Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 25705 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 25705 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 19/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1727/2023 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Campania n. 7434/2022 depositata il 18/11/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/03/2025 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
In data 21 febbraio 2020, la società RAGIONE_SOCIALE in liquidazione ha presentato, ai sensi dell’art. 30, comma 4, della legge n. 724/1994, istanza di rimborso IVA annuale relativa all’anno d’imposta 2019, per un importo pari a € 150.000,00. L’Ufficio, ritenendo la società ‘non operativa’ nel periodo di riferimento, ha emesso provvedimento di diniego.
La società ha impugnato l’atto dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Napoli, che con sentenza n. 12146/2021 ha accolto il ricorso, rilevando come nel caso di specie si fosse verificata una situazione oggettiva di stallo nella realizzazione dei lavori, indipendente dalla volontà della società, tale da ritardare l’attuazione dell’investimento e rendere, di conseguenza, impossibile il conseguimento di ricavi.
La Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Campania, con sentenza n. 7434/2022 depositata il 18 novembre 2022, ha rigettato l’appello proposto dall’Amministrazione finanziaria, confermando integralmente la decisione di primo grado.
L’Ufficio propone ora ricorso per cassazione, articolato in due motivi.
Resiste la contribuente con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, l’Ufficio deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 57 e 23 del D.lgs. n. 546/1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., lamentando che la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado abbia erroneamente ritenuto tardive le eccezioni sollevate, in quanto formulate per la prima volta in sede di appello.
Con il secondo motivo, si prospetta la violazione e falsa applicazione de ll’art. 30, commi 4bis e 4ter , della legge n.
724/1994, nonché dell’art. 2697 c.c., sempre in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per aver la Corte ritenuto sussistenti le condizioni oggettive previste dalla normativa antielusiva, valorizzando circostanze di fatto ritenute dall’Ufficio non idonee a dimostrare l’esistenza di una reale situazione di stallo.
Il primo motivo di ricorso non coglie nel segno e va respinto, ancorché sia necessario procedere, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., ad una correzione della motivazione della sentenza impugnata.
La Corte di secondo grado ha, infatti, ritenuto testualmente che ‘ molte delle contestazioni sollevate dinanzi a questa CTR hanno un contenuto di novità, non avendo dedotto l’ufficio nel precedente grado: a) l’errata compilazione delle dichiarazioni dei redditi della contribuente non avente un rilievo puramente formale ai fini della valutazione circa la legittimità del diniego impugnato; b) la mancata presentazione della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà con cui il richiedente attesta di non rientrare tra le società e gli enti non operativi oppure c) che il rimborso non risulta erogabile in assenza di idonea garanzia ‘. Il giudice d’appello ha soggiunto letteralmente che ‘ in tema di società di comodo, la disapplicazione della normativa antielusiva, ai sensi dell’art. 30, comma 4-bis, della l. n. 724 del 1994, impone all’impresa di dimostrare di essersi trovata nell’impossibilità oggettiva di esercitare l’attività produttiva e conseguentemente di ottenere proventi, sicché non può riconoscersi nel caso in cui la loro mancata percezione dipenda da una scelta volontaria dell’imprenditore, qual è quella di cedere in comodato d’uso gratuito i beni aziendali. Nel caso di specie la CTP ha congruamente e coerentemente evidenziato che tutte le circostanze fattuali, rappresentate all’Agenzia delle Entrate, sia nel 2011 che nel 2012, con apposite istanze di interpello ex art. 37-bis, comma 8 del D.P.R. n. 600/1973 allegate, da cui evincere un’oggettiva situazione di stallo nella realizzazione dei lavori che ritardava
l’attuazione dell’investimento e, di conseguenza, rendeva impossibile il conseguimento di ricavi e di quant’altro previsto dal comma 4 bis dell’articolo 30 della legge 23/12/1994, n. 724, relativamente all’anno in questione. Si tratta, peraltro, di circostanze in alcun modo contestate da parte dell’Ufficio dinanzi al giudice di primo grado ‘.
In buona sostanza, il giudice di seconde cure ha incongruamente reputato che i profili prima riassunti impingessero nel divieto di proposizione di nuove eccezioni di cui all’art. 57 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. In realtà, si trattava di aspetti inquadrabili, anziché nel paradigma delle c.d. eccezioni in senso stretto, nel perimetro delle mere difese, che sono sempre deducibili. In effetti, come chiarito da questa Corte ‘ In tema di contenzioso tributario, il contribuente che impugni il rigetto dell’istanza di rimborso di un tributo riveste la qualità di attore in senso sostanziale, con la duplice conseguenza che grava su di lui l’onere di allegare e provare i fatti a cui la legge ricollega il trattamento impositivo rivendicato nella domanda e che le argomentazioni con cui l’Ufficio nega la sussistenza di detti fatti, o la qualificazione ad essi attribuita dal contribuente, costituiscono mere difese, come tali non soggette ad alcuna preclusione processuale, salva la formazione del giudicato interno ‘ (Cass. n. 36241 del 2022; Cass. n. 18830 del 2020). L’Amministrazione, che nel giudizio di primo grado si oppone alla domanda di rimborso di controparte, legittimamente in sede di appello può addurre, in linea di principio, ulteriori profili a supporto dell’adottato diniego di rimborso (in termini, fra varie, Cass. n. 35042 del 2023).
