Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 17110 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 17110 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 25/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8325/2023 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
SOC. NOME E NOME COGNOME E C RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in ORTONA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende (EMAIL
-controricorrente-
Avverso la SENTENZA della CORTE DI GIUSTIZIA TRIBUTARIA DI SECONDO GRADO dell’ABRUZZO n. 115/2023 depositata il 14/02/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/03/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Corte di giustizia tributaria di secondo grado ( hinc: CGT2), con la sentenza n. 115/2023 depositata in data 14/02/2023, ha accolto l’appello proposto dalla società NOME RAGIONE_SOCIALE NOME RAGIONE_SOCIALE ( hinc: la società contribuente), contro la sentenza n. 425/2021, con la quale la Commissione tributaria provinciale di Chieti aveva respinto il ricorso proposto dalla società contribuente contro l’atto di diniego di rimborso del credito IVA per l’anno 2016. 2. La CGT2, in sintesi, ha dapprima richiamato la normativa relativa alla cessazione dell’attività, con la conseguente legittimità della richiesta del rimborso per qualsiasi importo ai sensi dell’art. 30, comma 2, legge n. 724 del 1994, rilevando, al contempo, che ai sensi dell’art. 38 bis d.P.R. n. 633 del 1973 l’interruzione dell’attività comporta una situazione di rischio, tale da consentire, in caso di istanze di rimborso superiori a Euro 30.000, la richiesta di chiarimenti.
2.1. La CGT2 ha, poi, affermato quanto segue: « l’istanza di rimborso così come avanzata dalla società, era stata accolta, infatti, con missiva del 15.5.2019 l’Agenzia delle Entrate Riscossione per la Provincia di Chieti comunicava alla ditta istante che poteva erogare il richiesto rimborso IVA relati vo all’anno 2016 quantificato in euro 29.000,00, previa presentazione, da parte dell’istante di alcuni documenti indicati nella detta missiva, atto e disponibilità che mai sono stati revocati. Successivamente a tale missiva l’ente resistente, per oltre cinque anni, non ha fatto avere più notizia alcuna circa la
richiesta di restituzione avanzata dalla ditta ricorrente, ne ha restituito alcunché. Pertanto, ai sensi del Decreto legislativo del 24.9.2015 n. 156 art. 1 una volta che il contribuente ha interpellato l’amministrazione esercitando il diritto di interpell o appunto, è l’amministrazione che deve rispondere alle istanze di cui alla lettera a) del comma 1 nel termine di novanta giorni e a quelle di cui alle lettere b) e c) del medesimo comma 1 ed a quelle di cui al comma 2 nel termine di 120 giorni. La risposta scritta e motivata vincola ogni organo della amministrazione con esclusivo riferimento alla questione oggetto dell’istanza e limitatamente al richiedente. »
La CGT2 ha, quindi, ritenuto che il giudice di prime cure non avesse affatto valutato il valore giuridico del mancato riscontro da parte dell’Ufficio, così come non aveva valutato correttamente che l’atto emesso dalla resistente in data 15.5.2019 fosse un vero e proprio riconoscimento del debito.
Contro la sentenza della CGT2 l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso in cassazione con quattro motivi.
La società contribuente ha resistito con controricorso, corredato di memoria.
…
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo è stato denunciato l’o messo esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.
1.1. La parte ricorrente ha evidenziato che la sentenza impugnata è errata laddove ha affermato che la Commissione di primo grado non avrebbe valutato che « l’atto emesso dalla resistente in data 15.5.2019 fosse un vero e proprio riconoscimento del debito », trascrivendo l’atto de quo a pag. 8-9 del ricorso in cassazione. Ad avviso della parte ricorrente la CGT2 ha, in
particolare, omesso di prendere in considerazione la circostanza che la missiva del 15/05/ 2019 dell’Agenzia delle Entrate Riscossione Agente della Riscossione per la Provincia di Chieti consisteva esclusivamente in una richiesta di documenti e dati.
