Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 15328 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 15328 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 12102/2022 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE quale incorporante della RAGIONE_SOCIALE a seguito di atto di fusione del 19 giugno 2008, nella persona del rappresentante legale pro tempore , rappresentata e difesa, come da procura speciale in calce al ricorso per cassazione, dagli Avv.ti NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME con domicilio eletto presso il loro studio sito in Roma, INDIRIZZO nonché presso il seguente indirizzo digitale: EMAIL
(pec: EMAIL)
(pec: EMAIL)
(pec: EMAIL)
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la cui sede è elettivamente domiciliata, in Roma, alla INDIRIZZO (PEC: EMAIL
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA n. 4049/2021, depositata in data 9 novembre 2021, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26 febbraio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE
La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto il ricorso avente ad oggetto l’avviso di riconoscimento del rimborso del 21 dicembre 2018, emesso a conguaglio di quanto già corrisposto dal concessionario e con il quale veniva erogato il restante capitale pari a euro 1.729.841,00, oltre interessi pari a euro 50.746,69.
I giudici di secondo grado hanno rigettato il gravame ritenendo, diversamente dai giudici di primo grado, che l’istanza di rimborso relativa a imposta ed interessi per il periodo d’imposta 2004 era stata regolarmente prodotta dalla società RAGIONE_SOCIALE con modello VR in esito a un credito risultante dalla dichiarazione IVA e che alla predetta istanza l’Ufficio aveva fornito riscontro con il richiamato avviso di riconoscimento del rimborso legittimamente impugnato dalla società; a fronte del provvedimento adottato il 10 maggio 2007 a mezzo del quale l’Ufficio aveva disposto la sospensione del rimborso « in attesa della definizione delle pendenze in corso o della
presentazione di idonea garanzia, senza limiti temporali, per l’ammontare dei contesti stessi, fino all’ammontare massimo del rimborso », la RAGIONE_SOCIALE aveva prestato acquiescenza al provvedimento restando inadempiente alle condizioni in esso stabilite; nessun addebito, pertanto, poteva essere mosso all’Ufficio per il mancato pagamento fino all’avvenuta definizione dei carichi pendenti, con la conseguenza che, alla luce dei principi affermati dalla Suprema corte (con la sentenza n. 17828 del 22 giugno 2021), non si configurava alcuna responsabilità in capo all’Ufficio per il ritardo nella erogazione del rimborso ed era legittimo l’avviso di riconoscimento di rimborso nella parte in cui non aveva riconosciuto l’esatto ammontare degli interessi per un ammontare di euro 469.543,77.
RAGIONE_SOCIALE quale incorporante della RAGIONE_SOCIALE, ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a tre motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
CONSIDERATO CHE
1. Il primo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., l’i llegittimità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 38 -bis del d.p.r. n. 633 del 1972, nonché dei principi di neutralità e di proporzionalità del diritto UE, anche in considerazione della natura «compensativa» e non «moratoria» degli interessi previsti nella citata norma. Le conclusioni della sentenza impugnata erano illegittime, in quanto la natura moratoria degli interessi previsti, in particolare in materia di I va dall’art. 38 -bis , ma, più in generale, in materia di crediti d’imposta, non era affatto pacifica, anche guardando la giurisprudenza ultradecennale della Corte di Cassazione e non esistendo ragioni decisive per distinguere la natura degli interessi dovuti sui crediti I va, da quelli dovuti sugli altri crediti d’imposta. La
natura compensativa degli interessi comportava che tali somme servivano «a reintegrare la diminuzione patrimoniale subita dal contribuente, che veniva così compensato del mancato godimento del denaro in precedenza versato» e che gli interessi dovevano essere riconosciuti a prescindere da quelle che erano le vicende che portavano al ritardo nell’erogazione del rimborso. Tale qualificazione diventava ancora più appropriata se si considerava la durata della sospensione ed infatti, nel momento in cui la pur legittima tutela delle casse erariali implicava il mancato rimborso dell’eccedenza oltre il termine ragionevole, allora il principio di proporzionalità imponeva che il vulnus alla neutralità fosse compensato con la maturazione di interessi. La violazione della norma in rubrica diventava ancora più evidente nel caso in cui la causa del mancato computo degli interessi veniva ancorata al mancato deposito della polizza fideiussoria (equiparandola di fatto, alla mancata presentazione dei documenti necessari a provare il diritto al rimborso) atteso che tale condizione era del tutto assente nel disposto normativo. La società ricorrente chiede, quindi, il rinvio alla Corte di Giustizia, per domandare alla stessa se i principi comunitari di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto e di proporzionalità e la giurisprudenza della Corte, secondo la quale lo scopo degli interessi è quello di compensare il sacrificio economico e finanziario causato dalla indisponibilità delle somme chieste a rimborso, ostino a una interpretazione dell’art. 38 -bis del d.P.R. n. 633 del 1972 come quella data dai giudici di secondo grado, secondo la quale la mancata presentazione della garanzia è equiparata alla mancata produzione dei documenti necessari a provare il diritto al rimborso.
