Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 7512 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 7512 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 21/03/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 120/2024 R.G. proposto da:
FALLIMENTO COGNOME NOMECOGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, con domicilio digitale pec: EMAIL;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso la SENTENZA di CORTE DI GIUSTIZIA TRIBUTARIA II GRADO DELLE MARCHE n. 901/2023 depositata il 02/11/2023.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 11 dicembre 2024 dal Cons. NOME COGNOME
Udito il Sost. P.G., Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Udito l’Avv. NOME COGNOME per la ricorrente, che ha insistito nell’accoglimento del ricors.
Udita per l’Avvocatura Generale dello Stato l’Avv. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
La curatela del fallimento ricorreva avverso il provvedimento col quale, avuto riguardo all’IVA versata nell’anno 2017, l’Ufficio le aveva negato il rimborso per l’importo di euro 13.729,00, sospendendo, inoltre, l’erogazione in suo favore dell’ammontare di euro 6.935,00, per un totale di euro 20.664,00.
Il credito IVA era stato chiesto a rimborso nella dichiarazione per l’anno 2017, avuto riguardo alla minore eccedenza detraibile per il triennio 2014-2017. Il credito risultava essersi formato per euro 7928,00 nel periodo anteriore al fallimento e per euro 25.828,00 successivamente alla sua dichiarazione.
Il diniego è stato motivato in ragione dell’insufficienza della documentazione presentata dal contribuente (mancanza di registri IVA e del campione di fatture per il 2003; credito non riportato nella prima dichiarazione utile; assenza di dichiarazione per l’anno 2014), nonché in base alle risultanze del procedimento penale promosso nei confronti del titolare della ditta individuale fallita, procedimento
conclusosi con la condanna per reati di bancarotta di tal NOME COGNOME giusta sentenza n. 244 del 13/12/2007 del Tribunale di Fermo, confermata sul punto dalla Suprema Corte di Cassazione, in data 17.06.2015.
In particolare, il giudice penale aveva accertato la violazione dell’art. 217 L. fall. perché il predetto Sig. COGNOME quale titolare della impresa individuale RAGIONE_SOCIALE, dichiarata fallita in data 08/10/2004, negli anni antecedenti la dichiarazione di fallimento, non aveva tenuto i libri e le scritture contabili prescritte dalla legge, o li aveva tenuti in maniera incompleta o irregolare; il giudice penale aveva acclarato, inoltre, la violazione dell’art. 216, co. 1, L. fall. perché, in qualità di rappresentante della ditta individuale, il Sig. COGNOME aveva distratto dal patrimonio aziendale somme per circa euro 15.111,28.
La sentenza penale, in aggiunta ai reati di bancarotta, aveva appurato anche la violazione, da parte del Sig. COGNOME, degli artt. 646 e 61 n. 11 cod. pen., giacché, per procurarsi un ingiusto profitto, egli si era appropriato di una macchina ad iniezione per lo stampaggio di materie plastiche, vendendola ad un prezzo di Lire 35.000.000, oltre IVA, alla società RAGIONE_SOCIALE
L’Ufficio aveva preso, altresì, contezza, sulla scorta della relazione ex art. 33 L. fall., che la IGAM aveva incassato euro 239.386,44 a titolo di affitto di azienda come ‘ pagamento anticipato pari addirittura a due annualità del canone al netto dell’IVA ‘, così sottraendoli alla massa fallimentare. Pertanto, l’Amministrazione valorizzava questo complesso di elementi come indizi gravi, precisi e concordanti alla cui stregua le scritture contabili della ditta ed il volume d’affari venivano ritenuti non attendibili, con conseguente non corrispondenza al vero del credito IVA fatto valere e non spettanza a favore della parte del rimborso di € 75.000,00 erroneamente effettuato, nonché del
rimborso ulteriormente richiesto di € 20.664,00, su cui è incentrata l’odierna causa.
La CTP di Ascoli Piceno ha respinto il ricorso della curatela. Non miglior sorte ha assistito il successivo appello della procedura concorsuale, del pari rigettato.
