Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 15385 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 15385 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 26841/2022 proposto da:
I nfrastrutture RAGIONE_SOCIALE nella persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio di detto difensore sito in Roma, INDIRIZZO giusta procura in calce al ricorso per cassazione.
PEC: EMAIL
–
ricorrente – contro
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la cui sede è elettivamente domiciliata, in Roma, alla INDIRIZZO
PEC: EMAIL
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio n. 1572/16/2022, depositata in data 4 aprile 2022, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26 febbraio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE
La Commissione tributaria regionale ha accolto l’appello proposto dall ‘Agenzia delle Entrate avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso presentato dalla società RAGIONE_SOCIALE avente ad oggetto il diniego del rimborso dell’11 -20 dicembre 2018, per tardività ex art. 21, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992, della richiesta di restituzione dell’IVA corrisposta in eccesso sulle fatture nn. 7 ter e NUMERO_DOCUMENTO, emesse rispettivamente il 21 marzo 2013 e il 23 settembre 2014, concernenti le somme anticipate nella fase di esecuzione dei lavori ed assoggettate ad aliquota IVA ordinaria, in luogo di quella agevolata, applicata dalla società subappaltatrice sulla base delle attività effettivamente svolte nel corso dei periodi d’imposta 2013 e 2014.
I giudici di secondo grado, per quanto rileva in questa sede, hanno rigettato l’eccezione di inammissibilità dell’appello perché l’Ufficio aveva cumulato erroneamente al termine di sospensione previsto dal Decreto Cura Italia il termine di sospensione feriale previsto dall’art. 1 della legge n. 742 del 1969, affermando che nel caso in esame la sospensione dei termini processuali da l 9 marzo 2020 all’11 maggio 2020, causa Covid-19, si era conclusa prima del periodo di sospensione feriale per cui quest’ult ima non poteva ritenersi evidentemente assorbita.
Nel merito, i giudici di secondo grado, hanno ritenuto applicabile l’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 e non anche l’art. 30 del d.P.R. n. 633 del 1992, perché non si era in presenza di un credito esposto in dichiarazione ed hanno affermato che l’istanza presentata in data 28 novembre 2017 era tardiva avuto riguardo sia alla data della liquidazione del mese di aprile 2013 (da eseguirsi entro il 16 maggio 2013) e del mese di ottobre 2014 (da eseguirsi entro il 16 novembre 2014), sia alla data della rendicontazione prodotta dalla società al MISE con i riepiloghi generali del 16 febbraio 2014 e del 10 ottobre 2014; non era pertinente, invece, la data del 31 dicembre 2015, termine ultimo perentorio per la presentazione della rendicontazione.
La società RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a tre motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
CONSIDERATO CHE
Il primo motivo di ricorso deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 38 e 51 del d.lgs. n. 546 del 1992, 83 del decreto legge n. 18 del 2020, 36 del decreto legge n. 23 del 2020 e dell’art. 1 della legge n. 742 del 1969, per avere la sentenza impugnata errato nel ritenere cumulabili il termine lungo per la proposizione dell’appello e la sospensione straordinaria introdotto in epoca emergenziale. L’appello era stato presentato in data 7 ottobre 2020, quanto il termine ultimo scadeva il 17 settembre 2020, in considerazione dell’addizione del periodo di sospensione Covid al termine lungo dell’appello.
1.1 Il motivo è infondato.
1.2 Va confermata, infatti, la giurisprudenza di questa Corte, che ritiene cumulabili il periodo di sospensione COVID-19 e la sospensione feriale, in quanto « la relazione diacronica tra le due fattispecie legali di sospensione è del resto coerente con la ratio dell’intervento legislativo
in materia di emergenza epidemiologica, poiché le esigenze oggettive di natura sanitaria che hanno giustificato (anche) la sospensione dei termini per un determinato periodo di tempo non vengono meno, ovviamente, quando si tratti di attività da compiere in un termine che sia stato già prorogato in precedenza per altra ragione » (Cass., 27 ottobre 2021, n. 30397; Cass., 29 ottobre 2021, n. 30878; Cass., 13 agosto 2021, nn. 22913, 22915; Cass., 28 settembre 2021, n. 29624). Inoltre , l’intreccio e la sovrapposizione della «sospensione COVID -19» a quella feriale rientrano proprio nello spirito e nella finalità delle norme richiamate e, in particolare, in quanto previsto nell’art. 83, comma 2, decreto legge n. 18 del 2020, che ha inteso sospendere in via eccezionale tutte le attività processuali, sospendendo i termini processuali e differendo («è differito») il decorso del termine iniziato durante tale periodo alla scadenza dello stesso. E difatti, se lo scopo della norma è quello della sospensione delle attività processuali durante il periodo di 63 giorni indicati (dal 9 marzo all’11 maggio 2020), l’eventuale esclusione dell’applicazione della sospensione feriale (ove il termine finale cada in tale periodo) andrebbe parzialmente a vanificare (in relazione alla perdita della sospensione) questa sospensione di termini, pregiudicando il diritto di difesa delle parti legittimate ad impugnare, facendo venir meno ex post gli effetti di questa sospensione, che devono invero considerarsi stabilizzati all’atto della conclusione del periodo di sospensione speciale (Cass., 24 gennaio 2023, n. 2095, in motivazione).
