Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 19897 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 19897 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 17/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6658/2024 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in FIRENZE INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE , domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende;
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE DI GIUSTIZIA TRIBUTARIA II GRADO TOSCANA n. 871/2023 depositata il 11/09/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
RILEVATO CHE
Secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata e dal ricorso di parte, la RAGIONE_SOCIALE vantava un credito verso RAGIONE_SOCIALE di cui era socia, per l’importo di Euro 5.429.506,69 relativo a prestazioni di consulenza
eseguite ma non pagate, a cui rinunciava al fine di coprire le perdite maturate dalla partecipata così come risultanti dal verbale del CDA: con comunicazione del 12 Aprile 2017 rinunciava all’importo di Euro 4.450.415,32 e con comunicazione del 4 Dicembre 2017 rinunciava al residuo di Euro 979.091,42.
La RAGIONE_SOCIALE inoltre, emetteva la fattura n. 17000001 del 12/04/2017 per un imponibile di Euro 3.647.881,60 e un ‘ IVA per Euro 802.533,95 e quindi per l’importo complessivo di Euro 4.450.415,55 pari al credito rinunciato con comunicazione del 12 Aprile 2017 nonché la fattura n. 17000002 del 1/12/2017 per un imponibile di Euro 802.533,95 e la fattura n. 17000003 del 1/12/2017 per un imponibile di Euro 176.557,47, e quindi per un importo imponibile complessivo di Euro 979.091,42 pari al credito rinunciato con la comunicazione del 4 Dicembre 2017.
Queste due ultime fatture erano state emesse con il sistema dello split payment di cui all’art. 17 -ter del DPR n. 633/1972, motivo per cui l’IVA doveva essere versata all’Erario direttamente dalla cessionaria/committente RAGIONE_SOCIALE
Secondo la prospettazione, RAGIONE_SOCIALE aveva emesso tali fatture in via esclusivamente prudenziale in quanto temeva che la rinuncia al credito, con conseguente copertura delle perdite maturate da RAGIONE_SOCIALE potesse essere contestata dall’Agenzia delle Entrate e da questa assimilata ai fini IVA al pagamento del corrispettivo per le prestazioni svolte, così da considerare l’operazione come ‘ effettuata ‘ e l’IVA ‘ esigibile ‘ con conseguente obbligo di emissione della relativa fattura ai sensi degli artt. 6 e 21 del DPR n. 633/1972.
Ritenuto che con la rinunzia al credito l’imposta non fosse dovuta, la società ha chiesto il rimborso dell’IVA versata per l’annualità di imposta 2017 a cui l’Agenzia delle entrate non ha provveduto. Con sentenza n. 650/03/19 la Commissione Tributaria
Provinciale (CTP) di Firenze ha respinto il ricorso proposto dalla medesima avverso il silenzio rifiuto dell’Amministrazione .
La Corte di giustizia tributaria di secondo grado (CGT-2) della Toscana, a sua volta, ha rigettato l’appello della contribuente ritenendo che le scelte comportamentali « da un lato sono insindacabili ma, dall’altro, hanno come riflesso che degli atti si risponde secondo la previsione legislativa. Così l’iva sulle consulenze fatturate deve essere versata e la rateizzazione ne costituisce una legittima modalità ordinaria di adempimento». Inoltre, ha rilevato che « La procedura da seguire per l’eventuale rimborso, sia che si tratti della non debenza dell’imposta ex combinato disposto degli artt. 19, primo comma, lett. g) e 21 del D.lgs. 546/92 oppure delle ipotesi disciplinate dall’art. 26, secondo comma, del D.P.R. 633/72, non contempla la fattispecie in esame. Si tratta, in definitiva, di una rinuncia volontaria del credito operata (valutazione aziendale come detto insindacabile) dalla Società partecipante, odierna appellante, che però non legittima il recupero dell’iva versata e, da qui, la legittimità del silenzio -rifiuto».
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società che si è affidata a tre motivi e ha depositato memoria.