Il fallimento affida adesso il proprio ricorso a otto motivi, illustrati con successiva memoria. Resiste l’Agenzia con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si lamenta la nullità della sentenza o del procedimento ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c. in relazione agli artt. 36 e 61 d.lgs. n. 546/1992 nonché degli artt. 132 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c. e 111, comma 4, Cost. per aver la Corte di Giustizia Tributaria, con una motivazione del tutto apparente e/o apodittica, sposato acriticamente le statuizioni del Giudice di primo grado nella parte in cui ha ritenuto sufficiente ribadire le considerazioni dei Giudici di prima istanza in ordine all’unica presunzione semplice (la sentenza del GUP del Tribunale di Fermo nr. 244 del 10.01.2008), quindi rendendo una motivazione ‘ per relationem ‘ alla sentenza impugnata, connotata dalla mera adesione alla decisione di primo grado e declinando argomentazioni non idonee a rivelare la ratio decidendi .
Con il secondo motivo si censura la nullità della sentenza o del procedimento ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., in relazione agli artt. 36 e 61 d.lgs. n. 546/1992 nonché degli artt. 132 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c. e 111, comma 4, Cost., per aver la Corte di Giustizia Tributaria Regionale, con una motivazione del tutto incoerente e priva di un percorso logico argomentativo, ritenuto corretto il comportamento dell’Ufficio che: da un lato, ha accertato, riconosciuto e pagato il credito IVA richiesto a rimborso dalla Curatela nell’anno 2007 (credito IVA anno 2006 maturato ante Fallimento del
07.10.2004) per Euro 75.000,00 e, dall’altro lato, ha successivamente negato il rimborso dello stesso credito IVA ante fallimento (per il restante importo di Euro 13.729,00) nonostante i presupposti fossero identici a quelli del credito già rimborsato e, contestualmente al detto diniego, ha sospeso il rimborso del credito IVA per Euro 6.935,00 maturato post -fallimento (anno di imposta 2017), senza fornire alcuna motivazione.
Il primo e il secondo motivo del ricorso sono suscettibili di trattazione unitaria per intima connessione, adombrando ambedue un insormontabile deficit di motivazione; essi non colgono nel segno e vanno disattesi.
La CGT2 ha puntualmente evidenziato che: la curatela, quale ‘ attore in senso non solo formale ma anche sostanziale ‘ avrebbe dovuto provare i presupposti dell’invocato rimborso; la curatela non ha prodotto i registri IVA e le fatture dell’anno di imposta 2003 (anno di formazione del credito chiesto in parte a rimborso nel 2017) ‘; ‘ la contribuente non può sottrarsi all’assolvimento dell’onere probatorio sulla stessa incombente, invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni, non potendosi confondere l’onere di conservazione della documentazione contabile con quello di prova del proprio credito ‘; l’Amministrazione Finanziaria ‘ può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti ‘; non rileva la ‘ mancata partecipazione al relativo processo della curatela ‘; detta sentenza irrevocabile depone per l” infondatezza della richiesta di rimborso avanzata dal contribuente ‘, essendo emerso dalla medesima come il contribuente ‘ negli anni antecedenti alla
dichiarazione di fallimento, non teneva i libri e le scritture contabili prescritte dalla legge ‘; veniva in rilievo anche ‘ la mancata tenuta dei mastrini contabili relativi agli anni 2002 -2003 e 2004 ‘; a detta carenza si sommava ‘ il mancato aggiornamento analitico dei libro inventari ‘; detto quadro complessivo integra ‘ un elemento grave e preciso’ idoneo ad escludere la spettanza del rimborso.
Con ogni evidenza, dunque, la pronuncia lascia cogliere la propria ratio decidendi, non si risolve in una adesione apodittica e sprovvista di senso logico e critico alla sentenza di primo grado ed è rispettosa del quadro dei principi nomofilattici, tra i quali emerge specificamente quello per cui ‘ La sentenza d’appello può essere motivata “per relationem”, purché il giudice del gravame dia conto, sia pur sinteticamente, delle ragioni della conferma in relazione ai motivi di impugnazione ovvero della identità delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle già esaminate in primo grado, sicché dalla lettura della parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un percorso argomentativo esaustivo e coerente, mentre va cassata la decisione con cui la corte territoriale si sia limitata ad aderire alla pronunzia di primo grado in modo acritico senza alcuna valutazione di infondatezza dei motivi di gravame ‘ (Cass. n. 20883 del 2019; Cass. n. 28139 del 2018).