1.3 Va, infine, osservato che la Corte di Giustizia ha ritenuto, in fattispecie del tutto sovrapponibile, che una normativa processuale nazionale che abbia l’effetto di interrompere un termine di impugnazione rispetta il principio di effettività, qualora appaia giustifica ta dall’obiettivo di garantire il rispetto dei diritti della difesa del convenuto senza rendere eccessivamente difficile il recupero rapido ed efficace dei crediti, come nel caso di una normativa nazionale che
abbia sospeso i termini processuali per cinque settimane per la pandemia da COVID-19, normativa che deve ritenersi non ostativa agli articoli 16, 20 e 26 Reg. n. 1896/2006/CE (Corte di Giustizia UE 15 settembre 2022, Uniqa, C-18/21, punti 38, 39 e 41).
2. Il secondo mezzo deduce, in relazione all’ art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 36 del d.lgs. n. 546 del 1992, 132 c.p.c. e 111, comma 6, Cost. Le statuizioni contenute nella sentenza impugnate erano sprovviste di una reale e concreta argomentazione o giustificazione, essendo fondate su affermazioni meramente assertive e del tutto disancorate dalla fattispecie concreta. Il Giudice adito, infatti, si era limitato ad enunciare il giudizio nel quale consiste la propria decisione, senza descrivere il processo cognitivo attraverso il quale era stato possibile assumere quella determinata conclusione. Il Giudice di secondo grado aveva richiamato una pronuncia di legittimità (Cass. n. 30038 del 2021) che affermava l’applicazione del termine lungo decennale per l’impugnazione del silenzio -rifiuto) inconferente rispetto alla specificità del caso di specie e, poi, aveva degradato e acriticamente l’individuazione del c.d. presupposto per la restituzione dell’imposta, ora elevandolo a «elemento variabile da caso a caso», ora riconducendolo (non era dato intuire come) ad un adempimento di legge addirittura anteriore al momento di liquidazione dell’imposta individuato dalla formula dell’art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992; mancava una puntuale ricognizione sul Regolamento comunitario per l’ammissibilità delle spese sostenute per il progetto «RAGIONE_SOCIALE» e l’ individuazione degli elementi probatori dimostrativi dei (limitati) fatti affermati dalla CGT adita rispetto alla peculiarità della fattispecie sottoposta, oltre che le ragioni che avevano condotto la CGT a fondare la propria decisione sulla base di tale convincimento, consistente nel non ritenere affidabile, o quantomeno non discrezionale, il termine perentorio del 31 dicembre 2015 imposto da un Regolamento
(comunitario) generale per la partecipazione al bando di gara; mancava, in ultimo, l’esposizione delle ragioni per le quali un termine perentorio individuato per legge non potesse essere ragionevolmente eletto quale presupposto oggettivamente idoneo a fondare il dies a quo per la decadenza del termine biennale richiamato dalla formula del citato art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992.
2.1 Il motivo è infondato.
2.2 Va osservato, con la giurisprudenza di questa Corte, che, dovendo l’obbligo motivazionale ritenersi compiutamente adempiuto allorché per mezzo della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione venga ad essere illustrato il percorso motivazionale che ha indotto il giudice a regolare la fattispecie al suo esame mediante la norma di diritto applicata, viene al contrario meno all’obbligo in parola -e si mostra perciò viziata dal difetto di motivazione apparente o di mancanza della motivazione- la decisione nella quale «il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento» (Cass., 30 giugno 2020, n. 13248; Cass., 5 agosto 2019, n. 20921; Cass., 7 aprile 2017, n. 9105).
2.3 Inoltre, la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo , quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., 5 luglio 2022, n. 21302; Cass., 1 marzo 2022, n. 6758).
2.4 Nel caso in esame non sussiste il dedotto vizio di motivazione, avendo la Commissione tributaria regionale affermato, sul presupposto
dell’applicabilità dell’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, che l’istanza presentata in data 28 novembre 2017 era tardiva avuto riguardo sia alla data della liquidazione del mese di aprile 2013 (da eseguirsi entro il 16 maggio 2013) e del mese di ottobre 2014 (da eseguirsi entro il 16 novembre 2014), sia alla data della rendicontazione prodotta dalla società al MISE con i riepiloghi generali del 16 febbraio 2014 e del 10 ottobre 2014 e che non era pertinente, invece, la data del 31 dicembre 2015, termine ultimo perentorio per la presentazione della rendicontazione.
2.5 Risulta, pertanto, evidente che la decisione impugnata assolve in misura adeguata al requisito di contenuto richiesto dalle disposizioni di legge di cui il ricorso lamenta la violazione, attesa l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, sufficiente ad evidenziare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione.