8 . Ha resistito con controricorso l’Agenzia.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1, all’art. 3, co. 1 e 3, dell’art. 6, co. 3, 4 e 5, e dell’art. 21 d.P.R. n. 633/1972, poiché la sentenza ha erroneamente ritenuto che fosse dovuta l’IVA sull’attività di consulenza resa da RAGIONE_SOCIALE in favore di RAGIONE_SOCIALE: secondo la ricorrente, avendo la società rinunciato al compenso, l’operazione non era più una prestazione di servizi imponibile essendo venuta meno l’onerosità ex art. 3, comma 1, d.P.R. n. 633/1972 e quindi l’IVA versata non era dovuta.
Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., violazione e/o falsa applicazione dell’art. 21 del d.lgs. n. 546/1992 e dell’art. 30 ter del d.P.R. n. 633/1972 laddove la sentenza ha ritenuto che non rientrasse nell’ambito applicativo di dette norme la fattispecie in esame, dovendo invece affermarsi la non debenza dell’IVA da parte di RAGIONE_SOCIALE sull’attività di consulenza svolta in favore di RAGIONE_SOCIALE a seguito della rinuncia al corrispettivo inizialmente pattuito. Sussistevano, quindi, i presupposti del cd. rimborso anomalo di cui all’art. 21 d. lgs. n. 546/92 che ha come ‘ unico presupposto applicativo la non debenza dell’imposta versata senza alcuna limitazione oggettiva’.
I due motivi, che possono esaminarsi congiuntamente, sono infondati.
3.1. Secondo l’art. 21 comma 7, d.P.R. n. 633/72 « se il cedente o prestatore emette una fattura per operazioni inesistenti, ovvero indica nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura ». T ale disposizione esprime il c.d. ‘principio di cartolarità’, previsto dall’art. 203 della Direttiva 112/2006/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006 (‘Direttiva IVA’), secondo cui « L’IVA è dovuta da chiunque indichi tale imposta in una fattura ». L’effetto di tali disposizioni, quindi, è che l’indicazione in una fattura dell’imposta sul valore aggiunto, connessa ad una certa operazione, implica la sua debenza, anche se la fattura ‘descrive’ operazioni ‘inesistenti’, sia soggettivamente che oggettivamente . Il principio risponde all’esigenza di eliminare il rischio di perdita di gettito fiscale, che può derivare dall’esercizio del diritto di detrazione; rischio che, secondo la Corte di giustizia, sussiste « fintantoché il destinatario di una fattura che espone un’iva non dovuta possa
utilizzarla al fine di siffatto esercizio » (CGUE, 19 settembre 2000, C-454/98, COGNOME & COGNOME, punto 57).
3.2. La base imponibile dell’IVA, peraltro, è ragguagliata al corrispettivo realmente ricevuto dal soggetto passivo e l’amministrazione tributaria non può riscuotere a tale titolo un importo superiore a quello percepito dal soggetto passivo. L’art. 90, par. 1 della Direttiva IVA prevede, per conseguenza, che la base imponibile è ridotta in caso di « annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale o riduzione di prezzo dopo il momento in cui si effettua l’operazione » alle condizioni stabilite dagli Stati membri mentre il paragrafo 2 prevede che in caso di « non pagamento totale o parziale » gli Stati membri possono derogare al paragrafo 1; inoltre, l’art. 185, par 1 della medesima Direttiva prevede che « la rettifica ha luogo, in particolare, quando, successivamente alla dichiarazione dell’IVA, sono mutati gli elementi presi in considerazione per determinare l’importo delle detrazioni, in particolare, in caso di annullamento di acquisti o qualora si siano ottenute riduzioni di prezzo »; il comma 2 del paragrafo 2 dell’art. 185 prevede, in termini analoghi al par. 2 dell’art. 90, che « in caso di operazioni totalmente o parzialmente non pagate e in caso di furto gli Stati membri possono tuttavia esigere la rettifica ».