Il secondo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza per omessa pronuncia, in violazione dell’art. 112 c.p.c., in ordine all’ eccezione sollevata dalla Banca riguardante, fin dal primo grado di giudizio, la violazione e falsa
applicazione dell’art. 38 -bis del d.P.R. n. 633 del 1972, in quanto il provvedimento di sospensione del 2007 era stato emesso in assenza dei presupposti previsti dal comma 3 vigente ratione temporis: « Quando sia stato constatato nel relativo periodo di imposta uno dei reati di cui all’articolo 4, primo comma, n. 5), del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429 , convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, l’esecuzione dei rimborsi prevista nei commi precedenti è sospesa, fino a concorrenza dell’ammontare dell’imposta sul valore aggiunto indicata nelle fatture o in altri documenti illecitamente emessi od utilizzati, fino alla definizione del relativo procedimento penale ».
Il terzo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., l’i llegittimità della sentenza, ancora, per violazione e falsa applicazione dell’art. 38 -bis del d.p.r. n. 633/1972, in quanto il provvedimento di sospensione del 2007 era stato emesso in assenza dei presupposti previsti dal comma 3 vigente ratione temporis. Sotto diverso profilo, ma, comunque, connesso a quello che precede, la sentenza aveva violato ancora il citato art. 38bis in rubrica, in quanto il provvedimento di sospensione dell’esecuzione del rimborso non poteva esplicare nessuna efficacia, nemmeno con riferimento alla sospensione della maturazione degli interessi, in quanto era stato emesso in assenza dei presupposti previsti dall’allora vigente comma 3, vale a dire la presenza di una fattispecie criminosa. Il principio di specialità escludeva che potessero essere applicati principi generali, tra i quali, appunto l’eccezione di compensazione in materia di obbligazioni, né la sospensione in esame poteva essere ricondotta ad un fermo amministrativo disciplinato dall’art. 69 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2240.
L’esame delle esposte censure porta all’accoglimento del primo motivo di ricorso, con assorbimento dei restanti motivi.
4.1 Deve premettersi che, in base a quanto emerge dalla narrativa della sentenza impugnata, l’istanza di rimborso del credito Iva per il
periodo d’imposta 2005 è stata presentata dalla società in data 2 febbraio 2006 e che l’Ufficio con provvedimento notificato il 10 maggio 2007, non impugnato nei termini di legge, ha disposto la sospensione del rimborso richiesto richiamando l’art. 38 -bis del d.p.r. n. 633 del 1972, così statuendo: « Il sottoscritto, direttore dell’Ufficio, ai sensi dell’art. 38 -bis del D.P.R. 26/10/72 n. 633 comunica alla S.V. che a suo carico: sono stati redatti i seguenti avvisi di rettifica e/o accertamento e/o irrogazioni di sanzioni e/o processi verbali e che pertanto dispone la sospensione del rimborso richiesto, in attesa della definizione delle pendenze in corso o della presentazione di idonea garanzia , senza limiti temporali, per l’ammontare dei contesti stessi, fino all’ammontare massimo del rimborso » (cfr. pag. 8 del ricorso per cassazione).
4.2 Emerge ancora dagli atti (cfr. pagine 2, 3 e 4 del ricorso per cassazione) che in data 2 febbraio 2006, la società Monza RAGIONE_SOCIALE presentava il mod. VR/2006, con il quale chiedeva il rimborso del credito Iva per il periodo d’imposta 2005, ammontante ad euro 1.906.297,00; in data 12 settembre 2006, l’Agenzia delle entrate effettuava un parziale rimborso del predetto credito, pari ad euro 176.456,00; con provvedimento notificato il 10 maggio 2007, l’Ufficio disponeva la sospensione del rimborso richiesto; la società RAGIONE_SOCIALE con atto del 19 giugno 2008 veniva incorporata nella società RAGIONE_SOCIALE che successivamente assumeva la denominazione di Banca Privata Leasing s.p.aRAGIONE_SOCIALE; la Banca succeduta, con raccomandata A/R del 1° luglio 2009 chiedeva lo smobilizzo del credito in oggetto e l’Ufficio , con conseguente missiva del 24 luglio 2009, richiedeva l’invio dell’atto di fusione che identificava RAGIONE_SOCIALE quale nuovo legittimo titolare del credito; la Banca, in data 16 dicembre 2009, presentava, nuovamente, domanda di smobilizzo e così in data 20 maggio 2014 ; l’Uffici o, con lettera del 1° ottobre 2015, richiedeva l’invio della documentazione necessaria a dar
seguito al rimborso e con l’ Avviso di riconoscimento di rimborso, inviato via PEC il 21 gennaio 2019, comunicava alla Banca di aver disposto il rimborso; il rimborso erogato era stato di euro 1.757.986,90, giusta ordine di bonifico dell’11 gennaio 2019 (con una corresponsione di interessi pari ad euro 28.145,90 con conseguente differenza non erogata, a dire della Banca ricorrente, di euro 469.543,77).