Non può nemmeno dirsi, come pure perorato dalla parte ricorrente, che la sentenza penale sia il fulcro esclusivo della motivazione resa dal collegio regionale, posto che ad essere stigmatizzata è anche la mancata produzione delle scritture contabili relative all’anno di formazione del credito.
La pronuncia, d’altronde, non mostra alcun profilo di incoerenza rispetto all’originaria erogazione di un rimborso di euro 75.000 ,00 in favore della curatela, benché nel secondo mezzo si paventi il contrario. Come osservato in ricorso dall’organo concorsuale, detto
distinto rimborso venne richiesto ‘ in data 7.9.2007 ‘, connotandosi ‘ quale credito Iva ante fallimento ‘ e fu erogato ‘ in data 21.11.2008 ‘. Come rilevato dalla Corte di Giustizia Tributaria Regionale la sentenza penale di condanna del titolare della ditta individuale fallita è un elemento sopravvenuto ‘ al riconoscimento del rimborso (del resto, essa è divenuta irrevocabile solo nel 2015) ‘ ed è in questo quadro che il giudice d’appello ha inteso valorizzarlo. In altri termini, la condanna penale, che all’atto del primo ‘accelerato’ rimborso non sussisteva, è venuta in apice a valle di esso e, in questo senso, ha inciso sulla valutazione dei presupposti del rimborso chiesto in relazione al 2017, quindi pure del recupero del rimborso originariamente accordato.
Con il terzo motivo si deduce la nullità della sentenza o del procedimento ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c. in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c. e/o in subordine ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., per aver la Corte di Giustizia Tributaria delle Marche omesso di valutare la circostanza per cui la Curatela in data 19.02.2008 aveva già prodotto all’Agenzia delle Entrate tutta la documentazione comprovante l’esistenza del credito Iva ante fallimento in occasione della prima richiesta di rimborso di detto credito presentata in data 07.09.2007 a seguito della quale l’Ufficio, dopo aver espletato i dovuti controlli, aveva riconosciuto ed erogato alla Curatela il credito richiesto a rimborso.
Il motivo è inammissibile.
Come chiarito ancora di recente da questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di
fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. n. 6774 del 2022; Cass. n. 1229 del 2019).
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno anche osservato che in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (Cass., Sez. Un., n. 20867 del 2020).
Il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012 (Cass. n. 23940 del 2017; Cass. n 2572 del 2021). Tra l’altro la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., anche al solo fine di rilevare entro i limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., dovrebbe emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già
dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. n. 24434 del 2016).
Nella specie, la motivazione della sentenza non scende, peraltro, al di sotto del ‘minimo costituzionale’, rivelandosi rispettosa di detta soglia. Giova, dunque, rammentare che ‘ in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconcilianti, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali ‘ (Cass. n. 7090 del 2022; Cass. n. 22598 del 2018).
Con il quarto motivo si evidenzia la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 2697 c.c. e 54 e 57 d.P.R. n. 633/1972, per aver la Corte di Giustizia Tributaria delle Marche invertito (erroneamente) l’onere probatorio in capo alla Curatela, nonostante la stessa fosse già stata rimborsata dall’Agenzia delle Entrate del credito IVA (maturato ante fallimento); ad avviso della curatela ricorrente il Giudice del merito, d’altro canto, avrebbe dovuto valorizzare la decadenza dei termini di legge previsti per la rettifica del rimborso esposto in dichiarazione, essendo, la medesima, creditrice per effetto dell’avvenuto rimborso alla Curatela, il cui credito ad oggi è ritenuto ‘indebito’.
Con il quinto motivo si adduce la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 n. 3 c.p.c., in relazione agli artt. 2697, 2727, 2729 c.c., 2033 c.c. nonché degli artt. 115 e 116 CPC, per aver la Corte di Giustizia Tributaria ritenuto il giudicato penale della Sentenza del GUP del Tribunale Porto Sant’Elpidio quale elemento fondante per il rigetto del ricorso e, dal quale, estendere automaticamente gli effetti ai fini della illegittimità del rimborso del credito IVA già erogato nel Novembre 2008; si osserva in ricorso che la sentenza in parola sarebbe stata utilizzata dal Giudice Tributario per far accertare -incidenter tantum -l’indebito arricchimento di cui all’art. 2033 c.c.