3. Il terzo motivo di ricorso deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, 2946 c.c., 21 del d.P.R. n. 633 del 1972 e 4, par. 3, del Trattato UE. La CGT adita aveva errato nella individuazione di un dies a quo impossibile e sconnesso dalla prassi commerciale regolata dalle relative norme di applicazione dell’imposta sul valore aggiunto. Una corretta interpretazione della norma che si denunciava violata, imponeva di individuare, rispetto alla fattispecie in esame, la data del 31 dicembre 2015, quale termine perentorio previsto dalla normativa comunitaria (i.e. art. 56, par. I del Regolamento generale), per la ammissibilità delle spese sostenute dai benefic iari. LA CGT adita non aveva considerato che l’ordinaria prescrizione decennale, in luogo del termine biennale ex art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992, derivava dalla natura di indebito oggettivo del rimborso in parola, riferito ad un’imposta versata in ecce sso rispetto a quanto effettivamente dovuto. Inoltre, per la CGT adita, il dies a quo
da cui far decorrere il termine di decadenza coincideva con un momento (i.e. la fatturazione) addirittura anteriore al requisito primario individuato dall’art. 21 citato del «versamento» dell’imposta di cui si chiedeva la restituzione. La CGT adita era errata nella parte in cui aveva affermato la decorrenza del termine decadenziale dalla ricezione di una fattura passiva che esponeva un’Iva con aliquota agevolata (i.e. al 10%) che la società si era limitata ad onorare, in quanto non era logicamente possibile avvedersi del versamento di una maggiore imposta dovuta nel momento in cui si riceveva una fattura passiva con una aliquota Iva già ridotta, né diversamente poteva opinarsi con riferimento alla ricezione di una fattura con aliquota agevolata, atteso che, come era emerso dagli atti versati in giudizio, la CGT adita non si era nemmeno avveduta che la RAGIONE_SOCIALE riceveva fatture passive dai propri subappaltatori sia con aliquota ordinaria (i.e. 21% e 22%), che con aliquota agevolata (i.e. 10%); per quanto attiene la reportistica di rendicontazione era il 31 dicembre 2015 il termine per l’ammissibilità delle spese «per le quali non era prevista alcuna possibilità di proroga» e soltanto successivamente al 31 dicembre 2015 (ovvero il 1° gennaio 2016) si cristallizzavano in via definitiva gli importi contenuti nelle rendicontazioni che RAGIONE_SOCIALE doveva produrre al MISE o aveva precedentemente prodotto, come previsto dal Regolamento Comunitario che, in quanto norma self-executing, era atto vincolante con portata generale, direttamente applicabile ed obbligatorio in tutti i suoi elementi (art. 249 TFUE). Conseguentemente, al fine di una corretta interpretazione della norma che si denunciava violata, la CGT adita non avrebbe potuto che individuare in tale data (i.e. il 31 dicembre 2015) il dies a quo per il decorso del termine decadenziale di cui all’art. 21, comma 2 del d. lgs. n. 546 del 1992.
3.1 Il motivo non merita accoglimento, pur non potendosi condividere interamente, sul punto, la motivazione della sentenza impugnata, che
va pertanto corretta, ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ., risultando il dispositivo conforme al diritto.
3.2 Occorre premettere che il rimborso del credito d’imposta consiste nella restituzione al contribuente delle somme che ha indebitamente versato o che ha versato in misura superiore a quelle dovute e si concretizza in una posizione creditoria che può essere oggetto di una domanda di restituzione delle somme illegittimamente prelevate. A chi ha erroneamente pagato è attribuita l’azione di ripetizione che, nel diritto tributario, si traduce nella possibilità di presentare l’istanza di rimborso, la cui disciplina si differenzia a seconda della natura delle imposte, periodica e non, dirette e indirette. E mentre con riferimento alle imposte aventi natura periodica, il diritto di credito del contribuente trova origine da una dichiarazione, anche in rettifica della precedente, e può essere oggetto di una domanda di rimborso o può essere portato in detrazione o compensazione, con riferimento ad altre ipotesi necessita una specifica istanza di rimborso. Inoltre, il rimborso d’ufficio, previsto nei casi tassativamente previsti dalla legge, viene eseguito autonomamente dall’Amministrazione finanziaria e determina l’insorgenza a carico dell’Ufficio di un vero e proprio obbligo di provvedere alla restituzione delle somme indebitamente versate, a differenza del rimborso su istanza del contribuente che richiede la presentazione di una domanda specifica del contribuente, non inserita nella dichiarazione annuale, con la quale si chiede la restituzione delle maggiori somme versate e che deve essere presentata, a pena di decadenza, entro un determinato termine.