4.3 Ancora si ricava dagli atti e, d’a ltronde, non è fatto contestato dalle parti (pag. 6 del ricorso per cassazione e pagine 2 e 3 del controricorso), l’esistenza , al momento dell’adozione del provvedimento di sospensione del rimborso del credito Iva, di un processo verbale di constatazione relativamente al periodo d’imposta 2004, emesso nel 2007 dalla Direzione Regionale della Lombardia nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE, successivamente recepito nell’avviso di accertamento n. CODICE_FISCALE, notificato il 24 luglio 2007, con il quale venivano chieste in pagamento imposte e sanzioni per un totale di euro 1.751.330,00; detto avviso di accertamento è stato impugnato in sede contenziosa e il giudizio si è concluso con sentenza di questa Corte n. 28575 del 29 novembre 2017 che ha rigettato il ricorso per cassazione presentato dall’Agenzia delle Entrate, dopo che la Commissione tributaria regionale della Lombardia, con sentenza n. 99 del 21 settembre 2011, aveva rigettato l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE Emerge, altresì, dagli atti (e specificamente dal controricorso, pagine 2 e 3) , l’esistenza di altri tre controcrediti, relativi al l’accertamento n. NUMERO_DOCUMENTO per l’anno d’imposta 2015, notificato in data 9 febbraio 2017 , definito in adesione con pagamento rateale; al l’accertamento n. NUMERO_DOCUMENTO per l’anno d’imposta 2016, notificato in data 29 maggio 2018, definito in adesione su istanza del contribuente notificato in data 19 novembre 2018 e, in ultimo, ad altro carico pendente
definito in data 19 novembre 2018 (data quest’ultima , poi, assunta dall’U fficio quale momento temporale del rimborso del credito Iva).
Tanto premesso va prima di tutto chiarito che la sospensione del rimborso del credito IVA e dei correlati interessi moratori è prevista in diverse ipotesi.
5.1 Viene prioritariamente in rilievo il disposto di cui all’art. 38 bis , comma 1, seconda parte, del d.P.R. n. 633 del 1972, che prevede la non computabilità degli interessi nel periodo intercorrente fra la data di notifica della richiesta di documenti e la data della loro consegna, quando superi quindici giorni. Il vigente comma 8 della citata disposizione prevede, poi, la sospensione del rimborso per il caso di constatazione di uno dei reati di cui agli artt. 2 e 8 del d.lgs. n. 74 del 2000; in tal caso la sospensione, anche della decorrenza degli interessi di mora, opera «fino alla definizione del relativo procedimento penale». 5.2 La sospensione del rimborso è, inoltre, prevista dall’art. 23 del d.lgs. n. 472 del 1997, quando al soggetto che vanta un credito nei confronti dell’amministrazione finanziaria venga notificato un «atto di contestazione o di irrogazione della sanzione o provvedimento con il quale vengono accertati maggiori tributi, ancorché non definitivi».
5.3 Ulteriore ipotesi di sospensione è quella del cd. fermo amministrativo, regolato dall’art. 69, sesto comma, r.d. n. 2440 del 1923, secondo cui « Qualora un’amministrazione dello Stato che abbia, a qualsiasi titolo, ragione di credito verso aventi diritto a somme dovute da altre amministrazioni, richieda la sospensione del pagamento, questa deve essere eseguita in attesa del provvedimento definitivo ». 5.4 . Infine, la sospensione del rimborso del credito IVA opera anche in presenza di carichi pendenti e, in questo caso, come affermato dalla Corte di Cassazione detta sospensione « va ricondotta, da un lato, ai principi generali in materia di obbligazioni (e, in ispecie, all’eccezione di compensazione, che può sempre essere opposta) e, dall’altro, sul piano formale, all’istituto del cd. fermo amministrativo, regolato
dall’art. 69, quinto comma, r.d. n. 2240 del 1923» (Cass., 22 giugno 2021, n. 17828).