3.3. Le due disposizioni vanno interpretate congiuntamente e in modo tra loro coerente, nel senso che alla riduzione della base imponibile per il cedente (art. 90 Dir.) consegue la rettifica della detrazione ex art. 185 dir. ult. cit. per il cessionario, rappresentando tali disposizioni due facce di una medesima operazione economica (CGUE, 15 ottobre 2020, C -335/19, E., punto 27; CGUE, febbraio 2018, C -396/16, T -2, punto 35; Cass., n. 14856 del 2023; Cass., n. 18837 del 2020). E la detrazione dell’IVA inizialmente operata si deve rettificare quando, grazie alla modifica, l’importo della detrazione corrisponda a quello cui il soggetto
passivo avrebbe avuto diritto se il mutamento degli elementi utili alla determinazione dell’ammontare della detrazione fosse stato considerato sin dall’inizio (CGUE, 28 maggio 2020, C-684/18, RAGIONE_SOCIALE , punto 36).
3.4. A sua volta, la norma di diritto interno (art. 26, comma 2, d.P.R. n. 633/1972) prevede, in termini leggermente difformi dalla disciplina armonizzata, l’emissione di nota di variazione dell’imponibile nei casi di « nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili o per mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose o in conseguenza dell’applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente ». Come emerge dalla formulazione della norma, i casi in cui può essere emessa la nota di variazione dell’imposta, ricomprendono (oltre alla nullità del contratto) anche casi « simili », oltre quelli espressamente indicati, in cui giurisprudenza di questa Corte ha fatto rientrare anche la rinunzia abdicativa (così, Cass. n. 35518 del 2023 con riferimento ad una particolare ipotesi riguardante il lato del cessionario insolvente e sottoposto a procedura concorsuale che aveva ricevuto nota di rettifica).
3.5. Peraltro, non mette conto esaminare funditus la questione della riduzione della base imponibile per effetto di una volontaria rinunzia al credito che in questo caso, secondo la prospettazione, sarebbe coeva o addirittura anteriore all’emissione delle fatture.
3.5.1. Questa Corte, difatti, già avuto modo di chiarire che, in tema di IVA, il fatto generatore dell’obbligazione tributaria, che comporta l’obbligo di fatturazione, in caso di prestazione di servizi è costituito dalla materiale esecuzione della prestazione, laddove il pagamento del corrispettivo identifica esclusivamente il momento di esigibilità dell’imposta, ossia quello di riscossione, nonché, in relazione a quanto previsto dall’art. 21, comma 4, del d.P.R. n. 633
del 1972, il termine per l’adempimento dell’obbligo di emettere fattura (Cass. n. 9064 del 2021). Il fatto generatore determina l’imponibilità, cui si ricollegano gli effetti previsti dalla disciplina del tributo; e l’imponibilità è indice di capacità contributiva, sicché va necessariamente riferita, nella prospettiva degli artt. 3 e 53 Cost. e per l’esigenza di non trattare differentemente situazioni uguali, a un dato oggettivo omogeneo e insuscettibile di variazioni determinate da scelte casuali e soggettive. Il che non accadrebbe, ove si ritenga che l’art. 6, comma 3, del d.P.R. n. 633/72 costruisca il pagamento come fatto generatore dell’imposta, giacché, in tal caso, l’imponibilità a fini IVA sarebbe, irrazionalmente, destinata a mutare non solo in rapporto alla tipologia delle operazioni imponibili, ma anche all’interno di ciascuna di esse, nonché in funzione dell’opzione dell’operatore (che anticipi il momento impositivo con l’emissione della fattura). In questo contesto, e con riguardo alla normativa italiana, la giurisprudenza unionale ha stabilito che l’art. 6, comma 3, del d.P.R. n. 633/72, là dove attribuisce rilevanza a fini impositivi, quanto alle prestazioni di servizi, al dato del pagamento del relativo corrispettivo, non contrasta con l’art. 10 n. 2 della sesta direttiva, secondo cui il fatto generatore dell’imposta si verifica all’atto della cessione dei beni o della prestazione dei servizi, in quanto lo stesso « art. 10, n. 2, terzo comma, della direttiva consente agli Stati membri di stabilire che l’incasso del prezzo è il fatto che, per tutte le prestazioni di servizi, rende l’imposta esigibile » (CGUE, 26 ottobre 1995, C -144/94, Italittica spa, punto 21). La norma nazionale deve quindi essere necessariamente intesa nel senso che la ficta identificazione con il pagamento del corrispettivo (« le prestazioni di servizio si considerano effettuate.. .») investe il compimento della prestazione con esclusivo riferimento alla sua rilevanza ai fini della mera esigibilità dell’imposta: ove risultassero coinvolte anche l’imponibilità e, quindi, l’insorgenza dell’obbligazione tributaria, la
disposizione sarebbe incompatibile con il diritto unionale. Il tema, peraltro, ha perso rilevanza in giudizio, poiché la società ha comunque proceduto all’emissione delle fatture; e a fronte dell’emissione, certo non rileva che essa sia stata ispirata da finalità ‘prudenziali’ (vedi, sul punto, sulla rilevanza ai fini iva delle fatture emesse in via ‘prudenziale’ Cass. 9 giugno 2025, n. 15382, par. 1.13.3.; v. anche le coeve Cass. nn. 15385, 15392 e 15395).