3.3 Nell’ordinamento tributario vige, dunque, per la ripetizione del pagamento indebito, un regime speciale basato sull’istanza di parte, da presentare, a pena di decadenza dal relativo diritto, nel termine previsto dalle singole leggi di imposta o, in mancanza di queste, dalle norme del contenzioso tributario: l’art. 38 del d.P.R. n. 602/1973 , l’art. 30 del d.P.R. n. 633 del 1972, e l’art. 21, comma 2, del decreto
legislativo n. 546/1992, norma quest’ultima residuale e di chiusura del sistema (Cass., 11 novembre 2019, n. 29043; Cass. , 11 dicembre 2019, n. 32424). Alla domanda di rimborso o restituzione del credito maturato dal contribuente si applica, quindi, in mancanza di una disciplina specifica posta dalla legislazione speciale in materia, la norma generale residuale di cui all’art. 21, comma 2, del decreto legislativo n. 546/1992 (Cass., 26 ottobre 2021, n. 30083; Cass., 6 novembre 2019, n. 28565). Sicché, in tema di imposta sul valore aggiunto, la domanda di rimborso non rientrante tra le ipotesi disciplinate dall’art. 30 del d.P.R. n. 633 del 1972, né contemplata da disposizioni specifiche, va proposta a norma dell’art. 21, comma 2, del decreto legislativo n. 546 del 1992; l’art. 21, secondo il quale « la domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto della restituzione », come nel caso di accertamento divenuto definitivo per mancata impugnazione nei termini o per acquiescenza, nonché nei casi di accertamento con adesione o conciliazione. Va, quindi, ribadito il principio secondo cui « In tema d’IVA, alla domanda di rimborso non rientrante tra quelle previste dall’art. 30 del d.P.R. n. 633 del 1972, nel testo “pro tempore” vigente, e perciò non contemplata da disposizioni specifiche, si applica l’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, di carattere residuale e secondo il quale “la domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto della restituzione » (Cass., 31 luglio 2019, n. 20573; Cass., 23 ottobre 2015, n. 21674; Cass., 8 giugno 2011, n. 12433).
3.4 La giurisprudenza di questa Corte ha pure precisato che, in tema di IVA, l’esposizione di un credito d’imposta nella dichiarazione dei redditi fa sì che non occorra, da parte del contribuente, al fine di
ottenere il rimborso, alcun altro adempimento, dovendo solo attendere che l’Amministrazione finanziaria eserciti, sui dati esposti in dichiarazione, il potere-dovere di controllo secondo la procedura di liquidazione delle imposte ovvero, ricorrendone i presupposti, attraverso lo strumento della rettifica della dichiarazione, con la conseguenza che il relativo credito del contribuente è soggetto all’ordinaria prescrizione decennale, mentre non è applicabile il termine biennale di decadenza previsto dall’art. 21, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in quanto l’istanza di rimborso non integra il fatto costitutivo del diritto ma solo il presupposto di esigibilità del credito (Cass., 28 settembre 2016, n. 19115; Cass., 1 ottobre 2014, n. 20678; Cass., 27 marzo 2013, n. 7706; Cass., 11 settembre 2012, n. 15229; Cass., 30 settembre 2011, n. 20039 e, più di recente, Cass., 1 settembre 2023, n. 25612).
3.5 Dunque ove si tratti di istanza di rimborso relativa all’eccedenza d’imposta IVA risultante dalla dichiarazione annuale, la fattispecie, regolata dall’art. 30, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, è assoggettata all’ordinario termine di prescrizione decennale, non a quello biennale di decadenza di cui all’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, applicabile, come già detto, solo in via sussidiaria e residuale.
3.6 Dalla lettura della disposizione di diritto interno di cui all’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, si evince che la domanda di restituzione di un’imposta non dovuta « in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzion e», non trovando applicazione il diverso termine ordinario di prescrizione decennale previsto per l’indebito oggettivo (artt. 2033 e 2946 c.c.) (cfr. Cass., 14 giugno 2012, n. 9818; Cass., 16 gennaio 2016, n. 1426). Nei casi in cui si fa applicazione della disciplina generale prevista dal ricordato art. 21, comma 2, il termine di due anni
per la presentazione della domanda di restituzione dell’imposta versata in eccedenza decorre « dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione ». Orbene, questa Corte ha ritenuto che il soggetto legittimato può chiedere all’amministrazione finanziaria il rimborso dell’Iva (anche) dopo il decorso del termine di decadenza ex art. art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, nel solo caso in cui abbia a sua volta rimborsato l’imposta al committente in esecuzione di un provvedimento coattivo; ciò conformemente a quanto affermato dalla Corte di giustizia UE con la sentenza del 15 dicembre 2011 (causa C- 427/10), per cui il principio di effettività del diritto comunitario non osta ad una normativa nazionale in materia di ripetizione dell’indebito che preveda un termine di prescrizione per il committente più lungo di quello di decadenza previsto per il prestatore del servizio, a meno che il soggetto passivo resti completamente privato del diritto di ottenere dall’Amministrazione finanziaria il rimborso dell’IVA non dovuta, ma solo se questo ha ad oggetto l’imposta che «egli stesso ha dovuto rimborsare al committente dei suoi servizi» in forza di un comando imperativo, e non già per qualsiasi imposta della quale il committente pretenda o abbia preteso il rimborso, né per quella che il prestatore abbia rimborsato spontaneamente (Cass., 20 luglio 2021, n. 12666; Cass. 24 febbraio 2015, n. 3627). Questa Corte ha specificamente ritenuto – sia pur in vicenda che atteneva ai rapporti fra concessionario e amministrazione fiscale che «… Il soggetto passivo dell’imposta, pertanto, dopo la scadenza del detto termine di decadenza, può chiedere il rimborso dell’IVA non dovuta non già per qualsiasi imposta della quale il “committente di servizi” pretenda o abbia preteso il rimborso per la sua qualità di “prestatore di detti servizi”, ne’ per quella che esso abbia rimborsato spontaneamente, ma esclusivamente per quell’imposta che ha “dovuto rimborsare al committente” detto, vale a dire per l’imposta il cui rimborso in favore del committente sia stato effettivamente
eseguito in esecuzione di un provvedimento coattivo di rimborso a suo danno ed in favore del committente, la cui pretesa restitutoria, siccome inidonea a far sorgere un qualche dovere di rimborso a carico del “prestatore di detti servizi”, non consente di superare la decadenza, eventualmente verificatasi, del “prestatore di detti servizi” dall’eventuale diritto di rimborso nei confronti dell’amministrazione finanziaria finché non si concretizza con l’adempimento dell’afferente comando imperativo da parte del prestatore di servizi. Il più breve termine di decadenza previsto dalla norma nazionale nel regolare i rapporti dello stesso con l’amministrazione finanziaria può dunque essere disapplicato solo per garantire il principio di effettività, ovvero, per dirla con la Corte di giustizia, per evitare che “le conseguenze dei pagamenti indebiti dell’IVA imputabili allo Stato” siano sopportate “esclusivamente dal soggetto passivo di tale imposta’» (cfr. Cass., 10 dicembre 2014, n. 25988; Cass., 16 gennaio 2016, n. 1426 e, più di recente, Cass., 3 aprile 2023, n. 9199).