5.5 Ora, nel caso in esame, se è vero che nel provvedimento di sospensione è stato menzionato espressamente l’art. 38 bis del d.P.R. n. 633 del 1972 ( dove la sospensione è generalmente finalizzata all’accertamento dei presupposti del rimborso del credito Iva richiesto ), è anche vero che il fondamento in fatto era individuato nel l’esistenza di carichi pendenti ( dove, per l’appunto, la sospensione è diretta alla compensazione del credito Iva richiesto a rimborso con i controcrediti erariali di diversa natura ); il presupposto della misura, dunque, era costituito all’inizio dall’esistenza di un controcredito fondato, su un verbale della Guardia di Finanza e, successivamente, da altri controcrediti, poi, definiti volontariamente dalla società ricorrente. In relazione a ciò, l’Amministrazione subordinava l’erogazione del credito ad una duplice alternativa, ossia alla «definizione delle pendenze in corso», ovvero alla «presentazione di idonea garanzia». Va, quindi, escluso che l’atto di sospensione sia stato adottato, contrariamente a quanto asserito dalla società, ai sensi dell’art. 38 bis , comma 8, del d.P.R. n. 633 del 1972, che riguarda solo l’ipotesi in cui nel medesimo periodo d’imposta siano stati commessi reati, per ipotesi particolari, ed ha una durata «fino alla definizione del relativo procedimento penale». La misura va, invece, ricondotta nell’alveo normativo di cui all’art. 69, quinto comma, del r.d. n. 2240 del 1923.
5.6 In proposito, vanno richiamate le Sezioni Unite di questa Corte che hanno evidenziato che il provvedimento di sospensione del pagamento previsto dall’art. 69 del r.d. n. 2440 del 1923, espressione di un generale potere di autotutela dell’Amministrazione finanziaria, ha portata generale ed è, quindi, astrattamente applicabile anche in materia di rimborsi IVA, con il limite del divieto di cumulo delle tutele, nel senso che una volta ottenuta la garanzia prevista dall’art. 38 bis del d.P.R. n. 633 del 1972, la quale intende tutelare il diritto dell’Erario
alla restituzione di un credito illegittimamente rimborsato, non è più possibile procedere alla ulteriore sospensione del rimborso ai sensi del citato art. 69. In altri termini, per quanto qui rileva, ove non sia stata prestata la garanzia ex art. 38 bis citato, l’Amministrazione può adottare un provvedimento di sospensione che mira a salvaguardare l’eventuale compensazione legale del credito che abbia o pretenda di avere con quello del contribuente suo creditore (Cass., Sez. U., 31 gennaio 2020, n. 2320).
Ciò posto, questa Corte ha affermato che l ‘emissione di un provvedimento di fermo amministrativo del credito IVA chiesto a rimborso perché sono sussistenti le ragioni di credito che esso è volto a tutelare, comporta che, per il periodo di sospensione del rimborso, non maturino gli interessi legali previsti dall’art. 38 bis del d.P.R. n. 633 del 1972 (Cass., 23 agosto 2022, n. 25164; Cass., 21 giugno 2021, n. 17828), pacificamente ritenuti moratori (da ultimo Cass., 9 agosto 2023, n. 2429). Più precisamente (contrariamente a quanto affermato dalla società ricorrente) gli interessi in questione hanno natura moratoria, ossia sono disposti per il ritardo con cui l’Iva è rimborsata, e non sono interessi corrispettivi. Essi, infatti, spettano solo se la mora è fondata e dunque soltanto se il ritardo nel rimborso Iva è addebitabile all’ufficio (Cass., 22 giugno 2021, n. 17828; Cass., 29 aprile 2016, n. 8540; Cass., 23 luglio 2004, n. 13808).
6.1 Diversamente, nel caso in cui il provvedimento cautelare sia stato illegittimamente emesso per insussistenza dei controcrediti a cautela dei quali il fermo è stato disposto, il credito IVA richiesto a rimborso produce gli interessi legali di cui all’art. 38 bis citato anche nel periodo di vigenza del fermo, con decorrenza dal momento in cui essi sono diventati esigibili, e ciò anche se il fermo non sia stato impugnato (Cass., 19 maggio 2022, nn. 16097 e 16099); in particolare, con specifico riferimento ai controcrediti è stato affermato che « al di là dal fermo, e indipendentemente da esso (vedi Cass. n. 21082/19), è in
generale affidata alle regole del processo, davanti al giudice cui domanda ed eccezione sono state proposte, l’applicazione della disciplina sostanziale della compensazione (Cass., sez. un., n. 7945/03; n. 34930/21)» e, quanto al rimborso del credito Iva, che « la sospensione disposta col fermo è pur sempre funzionale alla compensazione con i controcrediti vantati: sicché il fermo è sì impugnabile per vizi propri, ma il giudizio non può avere per oggetto il solo vizio di legittimità del provvedimento sospensivo, essendo invece necessario che il contribuente alleghi anche i fatti costitutivi del proprio diritto di credito, che spiegano l’effettiva incidenza della sospensione del rimborso sulla sua posizione giuridica soggettiva, e che l’amministrazione convenuta dimostri le ragioni ostative al rimborso » (Cass., 19 maggio 2022, n. 16097, in motivazione). Spetta, dunque, al giudice tributario accertare la sussistenza del credito vantato dal contribuente, dopo aver esaminato i vizi di legittimità del provvedimento di sospensione e ciò coerentemente con la giurisprudenza unionale che ha evidenziato la necessità del controllo giurisdizionale effettivo della proporzionalità del pregiudizio arrecato da una misura cautelare al diritto di detrazione dell’Iva che abbia comportato l’eccedenza richiesta a rimborso (Corte di Giustizia UE, cause riunite C-286/94, C-340/95, C-401/95 e C-47/96) e difatti, « il fermo ha natura cautelare e intrinsecamente provvisoria e, per conservare gli effetti di una misura cautelare, la parte che ne profitta ha l’onere di far accertare l’esistenza della situazione soggettiva cautelata. Se, dunque, non si accerti che il credito vantato e invocato per paralizzare il rimborso è suscettibile di dar luogo a compensazione con il credito fatto valere dalla controparte, gli effetti del fermo, che, si è visto, pur sempre sul piano della compensazione sono destinati a esplicarsi, si devono ritenere definitivamente elisi sin dall’origine » (cfr. Cass., 19 maggio 2022, n. 16097, in motivazione).