3.5.2. D’altronde, nel caso in esame è la stessa ricorrente ad ammettere che « anche a seguito della rinuncia ai compensi, RAGIONE_SOCIALE non ha reso la sua attività di consulenza a favore di RAGIONE_SOCIALE a titolo gratuito perché, come rilevato alla precedente pag. 2 detta rinuncia era funzionale a coprire le perdite maturate da RAGIONE_SOCIALE; quindi, nella sostanza, a fronte dell’attività di consulenza resa RAGIONE_SOCIALE aveva ricevuto in cambio equity (e cioè la partecipazione al capitale nella società committente nonché sua controllata RAGIONE_SOCIALE » (così a pag. 10 del ricorso).
3.5.3. Va, inoltre, considerato che, in tema di IVA, stante il principio di cartolarità il soggetto passivo è tenuto a versare l’IVA, anche laddove sia stata erroneamente emessa fattura per operazioni non imponibili ovvero per operazioni inesistenti, e ha diritto al rimborso dell’imposta versata qualora provveda alla rettifica della fattura ai sensi dell’art. 26 del d.P.R. n. 633 del 1972 ovvero qualora sia accertato il definitivo venir meno del rischio di perdita di gettito erariale derivante dall’utilizzo o dalla possibilità di utilizzo della fattura da parte del destinatario della fattura ai fini dell’esercizio del diritto alla detrazione dell’imposta dovuta o assolta in via di rivalsa (Cass. n. 20843 del 2020; Cass. n. 7325 del 2020; Cass. 28263 del 2020), ciò che si verifica « quando la fattura non possa ritenersi emessa ai sensi dell’art. 21, comma 1, dello stesso decreto, ovvero quando sia stata emessa, ma
tempestivamente ritirata dal destinatario, senza che quest’ultimo abbia potuto utilizzarla per finalità fiscali, o ancora quando l’Amministrazione abbia disconosciuto il diritto alla detrazione del destinatario con provvedimento definitivo o ritenuto legittimo con sentenza passata in giudicato » (Cass. n. 10974 del 2019). In questo caso, la ricorrente ha riconosciuto di non essersi avvalsa del procedimento ex art. 26 del d.P.R. n. 633/72 (v. pag. 12 del ricorso) e nulla è stato dedotto in ordine al venir meno del rischio di un pregiudizio per l’Erario derivante dall’esercizio della detrazione da parte del committente/cessionario.
Con il terzo motivo si deduce, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e cioè il fatto che RAGIONE_SOCIALE aveva emesso le fatture solo in via prudenziale, perché riteneva che la rinuncia al credito potesse essere assimilata dall’Agenzia delle Entrate, sulla scorta del cd. incasso giuridico rilevante ai fini delle imposte sui redditi, all’incasso delle stesse di modo che , se non le avesse emesse, sarebbero conseguite sanzioni amministrative nonché possibili sanzioni penali a carico del management.
4.1. Il motivo è inammissibile, in presenza di una cd. ‘doppia conforme’ (tra le ultime, Cass. n. 32019 del 2024), ed è pure infondato perché l’esame di tale circostanza non è stato omesso da parte della CGT2 che, anzi, l’ha valutata giudicandola irrilevante.
Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato e le spese vanno liquidate secondo soccombenza.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 8.200,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito; ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, il 26/02/2025.