Il quarto e quinto motivo di ricorso sono suscettibili di trattazione unitaria, investendo entrambi la tematica del riparto degli oneri probatori; essi sono infondati e vanno respinti.
Non sussiste la violazione, lamentata coi due mezzi, dell’art. 2697 c.c. La violazione di tale precetto, censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., è configurabile, infatti, soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia -come nella specie -la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 n. 5 c.p.c.) (Cass. n. 13395 del 2018).
Per dedurre, d’altro canto, la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non
anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. n. 26769 del 2018).
Inoltre, come già sopra evidenziato, in tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. n. 6774 del 2022; Cass. n. 1229 del 2019). Le Sezioni Unite di questa Corte a loro volta hanno puntualizzato che in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass., Sez. Un., n. 20867 del 2020).
Del resto, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione
delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012 (Cass. n. 23940 del 2017; Cass. n 2572 del 2021). Tra l’altro la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., anche al solo fine di rilevare entro i limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., dovrebbe emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. n. 24434 del 2016).
Come si è osservato sopra la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni.
Nella specie, la CTR non ha invertito il riparto degli oneri probatori in ragione del quale, in tema di accertamento tributario, essendosi limitata a pretendere che la curatela istante dimostrasse i presupposti del rimborso preteso. Si tratta di un’impostazione allineata a quella espressa dalla Suprema Corte, posto che per giurisprudenza consolidata, il contribuente che impugni il rigetto dell’istanza di rimborso di un tributo riveste la qualità di attore in senso sostanziale, con la conseguenza che grava su di lui l’onere di allegare e provare gli elementi costitutivi della pretesa ( ex multis Cass. n. 15026 del 2014; Cass. n. 29613 del 2011). Più nello specifico, il rimborso di imposta dà origine ad un rapporto giuridico nel quale – con una netta inversione dei ruoli rispetto allo schema paradigmatico del rapporto tributario – è il contribuente a rivestire il ruolo attivo, assumendo nei
confronti dell’Erario la posizione di creditore di una determinata somma di denaro, per il fatto di avergliela in precedenza versata (Cass. n. 25999 del 2022; Cass. n. 5827 del 2020). Non a caso questa Corte ha, di conseguenza, più volte, avuto modo di precisare che, ove nella controversia instaurata dal contribuente si discuta del rigetto di un’istanza di rimborso di un tributo, l’Amministrazione finanziaria ben può prospettare argomentazioni giuridiche ulteriori rispetto a quelle che hanno formato la motivazione di rigetto della istanza in sede amministrativa. La posizione dell’Ufficio, che si difende rispetto all’impugnazione del rigetto di una istanza di rimborso, è difatti – diversa rispetto a quella dell’Ufficio che abbia esplicitato una pretesa impugnata dal contribuente, come un avviso di accertamento o di liquidazione o il provvedimento d’irrogazione di una sanzione, nel quale ultimo caso l’oggetto del contendere è delimitato in via assoluta dall’atto impugnato. Nel caso dell’istanza di rimborso reietta, invece, è il contribuente ad essere attore sostanziale nel giudizio di rimborso e, pertanto, l’Amministrazione ha la facoltà di controdeduzione in giudizio, di cui all’art. 23 del decreto legislativo n. 546 del 1992, purché nell’ambito oggettivo della controversia (cfr. Cass. n. 15026 del 2014 e Cass. n. 29613 del 2011 cit.).
Il giudice regionale, sulla base degli elementi acquisiti in costanza di giudizio, ha ritenuto, con accertamento di fatto rientrante nel perimetro del suo sindacato esclusivo, che i presupposti per il rimborso non sussistessero, valorizzando a tal fine, non solo la condanna in sede penale del titolare della ditta individuale, ma la vistosa carenza di documentazione di supporto.
Mette in conto rilevare che, sebbene nel giudizio tributario nessuna automatica autorità di cosa giudicata possa attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile di condanna per reati di bancarotta, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e
del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), il giudice può e deve verificare la rilevanza ai fini dell’accertamento materiale dei fatti riguardanti la fattispecie al suo esame, quale elemento di prova, ancorché privo, come ovvio, dell’efficacia del giudicato. Al giudice tributario è demandato di a valutare per proprio conto -come puntualmente accaduto nel caso che occupa -se le prove acquisite nel processo penale siano idonee a fondare il proprio convincimento in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi dell’obbligazione tributaria.