3.7 Più in particolare la Corte di Giustizia UE ha evidenziato che proprio in mancanza di una disciplina eurounitaria in materia di ripetizione di imposte nazionali indebitamente riscosse, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro regolare le procedure per l’esercizio dei diritti suindicati stabilendo i relativi termini di decadenza o di prescrizione, purché ragionevoli, per la presentazione delle domande di rimborso e non lesivi dei principi di effettività e non discriminazione (cfr. Corte di giustizia UE, 17 novembre 1998, causa C- 228196; Corte di Giustizia UE, 11 luglio 2002, causa C-62/00; Corte di Giustizia UE, 21 gennaio 2010, causa C-472/08) e che un termine di decadenza di due anni, come quello in discussione, è da ritenersi ragionevole (Corte di Giustizia UE, 8 maggio 2008, causa C-95/07; con espresso riguardo al termine biennale previsto dall’art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992, Corte di Giustizia UE, 15 dicembre 2011, causa C427/10, punto 25, citata).
3.8 Inoltre il principio di neutralità dell’IVA richiede che il soggetto che abbia versato l’imposta non dovuta, in quanto erroneamente liquidata in fattura, possa recuperare tale importo, essendo necessario considerare, per quanto di qui a poco si dirà, che il soggetto «obbligato al pagamento della imposta» non coincide con il soggetto «obbligato in rivalsa», disponendo l’art. 21, paragrafo 1, lett. c), della Sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977, e che il soggetto passivo d’imposta è esclusivamente colui che « indichi l’imposta sul valore aggiunto in una fattura o in altro documento che ne fa le veci », disposizione riprodotta nell’art. 203 della nuova Direttiva IVA, 2006/112/CE del Consiglio del 28/11/2006, che prevede che « L’IVA è dovuta da chiunque indichi tale imposta in una fattura » . Però, in caso di operazione erroneamente assoggettata ad IVA (come, nella specie, ad un’aliquota eccedente quella applicabile) non è ammessa la detrazione dell’imposta pagata e fatturata atteso che, ai sensi dell’art. 19, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e in conformità dell’art. 17 della direttiva del Consiglio CEE del 15 maggio 1977, n. 77/388/CEE, e degli artt. 167 e 63 della successiva direttiva del Consiglio del 28 novembre 2006 n. 2006/112/CE, l’esercizio del relativo diritto presuppone l’effettiva realizzazione di un’operazione assoggettabile a tale imposta nella misura dovuta. Si profila, pertanto, una divergenza tra il rapporto di diritto civile, instaurato tra cedente/prestatore e cessionario/committente avente ad oggetto l’adempimento dell’obbligazione in rivalsa, ed il rapporto di diritto tributario, instaurato tra cedente/prestatore (emittente fattura e soggetto passivo d’imposta) ed Amministrazione (Cass., 17 febbraio 2025, n. 4101, in motivazione).
3.9 La giurisprudenza di questa Corte sul tema può essere sintetizzata nei seguenti princìpi di diritto: « In caso di operazione erroneamente assoggettata ad IVA (nella specie ad un’aliquota eccedente quella applicabile) non è ammessa la detrazione dell’imposta pagata e
fatturata atteso che, ai sensi dell’art. 19, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e in conformità dell’art. 17 della direttiva del Consiglio CEE del 15 maggio 1977, n. 77/388/CEE, e degli artt. 167 e 63 della successiva direttiva del Consiglio del 28 novembre 2006 n. 2006/112/CE (come interpretati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia), l’esercizio del relativo diritto presuppone l’effettiva realizzazione di un’operazione assoggettabile a tale imposta nella misura dovuta», con la conseguenza che, « ov e l’operazione sia stata erroneamente assoggettata all’IVA, per la misura non dovuta sono privi di fondamento il pagamento dell’imposta da parte del cedente (il quale ha diritto di chiedere all’Amministrazione il rimborso di quanto versato in eccesso); la rivalsa effettuata dal cedente nei confronti del cessionario (il quale ha diritto di chiedere al cedente la restituzione dell’IVA in via di rivalsa, nella parte erroneamente versata); la detrazione operata dal cessionario nella sua dichiarazione IVA, con conseguente poteredovere dell’Amministrazione di escludere la detrazione dell’imposta così pagata in rivalsa »; (cfr., in termini, Cass. 17 febbraio 2025, n. 4101; Cass. 8 novembre 2022, n. 32900; Cass., 3 dicembre 2020, n. 27649 Cass., 24 maggio 2019, n. 14179).
