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Rinuncia al credito: non è una perdita deducibile

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 30812/2024, ha stabilito che la rinuncia al credito operata da una società controllante a favore della propria controllata non costituisce una perdita deducibile. Tale operazione deve essere invece qualificata come un conferimento in conto capitale, che incrementa il costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione. L’Agenzia delle Entrate aveva contestato la deducibilità dell’onere, riqualificando l’operazione. La Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia, cassando la sentenza di merito e affermando che nei rapporti tra socio e società prevale la logica della patrimonializzazione rispetto a quella della perdita economica.

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Pubblicato il 15 ottobre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Rinuncia al Credito tra Società: Quando Non è Perdita Deducibile

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha affrontato un tema cruciale per i gruppi societari: la corretta qualificazione fiscale della rinuncia al credito effettuata da una società controllante nei confronti della propria controllata. L’intervento della Suprema Corte chiarisce che tale operazione non può essere considerata una perdita deducibile, ma va interpretata come un vero e proprio conferimento che rafforza il patrimonio della società partecipata.

I Fatti del Caso: Una Perdita su Crediti Sotto la Lente del Fisco

La vicenda trae origine da un avviso di accertamento notificato dall’Agenzia delle Entrate a una società capogruppo (consolidante) di un importante gruppo imprenditoriale. L’Amministrazione Finanziaria contestava la deduzione di ingenti oneri che la società aveva contabilizzato come “perdita su crediti” nell’anno 2005.

Questi oneri derivavano da un’operazione finanziaria intercorsa tra una società del gruppo (la controllante) e un’altra società interamente posseduta dalla prima (la controllata). Secondo l’Agenzia, quella che era stata classificata come una perdita era, in realtà, una rinuncia al credito vantato dalla controllante. Di conseguenza, l’importo non poteva essere dedotto dal reddito d’impresa, ma doveva essere considerato un incremento del costo della partecipazione detenuta nella controllata, con effetti fiscali completamente diversi.

La società contribuente si era difesa sostenendo la correttezza della propria contabilità, affermando che l’operazione era il risultato di un complesso accordo transattivo tra le parti. Dopo un iter giudiziario che aveva visto la società prevalere nei primi due gradi di giudizio, l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione.

La Disciplina della Rinuncia al Credito nei Gruppi Societari

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia, ribaltando le decisioni precedenti. Il fulcro della decisione risiede nell’applicazione dell’articolo 94 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (T.U.I.R.), che disciplina specificamente i rapporti patrimoniali tra soci e società.

La norma stabilisce che i versamenti a fondo perduto o in conto capitale, così come la rinuncia al credito da parte dei soci, si aggiungono al costo fiscalmente riconosciuto dei titoli o delle quote di partecipazione. Questo significa che, dal punto di vista fiscale, l’atto di rinunciare a un credito non genera una componente negativa di reddito (una perdita), ma viene trattato come un apporto di capitale, finalizzato a rafforzare la solidità patrimoniale della società partecipata.

La Differenza tra Rapporti con Terzi e Rapporti Infragruppo

I giudici hanno sottolineato una distinzione fondamentale: le norme che regolano i rapporti di debito/credito con soggetti terzi non possono essere applicate meccanicamente ai rapporti tra un socio e la sua società. In quest’ultimo caso, esiste un indiscutibile rapporto di “cointeressenza” che modifica la natura economica e giuridica dell’operazione. La decisione di un socio di rinunciare a un credito non è dettata da una logica puramente commerciale di perdita, ma dalla volontà di “patrimonializzare” la società, sostenendola finanziariamente.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha fondato la propria decisione su un consolidato orientamento giurisprudenziale. Ha ribadito che, quando una società creditrice rinuncia a un credito verso una società partecipata (in questo caso, interamente posseduta), l’operazione esprime la volontà di rafforzare il patrimonio di quest’ultima. Pertanto, non può essere equiparata alla remissione di un debito da parte di un soggetto esterno al gruppo sociale.

Il Collegio ha evidenziato come la circostanza decisiva fosse che la società creditrice era diventata socia unica della debitrice prima della definizione della vicenda. Questo legame così stretto imponeva l’applicazione delle norme specifiche per i rapporti tra socio e società (art. 94 T.U.I.R.) e non delle disposizioni generali sulle perdite su crediti (art. 101 T.U.I.R.). La contabilizzazione come perdita era quindi fiscalmente scorretta.

Le Conclusioni e le Implicazioni Pratiche

In conclusione, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata e ha rinviato la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado per un nuovo esame, che dovrà attenersi al principio di diritto enunciato. L’operazione non doveva essere considerata una perdita su crediti, che genera una componente negativa di reddito, ma un incremento del costo della partecipazione.

Questa ordinanza rappresenta un importante monito per i gruppi societari: le operazioni infragruppo devono essere attentamente valutate non solo sotto il profilo civilistico e contabile, ma soprattutto per le loro implicazioni fiscali. La rinuncia al credito da parte di un socio non è un evento neutro, ma un atto con una precisa qualificazione fiscale che impedisce la deduzione del relativo costo come perdita, trasformandolo in un aumento del valore dell’investimento nella società partecipata.

La rinuncia a un credito verso una società interamente controllata può essere considerata una perdita deducibile?
No. Secondo la Corte di Cassazione, tale operazione non genera una perdita su crediti deducibile dal reddito, ma deve essere trattata fiscalmente come un incremento del costo della partecipazione.

Come viene qualificata fiscalmente la rinuncia al credito effettuata da un socio?
Viene qualificata come un apporto patrimoniale, simile a un versamento in conto capitale. L’importo del credito a cui si rinuncia si aggiunge al costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione detenuta dal socio, ai sensi dell’art. 94 del T.U.I.R.

Perché la relazione tra socio e società è determinante in questi casi?
Perché, a differenza dei rapporti con soggetti terzi, tra socio e società esiste un rapporto di cointeressenza. Si presume che la rinuncia non sia una semplice perdita commerciale, ma un atto finalizzato a rafforzare il patrimonio della società partecipata, e quindi a tutelare l’investimento del socio stesso.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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