Con il sesto motivo si adombra la violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., degli artt. 54 e 57 d.P.R. 633/1972 e 2909 c.p.c., per aver la Corte regionale omesso di accertare la decadenza dell’azione accertatrice da parte dell’Ufficio stante il decorso del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione; di talché, ad avviso della ricorrente, sul credito IVA, già riconosciuto e pagato per euro 75.00,00, sarebbe ‘ sceso il giudicato ‘.
Il motivo è infondato e va respinto.
Esso s’infrange frontalmente, infatti, con il principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, a tenore del quale ‘ In tema di rimborso dell’eccedenza detraibile dell’IVA, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione, che non derivi dalla sottostima dell’imposta dovuta, anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento o per la rettifica dell’imponibile e dell’imposta dovuta, senza che abbia adottato alcun provvedimento ‘ (Cass., Sez. Un., n. 21766 del 2021; v. anche Cass. n. 11698 del 2022 e Cass. n. 26523 del 2023).
Con il settimo motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza o del procedimento ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., in relazione agli artt. 36 e 61 D.Lgs. n. 546 del 1992 nonché degli artt. 132 c.p.c.,
118 disp. att. c.p.c. e 111, comma 4, Cost. per aver la Corte di Giustizia Tributaria Regionale delle Marche pronunciato una apparente motivazione circa le ragioni della erronea compensazione del credito IVA maturato ante fallimento con i debiti IVA degli anni di imposta 2006 e 2007 ( post fallimento).
Il motivo è infondato.
La motivazione della Corte di Giustizia Tributaria in punto di compensazione è la seguente: ‘ In particolare, quanto all’utilizzo in compensazione del presunto credito IVA ante fallimento con i debiti IVA post fallimento degli anni d’imposta 2006 e 2007, esso deve ritenersi illegittimo, atteso che non può essere ritenuto spettante il credito, riportato nella dichiarazione dell’anno d’imposta 2015, per l’importo di € 13.729,00 -€ 7.928,00 perché ante fallimento e non documentalmente provato ed € 5.801,00 perché indebitamente compensato negli anni 2006 e 2007, cosicché il presupposto della minore eccedenza detraibile nel triennio viene meno ‘.
Ancorché involuta sul piano del costrutto sintattico, la motivazione tende a stigmatizzare all’evidenza l’illegittimità della compensazione fra il preteso credito IVA ante fallimento e il credito IVA post fallimento . Nella motivazione si scorge, inoltre, che il credito ante fallimento non è, secondo quanto accertato in fatto dal giudice d’appello nell’esercizio del sindacato di merito ad esso riservato, ‘documentalmente provato’.
In buona sostanza, sia in ragione della mancanza, in radice, di un’idonea prova a supporto del credito ante fallimento, sia in ragione della discrasia ‘di periodo’ che connota i crediti che s’intenderebbe compensare (l’uno a monte, l’altro a valle del fallimento), il giudice regionale ha escluso la sussistenza dei presupposti per la compensazione.