3.10 Siffatto orientamento trova conferma nella giurisprudenza unionale, la quale ha riconosciuto che un sistema nel quale, da un lato, il venditore del bene che ha versato erroneamente alle autorità tributarie l’IVA può chiederne il rimborso e, dall’altro, l’acquirente di tale bene può esercitare un’azione civilistica di ripetizione dell’indebito nei confronti di tale venditore, è rispettoso dei principi di equivalenza ed effettività nonché di quello di neutralità (Corte Giust. 15 marzo 2007, Reemtsma Cigarettenfabriken, punti 38 e 39) (cfr. Cass. 17 febbraio 2025, n. 4101, in motivazione).
3.11 Tanto premesso, va anzitutto rammentato che nel presente procedimento viene in discussione la pretesa al rimborso del tributo IVA versato in eccesso sulle fatture emesse con applicazione
dell’aliquota al 21% nei confronti del MISE, che aveva corrisposto alla società contribuente un’ anticipazione, rispetto a quanto effettivamente dovuto, in ragione dell’applicazione dell’aliquota agevolata al 10% da parte della società subappaltatrice, la quale aveva emesso fatture applicando, appunto, questa aliquota. In particolare, si riferisce in ricorso, nell’ambito della realizzazione dei Piani di Banca Larga, di cui la società ricorrente (che ha come unica azionista il Ministero dell’Economia e della Finanze), in virtù di accordi di programmi e di convenzioni operative sottoscritte tra le Regioni e il MISE, ha curato il procedimento di attuazione con l’utilizzo di risorse comunitarie, la società RAGIONE_SOCIALE , ricevuta un’anticipazione da parte del MISE, aveva emesso nei confronti del MISE le fatture nn. 7 ter e 2030130012, rispettivamente il 21 marzo 2013 e il 23 settembre 2014, in relazione alla Convenzione per lo sviluppo della banda larga sul territorio regionale stipulat a tra l’Ente territoriale regionale (Abruzzo) e il MISE in data 30 novembre 2011; la società subappaltatrice dei lavori aveva emesso le fatture per i periodi d’imposta 201 3 e 2014 con l’aliquota del 10% (come si legge a pag. 6 del ricorso per cassazione, mentre alle attività di realizzazione degli impianti in fibra ottica era stata applicata l’aliquota agevolata, pari al 10%, alle altre prestazioni di servizi collegate, quali manutenzione dell’infrastruttura, cessione di diritti d’uso , era stata applicata l’ordinaria aliquota IVA ). Da ciò la richiesta di rimborso del credito della differenza tra quanto fatturato al MISE con l’aliquota del 21% e quanto in realtà si doveva ribaltare sul MISE con l’aliquota agevolata del 10%, pari ad euro 63.447,98: non si tratta, all’evidenza, di richiesta di rimborso di un credito esposto in dichiarazione, per cui, per quanto detto sopra, trova il referente normativo specifico nell’art. 21, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992.
3.12 Non trova, infatti, applicazione l’art. 30 ter del d.P.R. n. 633 del 1972, introdotto dall’art. 8, comma 1, della legge n. 167 del 2017
(entrata in vigore il 12 dicembre 2017) successivamente alla presentazione delle domande di rimborso in questione (28 novembre 2017), in quanto l’art. 30 ter del d.P.R. n. 633 del 1972 ( che al primo comma stabilisce che « il soggetto passivo presenta la domanda di restituzione dell’imposta non dovuta, a pena di decadenza, entro il termine di due anni dalla data del versamento della medesima ovvero, se successivo, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione ») contempla espressamente all’interno del sistema IVA il diritto alla restituzione dell’indebito, che già era riconosciuto in termini generali in ragione dell’applicazione dell’art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992, la cui formulazione coincide con quella dell’art. 30 ter comma 1 del d.P.R. n. 633 del 1972.
3.13 Nel caso in esame, il giudice di appello ha, innanzi tutto, ritenuto applicabile (correttamente) l’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 (non trovando applicazione, per i principi suesposti, il diverso termine ordinario di prescrizione decennale) e, sempre correttamente, ha ritenuto tardiva l’istanza di rimborso (del 28 novembre 2017) in quanto presentata dopo il decorso dei due anni previsto dall’art. 21, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 e, tuttavia, ha errato nell’individuazione del presupposto per la restituzione del credito d’imposta Iva, in quanto lo ha individuato nella data di liquidazione periodica del tributo, ossia il 16 maggio 2013 per la liquidazione del mese di aprile 2013 e il 16 novembre 2014 per la liquidazione del mese di ottobre 2014, oltre che nella data di rendicontazione prodotta dalla società al MISE con i riepiloghi generali dei costi del 26 febbraio 2014 e del 10 ottobre 2014; ed invero, il momento temporale che viene in rilievo è quello in cui la società subappaltatrice ha fatturato le proprie prestazioni alla società ricorrente, applicando l’aliquota agevolata del 10%, individuando in questo specifico momento quello in cui la società contribuente aveva potuto constatare l’avvenuto versamento di una somma, a titolo d’Iva, maggiore rispetto al dovuto.