6.2 Più specificamente è stato affermato che « L’insussistenza dei diritti cautelati dal fermo si è quindi riverberata sulla cautela, caducandola, poiché è stata elisa perfino la mera probabilità di esistenza del diritto di credito a presidio del quale essa era posta, di modo che si è reso necessario l’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto (Cass., sez. un., n. 758/17, relativa agli effetti dell’annullamento dell’avviso di accertamento, anche non definitivo, sull’iscrizione nei ruoli straordinari) », con il conseguente corollario che « La soluzione che esclude la stabilità degli effetti del fermo, poi caducato dall’accertamento dell’insussistenza dei crediti da esso cautelati, comporta inevitabilmente l’esclusione che il corso degli interessi possa essere sospeso nel periodo di vigenza della misura: si consentirebbe altrimenti una stabilità dell’efficacia del fermo che, invece, è travolta (Cass. n. 13808/04, cit.) » (cfr. Cass., 19 maggio 2022, n. 16097, sempre in motivazione).
6.3 E’ stato pure precisato che « In tema di rimborso di un credito IVA esposto in dichiarazione, il principio secondo cui l’accertata insussistenza dei controcrediti, a cautela dei quali sia stato disposto il fermo amministrativo ex art. 69 r.d. n. 2440 del 1923, comporta la produzione di interessi sull’importo richiesto a rimborso anche nel periodo di vigenza del fermo, nonostante la sua mancata impugnazione, non trova applicazione nei casi di definizione agevolata delle controversie relative ai controcrediti, cristallizzando tale atipica definizione del rapporto tributario l’an debeatur, seppur mitigato nell’ammontare, con conseguente conferma pure della legittimità del fermo » (Cass., 5 giugno 2024, n. 15730). Ed invero, « le Sezioni Unite di questa Corte, richiamando la sentenza della Corte Costituzionale n. 321 del 1995, hanno affermato che la definizione agevolata della controversia costituisce una forma atipica di definizione del rapporto tributario, che prescinde da un’analisi delle varie componenti ed esaurisce il rapporto stesso mediante definizione forfettaria e
immediata, nella prospettiva di recuperare risorse finanziarie e ridurre il contenzioso e non in quella dell’accertamento dell’imponibile, ragion per cui «incide sul rapporto sostanziale e processuale tra il contribuente e il fisco» (Cass., 30 novembre 2018, n. 31049)» e, nella declinazione sostanziale, incide sul «quantum», nel contempo però cristallizzando l’ «an debeatur » (Cass., 5 giugno 2024, n. 15730, in motivazione). In altre parole, come osservato di recente, in sede di definizione agevolata, « la pretesa erariale -sia pure nei limiti della quantificazione legale prevista -è confermata nella sua sostanza e la prospettiva, comune all’Ufficio e al contribuente, è quella di averla soddisfatta » (Cass., 5 giugno 2024, n. 15730; Cass., 8 gennaio 2024, n. 501).
Più in particolare, deve osservarsi che l’imputabilità del ritardo nel rimborso di un credito IVA è circostanza che è ritenuta come incidente sulla decorrenza o meno degli interessi non solo dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. la già citata Cass., 22 giugno 2021, n. 17828, che a sua volta richiama Cass., 29 aprile 2016, n. 8540 del 2016 e Cass., 23 luglio 2004, n. 13808 del 2004), ma anche da quella unionale (cfr. CGUE, sentenza del 6 luglio 2017 in causa C-254/16, nonché sentenza del 28 febbraio 2018 in causa C-387/16 ), secondo cui osta ad una riduzione dell ‘importo degli interessi normalmente dovuti su un’eccedenza di imposta sul valore aggiunto non rimborsata nei termini, quando tale riduzione sia invocata per circostanze non imputabili al soggetto passivo; sicché, nel caso inverso, di imputabilità del ritardo al creditore, non può parlarsi di ostacolo alla riduzione di quegli interessi (Cass., 9 agosto 2023, n. 24295, in motivazione).