Sotto questo secondo aspetto mette in conto rilevare che, a mente dell’art. 56 L. fall. (norma significativamente riprodotta nella sostanza dall’art. 155 CCII), i creditori hanno , invero, diritto di compensare i crediti che essi vantano verso il fallito, ancorché non scaduti prima della dichiarazione di fallimento, coi loro debiti verso lo stesso, fermo restando che per i crediti non scaduti la compensazione non ha luogo se il creditore ha acquistato il credito per atto tra vivi dopo la dichiarazione di fal limento o nell’anno anteriore, con l’effetto che, requisito essenziale affinché sia applicabile la compensazione fallimentare è l’anteriorità della genesi del credito rispetto alla procedura concorsuale. In materia tributaria è, dunque, ammissibile la compensazione del credito IVA chiesto a rimborso dal curatore, a seguito del fallimento di una società (art. 30, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972) e i (soli) debiti contratti verso l’erario dalla società medesima in periodi d’imposta antecedenti il fallimen to, perché, ponendosi la coincidenza della partita IVA per le operazioni prefallimentari e postfallimentari come circostanza meramente occasionale che non muta l’autonomia giuridica delle operazioni facenti capo al fallito, entrambe le voci di debito/credito devono reputarsi sorte nel momento in cui la società era in bonis (Cass. n. 14620 del 2019). In altri termini, il credito IVA chiesto a rimborso dev’essersi formato in esercizi antecedenti la dichiarazione di fallimento, così come i debiti opposti in compensazione dall’Amministrazione finanziaria, sicché a tenore dell’art. 56 L. fall. (ora art. 155 CCII), la compensazione è ammissibile ancorché il ‘controcredito’ del fallito divenga liquido ed esigibile in un momento successivo alla data di dichiarazione di fallimento purché il fatto genetico dell’obbligazione, si collochi in epoca anteriore alla declaratoria fallimentare di fallimento (Cass. n. n. 144187 del 2013; Cass. n. 18915 del 2010; Cass. n. 10025 del 2010).
Viceversa, sebbene dopo la dichiarazione di fallimento il curatore fallimentare conservi la stessa partita Iva della società fallita, in nessun caso il credito Iva sorto antecedentemente alla dichiarazione di fallimento può essere compensato con IVA a debito generata in esercizi successivi. Invero, le due posizioni IVA -quella antecedente e quella successiva al fallimento -sebbene riferite ad un’unica partita IVA sono fra loro distinte e divaricate e detta diversità è testimoniata, sul piano strutturale, dalla circostanza per cui, al momento della sentenza d’apertura della procedura di concorso, il curatore è tenuto a redigere due dichiarazioni Iva, la prima avente ad oggetto le operazioni effettuate dall’imprenditore dichiarato fallito, la seconda riferita alle operazioni successive alla dichiarazione di fallimento. Proprio la sussistenza di tali oneri, già contemplati dall’art. 74 -bis d.P.R. n. 633 del 1972 e ora riprodotti dall’art. 8, comma 4, d.P.R. n. 322/1998 (nel tenore testuale risultante a seguito delle modifiche inizialmente apportate prima dall’articolo 1, comma 6, lettera b), del d.P.R. n. 542/1999 e dall’articolo 8, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 4357/2001 e, successivamente dall’articolo 10, comma 1, lettera a), n. 2), del D.L. n. 78/2009, conv. con modif., dalla L. n. 102/2009), denota e dimostra che le operazioni IVA ante fallimento, possedendo autonomia giuridica rispetto a quelle post fallimento, non risultano con queste compensabili.
In particolare, ai fini della richiesta di rimborso del credito IVA eventualmente affiorante dalle operazioni anteriori all’apertura del concorso, la dichiarazione di fallimento è equiparata alla cessazione dell’attività d’impresa, pur a fronte della permanenza della medesima partita IVA.
La dichiarazione del curatore per il periodo ‘prefallimentare’, in questo quadro, acclara formalmente la cessazione di attività, definendo l’intero coacervo dei rapporti tributari antecedenti
all’apertura del concorso. Pertanto, tale dichiarazione costituisce una sorta di equipollente della cessazione dell’attività, suscettibile di partorire il diritto della curatela fallimentare al rimborso dei versamenti che risultino effettuati in eccedenza, in forza di quanto disposto dall’art. 30 del d.P.R. n. 633/1972.