Il punto è che le eccezioni bollate come nuove sono comunque irrilevanti ai fini del decidere.
Si legge a pag. 7 del ricorso che ‘ …le argomentazioni espresse dall’Ufficio in sede di appello trovano riscontro nella motivazione dell’atto di diniego impugnato, che fissa l’oggetto del contendere ‘,
di modo che, si conclude a pag. 9, le ‘ censure avanzate dall’ufficio appellante…trovano puntuale riscontro nell’impugnato provvedimento e su cui il giudice d’appello aveva l’onere di pronunciarsi ‘.
Nell’enumerare tali argomentazioni, l’Agenzia richiama, a sostegno della mancata registrazione di ricavi inferiori al reddito minimo presunto per l’anno 2019: 1. -l’omessa presentazione della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà con cui il richiedente attesta di non rientrare tra le società e gli enti non operativi; 2.l’omessa indicazione di alcuna causa di esclusione dalla disciplina delle società di comodo; 3.l’omessa autovalutazione della sussistenza delle oggettive situazioni previste dall’art. 30, comma 4-bis, l. n. 724/94; 4.l’omessa presentazione d’interpello all’amministrazione finanziaria; 5. -l’omessa dimostrazione di cause oggettive che hanno impedito il raggiungimento dei ricavi presunti; 6.la non riportabilità dell’eccedenza di credito a scomputo dell’iva a debito nei periodi di imposta successivi in base al comma 4 dell’art. 30 l. n. 724/94.
Ebbene, si tratta di un coacervo di argomentazioni, che in quanto calibrate sull’applicabilità della disciplina sulle società di comodo sono irrilevanti, vertendosi in materia di Iva, in base alla giurisprudenza unionale indicata in relazione al secondo motivo.
In altri termini, le argomentazioni dell’Ufficio risultano eccentriche rispetto all’oggetto del presente giudizio, che attiene essenzialmente all’incidenza della normativa IVA, laddove le difese indugiano sulle disposizioni relative alle società di comodo, risolvendosi in deduzioni inidonee ad influire sull’esito della controversia.
In definitiva, le argomentazioni dell’Amministrazione erano ammissibili in appello, ma prive di rilevanza sostanziale rispetto alla materia oggetto del giudizio. Per tali ragioni, la censura non può essere accolta.
Giova, d’altronde, rammentare che ‘ In tema di procedimento in cassazione, l’art. 384 cod. proc. civ. prevede che qualora il vizio denunziato riguardi non un punto di fatto ma una astratta questione di diritto, il giudice di legittimità ha il potere di integrare e correggere la motivazione della sentenza impugnata, senza cassarla, nel caso in cui la decisione adottata dal giudice di merito sia conforme a diritto, sostituendo la motivazione erronea con altra corretta, che conduca all’identico dispositivo della sentenza censurata, purché la sostituzione della motivazione sia soltanto in diritto e non comporti indagini e valutazioni di fatto né violazione del principio dispositivo ‘ (Cass. n. 15764 del 2004). Pertanto, un giudizio di diritto finisce per risultare incensurabile anche se mal giustificato, perché, secondo quanto prevede appunto l’art. 384 c.p.c., comma 4, la decisione erroneamente motivata in diritto non è soggetta a cassazione, ma solo a correzione da parte della corte, quando il dispositivo sia conforme al diritto (Cass., Sez. Un., 25 novembre 2008 n. 28054).
Il secondo motivo di ricorso è fondato e va accolto nei termini che seguono.
Per il suo tramite l’Agenzia delle Entrate stigmatizza la sentenza della Corte di giustizia tributaria di secondo grado nella parte in cui ha riconosciuto il diritto al rimborso IVA in favore della società RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, ritenendo erroneamente sussistenti i presupposti di cui all’art. 30, comma 4, della legge n. 724/1994.
La censura s’incentra sull’assenza di attività economica effettiva nel periodo d’imposta 2019, come emerge d’altronde anche dal contenuto del controricorso, nel cui quadro la stessa contribuente indugia sul mancato avvio dell’attività lucrativa, a causa della mancata acquisizione delle necessarie autorizzazioni e delle difficoltà operative, tanto da aver dovuto procedere, nel 2017, alla
liquidazione volontaria per impossibilità di conseguimento dello scopo sociale (cfr. controricorso, pp. 4-5).