3.13.1 Sul punto, infatti, non è condivisibile la prospettazione della società ricorrente secondo cui, così individuato il momento temporale di decorrenza del termine biennale, il dies a quo da cui far decorrere il termine di decadenza verrebbe a coincidere con un momento (la fatturazione passiva ricevuta da una controparte commerciale), anteriore al requisito primario dell’art. 21, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992, ovvero del pagamento dell’imposta di cui si chiede la restituzione, tenuto conto anche che nella prassi commerciale il pagamento di una fattura avviene in un momento successivo all’emissione della stessa dalla controparte commerciale.
3.13.2 Al riguardo è necessario chiarire che il rimborso di imposta dà, invero, origine ad un rapporto giuridico nel quale – con una netta inversione dei ruoli rispetto allo schema paradigmatico del rapporto tributario – è il contribuente a rivestire il ruolo attivo, assumendo nei confronti dell’Erario la posizione di creditore di una determinata somma di denaro, per il fatto di avergliela in precedenza versata (Cass., 2 settembre 2022, n. 25999; Cass., 3 marzo 2020, n. 5827). Ed infatti l’istanza di rimborso altro non è se non la richiesta di restitu zione di somme indebitamente versate. Non si configura rimborso, difatti, se non vi sia stato prima il versamento del tributo.
Ora, sulla premessa che l’art. 21, comma 2, del decreto legislativo n. 546 del 1992, individua il momento del «versamento» dell’imposta, dal momento in cui si verifica il «presupposto» della restituzione, va precisato che il fatto generatore dell’Iva di norma coincide con l’esigibilità, ma ne rimane ontologicamente distinto, giacché esso in realtà s’identifica col materiale espletamento dell’operazione. È, quindi, questo a determinare l’insorgenza del presupposto impositivo e la rilevanza fiscale dell’attività ai fini dell’Iva (Cass., Sez. U., 21 aprile 2016, n. 8059; Cass. 15 ottobre 2018, n. 25658; Cass., 10 maggio 2019, n. 12468). E, tuttavia, come già precisato da questa Corte « Ai fini, poi, della valutazione di rilevanza dell’adempimento anticipato o
dell’anticipata fatturazione, l’art. 10, paragrafo 2, n. 2, della sesta direttiva (corrispondente all’art. 65 della direttiva n. 2006/112, nonché, nell’ordinamento interno, all’art. 6, comma 4, del d.P.R. n. 633/72), si discosta dall’ordine cronologico consueto, là dove prevede che, nel caso di versamento di un acconto – o di fatturazione anticipata, l’Iva diventa esigibile senza che la cessione o la prestazione siano state ancora eseguite. Ciò in quanto nel caso di anticipato pagamento (come in quello di anticipata fatturazione dell’acquisto), il contenuto economico dell’operazione si considera già – in tutto o in parte realizzato, dando vita al presupposto fiscalmente sufficiente per la sua imponibilità, sia pure limitatamente all’importo pagato o fatturato, purché tutti gli elementi rilevanti della futura operazione siano noti al committente/acquirente e l’operazione nel momento dell’acconto o della fatturazione anticipata sembri certa (Cass. 22 maggio 2015, n. 10606; 29 gennaio 2020, n. 1961; 30 dicembre 2020, n. 29859; quanto alla giurisprudenza unionale, si veda in particolare Corte giust. 31 maggio 2018, cause C-660 e 661/16)» (Cass., 27 maggio 2021, n. 14716). L’orientamento è conforme alla giurisprudenza unionale, secondo cui, ai sensi dell’articolo 203 della direttiva IVA, l’IVA è dovuta da chiunque indichi tale imposta in una fattura, posto che, secondo la giurisprudenza della Corte, l’IVA indicata in una fat tura è dovuta dall’emittente di tale fattura, anche in assenza di una qualsiasi operazione imponibile reale (Corte di Giustizia UE, 8 maggio 2019, causa C-712/17, punto 26; Corte di Giustizia UE, 8 dicembre 2022, causa C-378/21, punto 19).
3.13.3 Si tratta di principi che si conformano perfettamente alla fattispecie in esame, dove, per quanto rilevato dalla stessa società contribuente, questa, ricevuta una «anticipazione» da parte del MISE aveva ritenuto «prudenzialmente» di emettere le fatture nn. 7 ter e 2030130012, il 21 marzo 2013 e il 23 settembre 2014, con l’aliquota del 21%, dal che, deve trarsi la duplice conseguenza che: 1) la
fatturazione ha determinato l’esigibilità dell’Iva e, quindi, anche l’obbligo di versamento dell’imposta (e ciò anche senza l’esecuzione della prestazione); 2) il momento dell’assolvimento dell’imposta, in mancanza di diverse allegazioni, va ancorato al momento della liquidazione periodica, dovendosi ritenere che l’Iva con l’aliquota ordinaria al 21% sull’anticipazione sia stata assolta nella prima liquidazione periodica del tributo da eseguirsi entro il giorno 16 del mese successivo a quello di riferimento.