La Corte, in questa prospettiva, ha affermato coerentemente che ‘In materia tributaria è ammissibile la compensazione, ex art. 56 della l. fall., del credito IVA chiesto a rimborso dal fallito con i debiti erariali, sorti anteriormente alla dichiarazione di fallimento, anche quando il controcredito del fallito divenga liquido od esigibile successivamente, non determinandosi violazione del principio di neutralità dell’imposta poiché la posizione IVA maturata in epoca precedente la dichiarazione di fallimento è differente da quella successiva, ponendosi la coincidenza della partita IVA per le operazioni prefallimentari e postfallimentari come circostanza meramente occasionale, che non muta l’autonomia giuridica delle operazioni facenti capo al fallito, di cui il curatore è avente causa e amministratore del patrimonio, e quelle riferibili alla massa dei creditori, nel cui interesse opera il curatore stesso, quale gestore del patrimonio altrui, con conseguente necessità di redazione, ai sensi dell’art. 74-bis del d.P.R. n. 633 del 1972, di due distinte dichiarazioni IVA, aventi ad oggetto le operazioni effettuate dal fallito anteriormente e successivamente al fallimento ‘ (Cass. n. 14620 del 2019). Per il vero nella giurisprudenza di questa Corte il principio di equiparazione fra dichiarazione di fallimento e cessazione di attività dell’impresa ai fini tributari ha conosciuto una precisa specificazione, essendosi affermato che la dichiarazione, prevista dall’art. 74 -bis mentovato, relativamente alle operazioni anteriori all’apertura o all’inizio delle procedure concorsuali, è equiparabile alla dichiarazione di cessazione di attività, con la conseguenza che essa, al pari della dichiarazione annuale,
chiudendo il rapporto tributario antecedente alle procedure concorsuali, fa sorgere, da quella data, ai sensi dell’art. 30 d.P.R. n. 633 del 1972 il diritto al rimborso dei versamenti d’imposta che risultino effettuati in eccedenza (Cass. n. 27948 del 2009; Cass. n. 4225 del 2004; Cass. n. 4316 del 2015). Già in precedenza la nomofilachia aveva asserito che ‘ Ai fini del rimborso dell’IVA versata in eccedenza per effetto della cessazione dell’attività, in caso di fallimento del contribuente, solo la dichiarazione del curatore prescritta dall’art. 74-bis del d.P.R. n. 633 del 1972, è equiparabile alla dichiarazione di cessazione dell’attività, non essendo invece equipollente a tale adempimento la dichiarazione relativa all’imposta dovuta per l’anno solare precedente, atto che il curatore parimenti deve presentare, se il relativo termine non sia scaduto ‘ (Cass. n. 8642 del 2009).
Ancora di recente, questa Corte si è incaricata di ribadire che ‘ In materia tributaria è ammissibile la compensazione, ex art. 56 della l. fall., del credito IVA chiesto a rimborso dal fallito con i debiti erariali, sorti anteriormente alla dichiarazione di fallimento, anche quando il controcredito del fallito divenga liquido od esigibile successivamente, non determinandosi violazione del principio di neutralità dell’imposta, poiché la posizione IVA maturata in epoca precedente alla dichiarazione di fallimento è differente da quella successiva, ponendosi la coincidenza della partita IVA per le operazioni prefallimentari e postfallimentari come circostanza meramente occasionale, che non muta l’autonomia giuridica delle operazioni facenti capo al fallito, di cui il curatore è avente causa e amministratore del patrimonio, e quelle riferibili alla massa dei creditori, nel cui interesse opera il curatore stesso, quale gestore del patrimonio altrui, con conseguente necessità di redazione, ai sensi dell’art. 74-bis del d.P.R. n. 633 del 1972, di due distinte dichiarazioni
IVA, aventi ad oggetto le operazioni effettuate dal fallito anteriormente e successivamente al fallimento’ (Cass. n. 20063 del 2023).