1.2. La parte ricorrente censura, poi, l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui « Successivamente a tale missiva l’ente resistente, per oltre cinque anni, non ha fatto avere più notizia alcuna circa la richiesta di restituzione avanzata dalla ditta ricorrente, ne ha restituito alcunché. Pertanto, ai sensi del Decreto legislativo del 24.9.2015 n. 156 art. 1 una volta che il contribuente ha interpellato l’amministrazione esercitando il diritto di interpello appunto, è l’amministrazio ne che deve rispondere alle istanze di cui alla lettera a) del comma 1 nel termine di novanta giorni e a quelle di cui alle lettere b) e c) del medesimo comma 1 ed a quelle di cui al comma 2 nel termine di 120 giorni. La risposta scritta e motivata vincola ogni organo della amministrazione con esclusivo riferimento alla questione oggetto dell’istanza e limitatamente al richiedente. La Commissione di primo grado non ha valutato per nulla il valore giuridico del mancato riscontro da parte dell’Ufficio,… », evidenziando che la risposta della Direzione Regionale era in realtà stata regolarmente inviata, a mezzo pec (trascrivendo l’atto e ricevuta di avvenuta consegna, nelle pag. 1112 del ricorso in cassazione), era stata espressamente rappresentata dall’Ufficio nelle controdeduzioni, ribadita nelle memorie depositate in data 28.7.2022 (trascritte a pag. 14 ss. del ricorso in cassazione) e dimostrata con deposito nel fascicolo processuale di documenti in data 12.07.2021 ed in data 28.7.2022. Ad avviso della parte ricorrente a ppare, quindi, evidente l’erroneità della sentenza, poiché fondata su un presupposto di fatto inesistente ovvero che l’Agenzia non avesse mai risposto al contribuente; da tale supposto mancato
riscontro alla domanda di interpello la CGT2 ha fatto derivare il diritto al rimborso per il contribuente.
Con il secondo motivo è stata denunciata la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 30, comma 2, e 38 bis, comma 4, d.P.R. n. 633 del 19 72 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.
2.1. La ricorrente rileva che le ragioni che hanno indotto l’Amministrazione ad emettere il provvedimento di diniego del rimborso non hanno nulla a che fare con le disposizioni relative alla cessazione dell’attività d’impresa. La società contribuente, infatti, non aveva cessato l’attività, ma era (solo) ‘non operativa’ e dai dati dichiarativi risultava non aver espletato esercizio di attività ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. A tal fine riproduce analogicamente, a pag. 18, la parte dichiarazione il Modello IVA 2017 relativo all’anno 2016 contenente il quadro VX.
Con il terzo motivo è stata censurata la violazione e/o falsa applicazione dell’artt. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.
3.1. La parte ricorrente evidenzia che l’Ufficio aveva comunque correttamente rilevato la mancata prova, da parte della società contribuente, della spettanza del rimborso e dell’esistenza degli elementi che costituiscono i presupposti alla restituzione delle imposte a credito. Riporta quindi (pag. 20-21 del ricorso in cassazione) le controdeduzioni in appello, per poi evidenziare che l ‘omessa pronuncia sul punto è particolarmente rilevante, non essendo comprensibile come possa essere ritenuto dovuto un rimborso senza che ne siano provati i presupposti richiesti dalla legge.
I n pendenza dell’istanza di rimborso la ricorrente non ha mai prodotto la documentazione necessaria né all’Ufficio di Chieti, né alla Direzione Regionale competente per l’interpello.
Nel processo tributario, inoltre, il contribuente, ove impugni il provvedimento di diniego dell’istanza di rimborso, è tenuto alla dimostrazione dei fatti costitutivi della propria pretesa creditoria ( ex multis Cass. n. 7324/2020; Cass. n. 1822/2019; Cass. n.12291/2018).
Con il quarto motivo è stata denunciata la nullità della sentenza per omessa motivazione. Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e 36 d.lgs. n. 546 del 19 92, in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.
4.1. La ricorrente rileva che, quanto evidenziato in relazione al terzo motivo di ricorso integra altresì un vizio di omessa motivazione.
Passando all’esame del ricorso occorre partire dal terzo motivo, da ritenere fondato, previa riqualificazione nella deduzione di vizio di omessa motivazione (v. Cass. 27551/24, secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di omessa pronuncia, censurabile ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. per violazione dell’art. 112 c.p.c., ricorre ove il giudice ometta completamente di adottare un qualsiasi provvedimento, anche solo implicito di accoglimento o di rigetto ma comunque indispensabile per la soluzione del caso concreto, sulla domanda o sull’eccezione sottoposta al suo esame, mentre il vizio di omessa motivazione, dopo la riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia stato, ma sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico oppure si sia tradotto nella mancanza assoluta di motivazione, nella motivazione apparente, nella motivazione perplessa o incomprensibile o nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili).