3.13.4 Deve pertanto confermarsi, in questo specifico caso, l’applicabilità del termine biennale ex art. 21, secondo comma, del d.lgs. n. 546 del 1992 a partire dalla data in cui si verifica il presupposto della restituzione, che, nel caso in esame, è la data (certa) individuata in quella della fatturazione (nella sussistenza dei presupposti, che, peraltro, l’Agenzia in controricorso contesta ) con aliquota minore da parte della società subappaltatrice, corrispondente al divario con l’aliquota maggiore, risultata non dovuta.
D’altronde, ha precisato la giurisprudenza unionale in fattispecie contigua, « L’articolo 90 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, letto congiuntamente ai principi di neutralità fiscale, di proporzionalità e di effettività, deve essere interpretato nel senso che esso non osta alla normativa di uno Stato membro che preveda un termine di decadenza, per la presentazione di una domanda di rimborso dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) risultante da una riduzione della base imponibile dell’IVA in caso di non pagamento totale o parziale, la cui scadenza ha come conseguenza di sanzionare il soggetto passivo non sufficientemente diligente, purché tale termine inizi a decorrere solo dalla data in cui tale soggetto passivo ha potuto, senza dar prova di mancanza di diligenza, far valere il suo diritto alla riduzione » (Corte di Giustizia UE, 29 febbraio 2024, causa C-314/22).
Nel caso in esame, il giudice d’appello ha rimarcato l’assenza di prova della data in cui la contribuente, sulla quale ricadeva il relativo onere, ha ricevuto le fatture della subappaltatrice e, in mancanza di tale prova, ha ritenuto che le fatture in questione non potessero essere successive alla data (27 novembre 2014) di rendicontazione al MISE. Nessuna deduzione in fatto contraria, quanto al momento di ricezione delle fatture da parte della RAGIONE_SOCIALEp.RAGIONE_SOCIALE, è stata opposta in ricorso.
3.13.5 E’ necessario, altresì, precisare che non riveste rilievo, ai fini della decorrenza del dies a quo , come affermato anche dai giudici di secondo grado, la data del 31 dicembre 2015, termine ultimo di ammissibilità delle spese sostenute dai beneficiari, in conformità al Regolamento CE n. 1803/2006 dell’11 luglio 2006, e relativo alla definizione dei rapporti convenzionali tra la società ricorrente e la Regione Campania, perché termine significativo in tema di reportistica di rendicontazione, che individua il termine ultimo entro il quale è possibile sostenere le spese per poi inserirle nella domanda finale di pagamento e che cristallizza in definitiva gli importi contenuti nella rendicontazione da consegnare al MISE.
3.13.6 Al riguardo, per quanto rilevato sopra, va sottolineato che per il principio di neutralità dell’IVA il soggetto passivo che può agire per il rimborso dell’imposta versata in eccedenza è colui che ha indicato l’imposta sul valore aggiunto in fattura o in altro documento che ne fa le veci e che diversi sono i rapporti che si instaurano tra cedente/prestatore e cessionario/committente avente ad oggetto l’adempimento dell’obbligazione in rivalsa, ed il rapporto di diritto tributario, instaurato tra cedente/prestatore (emittente fattura e soggetto passivo d’imposta) ed Amministrazione (Cass., 17 febbraio 2025, n. 4101, citata, in motivazione). Sicché la data del 31 dicembre 2015, che individua il termine ultimo entro il quale è possibile sostenere le spese per poi inserirle nella domanda finale di pagamento e che cristallizza in definitiva gli importi contenuti nella rendicontazione da
consegnare al MISE, è un momento temporale che rileva nei rapporti (interni) tra la società contribuente e il MISE e non anche tra la società contribuente e l’Amministrazione finanziaria proprio perché differente è il soggetto obbligato ad assolvere l’impo sta e il soggetto obbligato in rivalsa.
3.14 Dunque, il termine biennale di decadenza è cominciato a decorrere dalla data di emissione delle fatture da parte della società subappaltatrice, che si colloca, come accertato senza smentita dalla CTR, in un momento non successivo alla rendicontazione del 27 novembre 2014; da quel momento era possibile l’immediato esercizio del diritto al rimborso e solo da tale data poteva dirsi definitivamente acclarata l’erronea applicazione dell’imposta e, dunque, sorgeva la natura indebita del versamento a suo tempo effettuato dalla società ricorrente che imponeva la restituzione di quanto non era dovuto. Sorto in tale momento il diritto al rimborso, la cui garanzia e tutela è difesa dal principio di neutralità dell’IVA, la domanda di restituzione poteva essere, quindi, presentata dalla società ricorrente entro il termine decadenziale di due anni, così evitando, in tal modo, l’alterazione del meccanismo di neutralità dell’imposta.
4. Per le ragioni di cui sopra, il ricorso deve essere rigettato e la società ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla Agenzia controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.900,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, in data 26 febbraio 2025.