In particolare, non sussiste violazione del principio di neutralità dell’IVA nella misura in cui il curatore, pur conservando la partita IVA del fallito, non potrebbe compensare il credito IVA ante fallimento con i debiti maturati in costanza di fallimento, posto che la posizione IVA maturata in epoca precedente la dichiarazione di fallimento è differente dalla posizione IVA successiva alla dichiarazione di fallimento; che questa diversità è dimostrata dal fatto che all’atto della dichiarazione di fallimento il curatore redige due distinte dichiarazioni IVA, già previste dall’art. 74 bis del d.P.R. 633/1972; la prima di tali dichiarazioni, redatta sul modello IVA 74-bis e da presentarsi entro quattro mesi dalla nomina a curatore, ha ad oggetto le operazioni effettuate dall’imprenditore dichiarato fallito dal 1° gennaio sino alla data della dichiarazione di fallimento (cd. segmento temporale prefallimentare) ed è volta a rilevare la posizione IVA dell’imprenditore dichiarato fallito alla data della sentenza dichiarativa; la seconda è, invece, l’ordinaria dichiarazione annuale, benché limitata, per il primo anno, alle sole operazioni imponibili successive alla pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento; per ciascuna di queste due dichiarazioni il curatore del fallimento assume una veste diversa, ossia – quanto alla dichiarazione IVA prefallimentare – quella di avente causa del fallito e amministratore del patrimonio di questi, nel caso in cui rinvenga beni, azioni o (come nella specie) crediti che già facevano capo al fallito (Cass., 31 maggio 2017, n. 13762); l’altra – con riferimento alla dichiarazione postfallimentare – di gestore di un patrimonio altrui (e, quindi, di terzo rispetto all’imprenditore dichiarato fallito), ove eserciti l’attività liquidatoria nell’interesse della massa dei creditori; che la
dichiarazione prefallimentare è volta a evidenziare eventuali crediti (IVA) che il curatore ha rinvenuto nel patrimonio del fallito (eventualmente da opporre in compensazione in sede di richiesta di ammissione allo stato passivo di crediti tributari); crediti che, ancorché siano oggetto di trascinamento durante il periodo fallimentare (stante la permanenza della medesima partita IVA in costanza di fallimento), trovano causa nelle operazioni compiute precedentemente dall’imprenditore dichiarato fallito e non, quindi, nelle successive operazioni in campo IVA compiute dal curatore del fallimento quale gestore del patrimonio altrui nell’interesse della massa dei creditori; che, pertanto, non può configurarsi violazione del principio di neutralità in considerazione del fatto che la mera coincidenza della medesima partita IVA (già facente capo all’imprenditore dichiarato fallito) sia per le operazioni IVA prefallimentari, sia per quelle postfallimentari, costituisce una circostanza del tutto occasionale, che non priva di autonomia giuridica – alla luce del menzionato regime normativo – le operazioni IVA prefallimentari da quelle postfallimentari, trattandosi di posizioni facenti capo a soggetti differenti (il fallito per le prime e la massa dei creditori per le seconde); tanto che la dichiarazione di fallimento è equiparata -va ribadito -ai fini della richiesta di rimborso del credito IVA, alla chiusura dell’attività di impresa di cui all’art 30, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972 (Cass. n. 8642 del 2009 cit.), nonostante la permanenza della medesima partita IVA (Cass. n.14620 cit.).
Con l’ ottavo motivo si contesta la nullità della sentenza e del procedimento ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., in relazione all’art. 112 c.p.c., per aver la Corte di Giustizia Tributaria omesso di pronunciarsi sulle seguenti domande: (i) legittimità della compensazione del credito ante fallimento con le annualità 2006 e 2007; (ii) legittimità del credito IVA (di Euro 29.398,00) nonostante l’omessa dichiarazione
ai fini IVA per l’anno 2014; (iii) illegittimità della sospensione del credito residuo (dell’importo di Euro 6.935,00) quale credito residuo al 31.12.2017 in assenza di provvedimenti di irrogazione di sanzione o di altri provvedimenti.
Il motivo è inammissibile.
Sulla legittimità della compensazione del credito ante fallimento la Corte regionale si è espressa nel senso testualmente riportato in sede d’esame del settimo motivo.
Con riferimento agli altri profili che si assumono trascurati o negletti è sufficiente richiamare il principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità, in virtù del quale ‘ Non ricorre il vizio di mancata pronuncia su una eccezione di merito sollevata in appello qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima, sicché il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione ‘ (Cass. n. 14486 del 2004). Il tentativo, d’altronde, speso dalla ricorrente per contestare la fondatezza e legittimità del e la sua compensabilità urta frontalmente contro l’accertame nto di fatto finalizzato a revocarne in dubbio l’effettiva sussistenza, risolvendosi in una sostanziale richiesta a questa Corte di una più appagante ricostruzione del merito della controversia. Detta ricostruzione è preclusa in questa sede, sia perché istituzionalmente lo scrutinio dei fatti è rimesso al giudice di merito, sia in quanto la legittimità di un credito o di un provvedimento di sospensione o della legittimità stessa della
compensazione sono profili sbaragliati dall’affermata, omessa dimostrazione del credito, quindi dalla sua ritenuta insussistenza.
Il ricorso va, in ultima analisi, rigettato. Le spese sono regolate dalla soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 20.000,00 per compensi, oltre agli accessori di legge e alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 11/12/2024.