5.1. Le Sezioni Unite di questa Corte hanno, infatti, precisato che: « secondo le regole ordinarie, il contribuente che intenda far valere la propria pretesa al rimborso deve assumersene l’onere
probatorio; il che a maggior ragione vale a fronte della contestazione del fisco (sulla posizione di attore in senso sostanziale del contribuente che chieda il rimborso, tra le più recenti, Cass. n. 1906/20 e n. 23862/20) » (Cass., Sez. U, 29/07/2021, n. 21766). In sostanza, a fronte della richiesta di rimborso non possono assumere rilievo comportamenti inerti dell’amministrazione finanziaria dato che, come rilevato da Cass., Sez. U, n. 21766/2021, cit. -« il legislatore prende sì in considerazione l’inerzia, ma assegna ad essa il significato di rifiuto tacito, in quanto tale impugnabile: l’art. 21, comma 2, primo nucleo normativo, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 ammette il ricorso contro il silenzio rifiuto opposto dall’amministrazione a qualsiasi richiesta di rimborso, comprese quelle rappresentate dall’indicazione in dichiarazione del credito d’imposta idonea a manifestare la volontà di richiedere il rimborso (Cass. n. 21734/14; n. 10690/18; n. 17841/18); e il silenzio rifiuto funge, come autorevole dottrina ha sottolineato, da anello di congiunzione tra la procedimentalizzazione del diritto al rimborso e la sua tutela in sede giudiziale.» ). Spetta, quindi, al contribuente dare la prova dei fatti costitutivi che legittimano la richiesta di rimborso, posto che nel caso in esame, come emerge dalle ragioni del diniego del rimborso trascritto a pag. 17 del ricorso, l’Agenzia aveva contestato la ‘ Mancanza di esercizio di attività ai sensi degli articoli 4 e 5 del decreto del Presidente delle Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633’ .
Anche il primo motivo di ricorso è fondato. In via preliminare, occorre evidenziare che il motivo è stato correttamente dedotto sotto il vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., dal momento che si discute del fraintendimento del contenuto del documento, da tenere distinto dal vizio revocatorio. Le Sezioni Unite di questa Corte hanno, infatti, precisato che il travisamento del contenuto oggettivo
della prova – che ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio -trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, laddove ricorrano i presupposti richiesti dall’art. 395, n. 4, c.p.c., mentre – se il fatto probatorio ha costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare e, cioè, se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti – il vizio va fatto valere ai sensi dell’art. 360, n. 4, o n. 5, c.p.c., a seconda che si tratti di fatto processuale o sostanziale. (Cass., Sez. U, 05/03/2024, n. 5792).
6.1. Ciò premesso, con riferimento ai contenuti delle censure svolte con il primo motivo di ricorso occorre evidenziare che, secondo le Sezioni Unite di questa Corte, l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato
comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. U, 07/04/2014, n. 8053; v. anche Cass., 29/10/2018, n. 27415).
Nel caso di specie la sentenza impugnata risulta aver omesso di considerare, ai fini della valutazione dell’atto, ritenuto riconoscimento del debito, la risposta -negativaall’interpello della società contribuente riportata a pag. 11 del ricorso in cassazione. Né è idonea ad escludere la decisività dell’omissione l’eccezione di parte controricorrente relativa alla pec presso cui sarebbe stata trasmessa la risposta all’interpello (riportata a pag. 12 del ricorso in cassazione), non solo perché la CGT2 non ha, comunque, riscontrato tale documento, ma anche perché la stessa contribuente riconosce che la pec era riferibile alla professionista che aveva presentato l’interpello. A pag. 14 del controricorso si legge, infatti, che: « Ad onor del vero l’indirizzo a cui era stata inviata la PEC è della Dr.ssa COGNOME cioè la professionista che aveva nel 2017 presentato istanza di rimborso ed aveva inviato, sempre nel 2017 l’interpello di cui si discute, professionista a cui era stato conferito l’incarico solo per le attività appena riferite, ma dove mai si era eletto domicilio, del resto, lo si ripete fino alla noia, non esiste (ne può esistere) alcun documento sottoscritto nelle forme di legge dal legale rappresentante della società resistente, dove si attesti che la stessa società abbia eletto domicilio per la notificazione degli atti in un posto fisico diverso dalla sua sede societaria o in un sito telematico che non fosse la PEC della società resistente ».
Il secondo motivo di ricorso è, per conseguenza, fondato, limitatamente alla parte in cui l’Agenzia evidenzia che, a sostegno del diniego del rimborso, v’era la contestazione della mancanza di esercizio di attività rilevante ai fini iva, a norma degli artt. 4 e 5 del d.p.r. n. 633/72.
È, invece, infondato, in relazione alla pretesa violazione in sé del regime delle società non operative ai fini IVA, dovendosi dare atto, in ordine all’interpretazione dell’art. 30 legge n. 724 del 1994 e ai relativi requisiti di operatività (anche) con riferimento alle richieste di rimborso dell’IVA, di quanto recentemente precisato dalla sentenza pronunciata in data 07/03/2024, (C-341/22, RAGIONE_SOCIALE San Gregorio RAGIONE_SOCIALE ), con la quale la CGUE ha stabilito in sede pregiudiziale che: 1) l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, deve essere interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini dell’IVA il cui valore economico non raggiunge la soglia fissata da una normativa nazionale, la quale soglia corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone; 2) l’articolo 167 della direttiva 2006/112 nonché i principi di neutralità dell’IVA e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale in forza della quale il soggetto passivo è privato del diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte, a causa dell’importo, considerato insufficiente, delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA effettuate da tale soggetto passivo a valle.