Orbene, come chiarito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea – e come recepito dalla giurisprudenza di legittimità -l ‘art . 9, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, deve essere interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini dell’IVA il cui valore economico non raggiunge la soglia fissata da una normativa nazionale, la quale soglia corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone. Inoltre, l’art. 167 della direttiva 2006/112 nonché i principi di neutralità dell’IVA e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale in forza della quale il soggetto passivo è privato del diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte, a causa dell’importo, considerato insufficiente, delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA effettuate da tale soggetto passivo a valle . In particolare, si è chiarito, l’analisi del tenore letterale dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva IVA, non solo mette in evidenza la portata dell’ambito di applicazione della nozione di «attività economica», ma precisa anche il carattere oggettivo di quest’ultima, nel senso che l’attività viene considerata di per sé stessa, indipendentemente dai suoi scopi o dai suoi risultati . Infatti, ciò che rileva al riguardo è esclusivamente il fatto che si eserciti effettivamente un’attività economica e che si sfrutti un bene materiale o immateriale per
ricavarne introiti aventi carattere di stabilità (cfr. CGUE, causa C341/22, Feudi San Gregorio; v. Cass. n. 24442/2024).
Si è anche precisato, per un verso, che ai fini dell’esercizio del diritto di detrazione occorre che il bene o il servizio acquisito, anche se non immediatamente inserito nel ciclo produttivo, sia necessario all’organizzazione dell’impresa o funzionale all’iniziativa economica programmata in vista della successiva attuazione e il mancato utilizzo sia determinato da cause indipendenti dalla volontà del contribuente, sia pure assunte in un’accezione ampia (tra varie, Cass. n. 25635/22); ma, per altro verso, che il diritto alla detrazione viene meno qualora si interrompa «la relazione stretta e diretta» tra il diritto alla detrazione dell’IVA pagata per l’acquisto di beni a monte e la realizzazione di operazioni soggette ad imposta previste, come avviene quando risulti che «il soggetto passivo interessato non ha più alcuna intenzione di utilizzare i beni d’investimento creati ai fini di operazioni soggette ad imposta, e ciò in maniera definitiva» (CGUE, causa C-293/21, UAB, punto 49; Cass. n. 15254/25). In particolare, ha aggiunto la Corte di giustizia europea , l’applicazione della propria giurisprudenza, richiamata da Cass. n. 25635/22, presuppone che il soggetto passivo abbia pur sempre l’intenzione di utilizzare detti beni o servizi ai fini di operazioni soggette ad imposta. Pertanto, il fatto che la messa in liquidazione e, quindi, la rinuncia alla prevista attività economica soggetta ad imposta possano eventualmente essere giustificati da motivi qualificabili come circostanze estranee alla volontà del soggetto non incide sull’obbligo di quest’ultimo di rettificare le detrazioni dell’IVA . Inoltre, non spetta all’amministrazione fiscale valutare la fondatezza dei motivi che hanno condotto un soggetto passivo a rinunciare all’attività economica inizialmente prevista, poiché il sistema comune dell’IVA garantisce la neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati delle stesse, purché
queste siano, in linea di principio, di per sé soggette all’IVA (sentenza del 12 novembre 2020, ITH NOME COGNOME, C-734/19, punto 35 e giurisprudenza ivi citata; CGUE causa C293/21, cit., punti 55-59). La situazione potrebbe essere diversa nell’ipotesi in cui la messa in liquidazione del soggetto passivo interessato abbia nondimeno comportato la realizzazione di operazioni soggette ad imposta, ad esempio la vendita di attivi ai fini della liquidazione dei debiti di quest’ultimo, anche se ciò non rientri nell’attività economica inizialmente prevista da tale soggetto passivo (CGUE causa C293/21, cit., punto 50).
Nel caso in esame, la CTR ha trascurato di verificare la sussistenza di attività economica nell’accezione indicata, limitandosi a valorizzare elementi (quale lo ‘stallo oggettivo’ nei lavori relativamente all’anno in questione ), ontologicamente di per sé insufficienti a integrare il presupposto sostanziale richiesto dalla normativa IVA.
Il ricorso va, in ultima analisi, accolto in relazione al secondo motivo, rigettato il primo mezzo di censura. La sentenza d’appello va cassata e la causa rinviata per un nuovo esame e per la regolazione delle spese del presente giudizio alla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado della Campania.
P.Q.M.
Rigetta il primo motivo del ricorso e ne accoglie il secondo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa per un nuovo esame e per la regolazione delle spese del giudizio alla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado della Campania in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 12/03/2025 e, in seguito a riconvocazione, il 14/07/2025.
La Presidente
NOME COGNOME