinuncia al ricorso è un istituto processuale che consente a una parte di abbandonare l’impugnazione che ha proposto. Ma quali sono le esatte conseguenze, specialmente se la controparte non accetta la rinuncia? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione fa luce su questo aspetto, delineando gli effetti sull’ammissibilità del ricorso, sulla ripartizione delle spese legali e sul pagamento del contributo unificato.

I Fatti del Contenzioso Tributario

Il caso trae origine da una controversia tra una società energetica e l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. L’Agenzia aveva richiesto il pagamento di una cospicua somma a titolo di accisa sull’energia elettrica ‘vettoriata’ per l’anno 2009. La Commissione Tributaria Regionale aveva dato ragione all’Amministrazione Finanziaria, negando alla società, una consortile, il diritto a un’esenzione fiscale prevista per le ‘imprese di autoproduzione’. Secondo i giudici di merito, una società consortile e le sue consorziate sono entità giuridiche distinte e autonome, motivo per cui l’esenzione non poteva essere applicata.

Contro questa decisione, la società aveva presentato ricorso per Cassazione. Tuttavia, in un momento successivo, la stessa società ha deciso di fare un passo indietro, presentando una formale rinuncia al ricorso.

La Rinuncia al Ricorso e l’Analisi della Corte

La Corte di Cassazione, trovandosi di fronte alla rinuncia dell’appellante non accettata dalla controparte, ha dovuto stabilire le sorti del processo. La decisione dei giudici supremi si è concentrata non sul merito della questione tributaria, ma sulle conseguenze procedurali di tale atto.

La Corte ha affermato un principio consolidato: la rinuncia all’azione, anche se non accettata dalle altre parti costituite, determina una ‘sopravvenuta carenza di interesse’. In altre parole, la parte che ha rinunciato non ha più un interesse giuridicamente rilevante a ottenere una sentenza sul caso. Questo, a sua volta, trasforma il ricorso in un atto che non può più essere esaminato nel merito.

Le Motivazioni della Decisione

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile. La motivazione non risiede in un vizio originario dell’atto di impugnazione, ma in un evento successivo: la rinuncia al ricorso da parte del ricorrente. Questa situazione è tecnicamente definita ‘inammissibilità per sopravvenuta carenza di interesse’.

Una conseguenza diretta di questa decisione riguarda le spese legali. Poiché la controversia è venuta meno non per una vittoria di una parte sull’altra, ma per la volontà del ricorrente di non proseguire, la Corte ha ritenuto giusto compensare le spese dell’intero giudizio. Ciò significa che ogni parte ha sostenuto i propri costi legali.

Infine, l’ordinanza affronta un punto tecnico ma di grande rilevanza pratica: il cosiddetto ‘raddoppio del contributo unificato’. L’articolo 13, comma 1-quater, del d.P.R. 115/2002 prevede che la parte il cui ricorso viene respinto integralmente o dichiarato inammissibile debba versare un ulteriore importo pari al contributo unificato già pagato. Tuttavia, la Corte, richiamando un suo precedente (Cass. n. 34025/2023), ha specificato che questa norma non si applica nei casi di inammissibilità sopravvenuta, come la rinuncia. La ratio è che il raddoppio sanziona la soccombenza, ovvero la sconfitta nel merito, mentre in questo caso non c’è stata alcuna valutazione sul fondamento o meno del ricorso.

Conclusioni

L’ordinanza in esame offre importanti chiarimenti sulle implicazioni pratiche della rinuncia al ricorso. In primo luogo, stabilisce che la rinuncia, anche se non accettata, conduce a una declaratoria di inammissibilità per carenza di interesse. In secondo luogo, apre la strada alla compensazione delle spese legali, evitando che il rinunciante venga condannato a pagare i costi della controparte. Infine, e forse è l’aspetto più rilevante per la gestione dei costi del contenzioso, esclude l’obbligo del versamento del doppio contributo unificato, differenziando nettamente l’inammissibilità sopravvenuta dalla soccombenza vera e propria. Questa decisione fornisce quindi uno strumento di valutazione strategica per le parti che, nel corso di un giudizio di legittimità, valutano l’opportunità di abbandonare l’impugnazione.

Cosa accade se una parte rinuncia al ricorso ma la controparte non accetta tale rinuncia?
La Corte di Cassazione chiarisce che il ricorso viene dichiarato inammissibile per ‘sopravvenuta carenza di interesse’, poiché la parte che ha rinunciato non ha più interesse a una decisione nel merito.

In caso di rinuncia al ricorso, chi paga le spese legali?
La Corte può decidere per la compensazione delle spese, come avvenuto in questo caso. Ciò significa che ciascuna parte si fa carico dei propri costi legali, dato che il contenzioso è cessato per volontà del ricorrente e non per la vittoria di una delle parti.

Il ricorrente che rinuncia deve pagare il ‘doppio contributo unificato’?
No. La Corte ha stabilito che l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato non si applica nei casi di inammissibilità sopravvenuta (come la rinuncia), poiché questa sanzione è legata alla soccombenza nel merito, che in tale ipotesi non viene valutata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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