7.1 Al riguardo, la Corte di Giustizia UE ha avuto modo di precisare che l’art. 183 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, pur non contenendo disposizioni esplicite sugli interessi sui rimborsi IVA, incide comunque sulla disciplina nazionale: « gli Stati membri dispongono indubbiamente di una certa libertà nello stabilire
le modalità di rimborso dell’eccedenza di IVA, dette modalità non devono ledere il principio di neutralità fiscale gravando il soggetto passivo, in tutto o in parte, del peso di tale imposta. In particolare, tali modalità devono consentire al soggetto passivo di recuperare, in condizioni adeguate, la totalità del credito risultante da detta eccedenza di IVA, ciò che impone che il rimborso sia effettuato entro un termine ragionevole e che, in ogni caso, il sistema di rimborso adottato non faccia correre alcun rischio finanziario al soggetto passivo occorre ricordare che, se è vero che l’articolo 183 della direttiva IVA non prevede né l’obbligo di versare interessi sull’eccedenza di IVA a credito né il dies a quo per il calcolo degli interessi stessi, tale circostanza non consente, di per sé, di concludere che detto articolo deve essere interpretato nel senso che le modalità stabilite dagli Stati membri ai fini del rimborso dell’eccedenza di IVA sono dispensate da qualsivoglia controllo in riferimento al diritto dell’Unione » (Corte Giustizia, sentenza 28 febbraio 2018, C-387/16). Secondo la medesima pronuncia della Corte appena citata, l’art. 183 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, letto alla luce del principio di neutralità fiscale, deve essere interpretato nel senso che esso non consente di ridurre gli interessi (e quindi l’effettività del rimborso, a danno del contribuente e della neutralità dell’imposta) per circostanze non imputabili al soggetto passivo e che quindi non integrano mora credendi.
7.2 E’ stato ancora osservato che il diritto dei soggetti passivi di detrarre dall’IVA di cui sono debitori l’IVA che ha già gravato a monte sui beni acquistati e sui servizi loro prestati costituisce un principio fondamentale del sistema comune dell’IVA , istituito dalla normativa dell’Unione, con la conseguenza che il diritto alla detrazione costituisce parte integrante del meccanismo dell’IVA e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni, ma va esercitato immediatamente,
per tutte le imposte che hanno gravato sulle operazioni effettuate a monte. Quanto alla possibilità, a norma dell’art. 183 della Direttiva IVA , di prevedere che l’eccedenza dell’IVA venga riportata sul periodo impositivo successivo o che venga rimborsata, la Corte di Giustizia ha evidenziato che, se è pur vero che gli Stati membri dispongono di una certa libertà di manovra nello stabilire le modalità di rimborso dell’eccedenza di IVA, dette modalità non devono ledere il principio della neutralità fiscale, gravando il soggetto passivo, in tutto o in parte, del peso di tale imposta e che modalità del genere devono segnatamente consentire al soggetto passivo di recuperare, in condizioni adeguate, la totalità del credito risultante da detta eccedenza di IVA, il che implica che il rimborso deve essere effettuato, entro un termine ragionevole, mediante pagamento in denaro liquido o con modalità equivalenti, e che, in ogni caso, il sistema di rimborso adottato non deve far correre alcun rischio finanziario al soggetto passivo. È evidente che per la Corte di Giustizia il diritto al rimborso merita la stessa tutela che viene riconosciuta al diritto alla detrazione, propriamente inteso, essendo il rimborso comunque funzionale al principio cardine della neutralità dell’ IVA e, proprio a tal fine, la Corte di Giustizia, rileva la necessità che il rimborso venga effettuato in un tempo ragionevole (Corte di Giustizia UE, sentenza 28 febbraio 2018, causa C-387/16; Corte di Giustizia UE, sentenza 12 maggio 2021, n. C-844/19; Corte di Giustizia UE, sentenza 7 settembre 2023 n. 639, causa C-453/22).