La CGUE cit. (§§ 32, 33 e 34) ha rilevato che: « il diritto alla detrazione dell’IVA può essere negato al soggetto passivo qualora sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che esso è invocato fraudolentemente o abusivamente. Occorre infatti ricordare che la lotta contro frodi, evasione fiscale ed eventuali abusi costituisce un obiettivo riconosciuto e incoraggiato dalla direttiva IVA e che la Corte ha dichiarato in più occasioni che i singoli non possono avvalersi
fraudolentemente o abusivamente delle norme del diritto dell’Unione. Pertanto, quand’anche siano soddisfatte le condizioni sostanziali del diritto a detrazione, le autorità e i giudici nazionali devono negare il beneficio di tale diritto se è dimostrato, sulla base di elementi obiettivi, che detto diritto viene invocato in modo fraudolento o abusivo . Poiché il diniego del diritto a detrazione è un’eccezione all’applicazione del principio fondamentale che tale diritto costituisce, incombe alle autorità tributarie dimostrare adeguatamente gli elementi oggettivi che consentono di concludere che il soggetto passivo ha commesso un’evasione dell’IVA o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in una tale evasione. Spetta poi ai giudici nazionali verificare se le amministrazioni finanziarie interessate abbiano dimostrato l’esistenza di detti elementi oggettivi . »
7.1. A seguito dell’intervento della CGUE questa Corte ha recentemente precisato che, in tema di società di comodo, l’art. 30 della l. n. 724 del 1994, nell’escludere il diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte per le società i cui introiti siano inferiori ad una determinata soglia (presumendone il carattere non operativo), si pone in contrasto con gli artt. 9, par. 1, e 167 della dir. 2006/112/CE e va, quindi, disapplicato da parte del giudice nazionale, in conformità ai principi espressi dalla sentenza della Corte di giustizia UE n. 341 del 7 marzo 2024, secondo cui le misure
adottate dagli Stati membri per la lotta contro frodi, evasione fiscale ed abusi non devono eccedere quanto necessario per raggiungere tale obiettivo ed essere utilizzate in modo da mettere in discussione il principio di neutralità dell’IVA (Cass., 06/08/2024, n. 22249, v. anche Cass., 11/09/2024, n. 24442).
7.2. Alla luce di quanto precisato dalla giurisprudenza unionale e dalla successiva giurisprudenza di questa Corte deve, quindi, ritenersi che l’istanza di rimborso del credito IVA non possa essere negata evocando le soglie di non operatività ex art. 30 legge n. 724 del 1994. Occorre pur sempre, tuttavia, sia in base alla giurisprudenza unionale, sia a quella interna, che la contribuente, per quanto non riesca a raggiungere le soglie previste dalla suddetta norma, comunque espleti attività economica ai fini IVA.
Il quarto motivo di ricorso è da ritenere assorbito in conseguenza dell’accoglimento del terzo motivo di ricorso.
Alla luce di quanto sin qui rilevato devono essere accolti il primo, il terzo motivo di ricorso. Il secondo motivo deve essere accolto nei limiti di cui in motivazione ed essere rigettato per il resto. Il quarto motivo è assorbito dall’accoglimento del terzo motivo .
10.1. La sentenza impugnata deve essere, pertanto, cassata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Abruzzo che, in diversa composizione deciderà anche sulle spese del presente giudizio.
10.2. Considerata la disciplina contenuta nell’art. 385, comma 3, c.p.c. in materia di spese del giudizio di cassazione, è rimessa al giudice del rinvio anche la decisione sull’istanza con cui la parte controricorrente, in data 17/12/2024 ha chiesto « la liquidazione a titolo di compensi professionali maturati per la fase di sospensione cautelare della sentenza della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado dell’Abruzzo n. sent. n. 115/07/23 pronunciata il 15.12.2022,
depositata il 14.2.2023 e notificata in data 17.2.23 e discussa nel procedimento celebrato avanti la medesima Corte iscritto al n.r.g. 498/2023, concluso con ordinanza del 25.9.23 e depositata il 16.10.2023 ».
…
P.Q.M.
accoglie il primo, il secondo nei limiti indicati in motivazione e il terzo motivo di ricorso, con assorbimento del quarto motivo di ricorso e rigetta per il resto il secondo motivo;
cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Abruzzo che, in diversa composizione deciderà anche sulle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 12/03/2025.