7.3 Né la possibilità offerta al soggetto passivo di abbreviare i termini di rimborso fornendo una cauzione rende il diniego degli interessi compatibili con il diritto unionale. Ed invero, come già precisato da questo Corte, la possibilità che è riconosciuta al titolare del credito oggetto della richiesta di rimborso di abbreviare i termini per ottenere il rimborso fornendo una cauzione o anche una garanzia come la fideiussione non riesce a elidere il pregiudizio che lo stesso subisce «E
ciò perché l’obbligo di costituzione della cauzione o della garanzia, che di norma è prestata a titolo oneroso, produce, in realtà, unicamente l’effetto di sostituire l’onere finanziario relativo all’immobilizzazione dei fondi corrispondenti all’eccedenza dell’iva per la durata del procedimento di verifica con quello corrispondente all’immobilizzazione dell’importo della cauzione o al costo della garanzia (Corte giust. in causa C-107/10, cit., punto 60) » (Cass., 19 maggio 2022, n. 16097, in motivazione).
7.4 Ciò che rende , all’evidenza, non accoglibile la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, che presuppone il dubbio interpretativo su una norma comunitaria e che non ricorre allorché il senso della norma sia già stato chiarito da precedenti pronunce della Corte, non rilevando, peraltro, il profilo applicativo di fatto, che è rimesso al giudice nazionale a meno che non involga un’interpretazione generale ed astratta (cfr. Cass., 1 settembre 2023, n. 25612; Cass., 16 giugno 2017, n. 15041; Cass., Sez. U., 10 settembre 2013, n. 20701).
7.5 E’ doveroso precisare, in ultimo, che anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, chiamata a pronunciarsi sulla questione se il ritardo con cui l’amministrazione rimborsi i suoi crediti di imposta violi il diritto al rispetto dei propri beni, sancito da ll’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, facendo riferimento alla sentenza delle Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 3 luglio 2003, causa RAGIONE_SOCIALE liquidazione c. Italia, n. 38746/97, ha ribadito che per tutto il periodo di attesa del rimborso del credito d’imposta il contribuente è titolare di un interesse patrimoniale riconosciuto nel diritto italiano, e dunque di un «bene» ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione e che « l’ingerenza costituita dal ritardo nel rimborso in questione rientra nelle previsioni della prima frase del primo comma dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, che enuncia, in maniera generale, il principio del rispetto dei beni (RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, sopra citata, §§ 30-31) »
(Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 12 novembre 2015, causa RAGIONE_SOCIALE, n. 41984/04, par. 27).
7.6 Inoltre i giudici della Corte EDU, sul presupposto che spetta alla Corte « determinare se sia stato mantenuto un giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (Air Canada c. Regno Unito, 5 maggio 1995, § 36, serie A n. 316-A; COGNOME c. Italia , n. 33202/96, § 107, CEDU 2000 I; e COGNOME e altri c. Italia (dec.), n. 11004/05, § 28, 17 settembre 2013) » e che « Questo giusto equilibrio viene rotto se la persona interessata deve sostenere un onere eccessivo e sproporzionato (COGNOME e COGNOME c. Svezia, 23 settembre 1982, §§ 69-74, serie A n. 52; Maggio e altri c. Italia, nn. 46286/09, 52851/08, 53727/08, 54486/08 e 56001/08, § 57, 31 maggio 2011; e COGNOME Stevens e altri c. Italia, nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10, § 196, 4 marzo 2014) » (par. 29), hanno ritenuto che « nella causa RAGIONE_SOCIALE in liquidazione (sopra citata, §§ 36-40), gli effetti di questo sistema sono stati ritenuti contrari all’articolo 1 del Protocollo n. 1, in considerazione soprattutto della durata dei rimborsi (da cinque a dieci anni), del fatto che erano stati accordati degli interessi semplici, e non degli interessi composti, per compensare questi ritardi, dell’impatto considerevole che l’indisponibilità prolungata delle somme controverse aveva avuto sulla situazione finanziaria della società Buffalo, e del fatto che quest’ultima non disponeva di alcun ricorso efficace che potesse porre rimedio alla eccessiva durata della sua attesa e alla conseguente incertezza circa il momento in cui i suoi crediti sarebbero stati pagati » (par. 31).
Tanto premesso, osserva il Collegio che la sentenza impugnata non è conforme ai principi suesposti. Ed invero, la Commissione tributaria regionale ha affermato, sul presupposto che il provvedimento di sospensione adottato dall’Ufficio e notificato in data 10 maggio 2007 non fosse stato impugnato e che la garanzia per i carichi pendenti non
fosse stata prestata (cfr. pag. 2 della sentenza impugnata), che nessun addebito poteva essere mosso all’Ufficio per il mancato pagamento fino all’avvenuta definizione dei carichi pendenti ( a seguito di contenzioso definito con ordinanza di questa Corte n. 28575 del 29 novembre 2017 per l’anno d’imposta 2004 e di definizione in adesione per gli anni d’imposta 2015 e 2016, cfr. pagine 2 e 3 del controricorso ), con la conseguenza che non si configurava alcuna responsabilità in capo all’Ufficio per il ritardo nella erogazione del rimborso; inoltre, i giudici di secondo grado, richiamando anche la giurisprudenza di questa Corte, hanno affermato che la mancata prestazione della garanzia andava equiparata alla mancata presentazione dei documenti necessari a provare il diritto al rimborso e che, di contro, la prestazione della fideiu ssione avrebbe comportato l’erogazione del rimborso. Invero, la Commissione tributaria regionale ha sostanzialmente ritenuto che la prestazione della garanzia fideiussoria era parte integrante ed imprescindibile del procedimento per dar luogo al rimborso e che il decorso degli interessi doveva intendersi sospeso nelle more dei termini per la presentazione della documentazione, ivi compresa la fideiussione, con il conseguente corollario che se il rimborso del credito IVA da parte dell’Ufficio era stato legittimamente sospeso risultava necessariamente sospesa anche la decorrenza/maturazione dei correlati interessi che, dunque, non erano dovuti con riferimento al periodo di sospensione; inoltre, la mancata produzione della documentazione attestante la conseguita fideiussione impediva la liquidazione del rimborso alla società contribuente, per fatto esclusivamente alla stessa attribuibile, ed importava la sospensione della decorrenza degli interessi (cfr. pagine 2 e 3 della sentenza impugnata). Si tratta di una affermazione che, laddove assume la necessità del cumulo di cautele (da un lato il fermo per i carichi pendenti e dall’altro la prestazione di garanzia) non è conforme ai principi affermati da questa Corte (cfr. Cass., Sez. U., 31 gennaio
2020, n. 2320) secondo cui è fatto divieto di cumulare le tutele, nel senso che una volta ottenuta la garanzia prevista dall’art. 38 bis del d.P.R. n. 633 del 1972, non è più possibile procedere alla ulteriore sospensione del rimborso ai sensi del citato art. 69. Peraltro, la stessa Agenzia controricorrente, proprio richiamando la sentenza delle Sezioni Unite (la n. 2320 del 2020), ha riconosciuto che l’Amministrazione può adottare un provvedimento di sospensione quando non sia stata prestata la garanzia ai sensi dell’art. 38 bis del d.P.R. n. 633 del 1972 (pag. 8 del controricorso), salvo, poi, contraddittoriamente affermare che « ci si trova di fronte a due legittime causali di sospensione del rimborso », ossia l’esistenza di carichi pendenti e la mancata prestazione di garanzia (pag. 9 del controricorso).
8.1 Ed invero, nel caso in esame, è certo che il rimborso non sia avvenuto entro un termine ragionevole (rimborso del credito Iva richiesto in data 2 febbraio 2006 e rimborso finale erogato con bonifico datato 11 gennaio 2019). Per altro verso, al cospetto dell’irragionevolezza della durata del ritardo, l’Agenzia ha addotto ragioni finalizzate ad escludere la mora dell’amministrazione e a ritenere la mora del creditore, sostenendo che gli interessi non fossero esigibili prima del venir meno della sospensione dovuta a fermo amministrativo in ragione della sussistenza di carichi pendenti che non consentivano di considerare certo il credito oggetto della richiesta di rimborso: ovvero l’esistenza di quelle ragioni di credito era di per sé idonea a dilazionare il dies a quo di esigibilità del credito per interessi. Ed invero, con specifico riferimento ai controcrediti esistenti, quanto agli accertamenti definiti con adesione, va applicato il principio stabilito da questa Corte, secondo cui la regola in base alla quale l’accertata insussistenza dei controcrediti, a cautela dei quali sia stato disposto il fermo amministrativo ex art. 69 r.d. n. 2440 del 1923, comporta la produzione di interessi sull’importo richiesto a rimborso anche nel periodo di vigenza del fermo, nonostante la sua mancata
impugnazione, non trova applicazione nei casi di definizione agevolata delle controversie relative ai controcrediti, cristallizzando tale atipica definizione del rapporto tributario l’ an debeatur , seppur mitigato nell’ammontare, con conseguente conferma pure della legittimità del fermo (cfr. Cass., 5 giugno 2024, n. 15730, citata).
Diversamente va affermato con riferimento all’avviso di accertamento n. R1K03T100353/2007, notificato il 24 luglio 2007, con il quale venivano chieste in pagamento imposte e sanzioni per un totale di euro 1.751.330,00, poiché detto avviso di accertamento è stato impugnato in sede contenziosa e il giudizio si è concluso con sentenza di questa Corte n. 28575 del 29 novembre 2017, che ha rigettato il ricorso per cassazione presentato dall’Agenzia delle Entrate, non senza rilevare che già la Commissione tributaria provinciale aveva accolto il ricorso proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE, co sì annullando l’avviso di accertamento impugnato. Ed invero, con specifico riferimento a tale ultimo controcredito va rilevata l’insussistenza ab initio dello stesso (cfr. Cass., Sez. U., 13 gennaio 2017, n. 758, citata, secondo cui « L’iscrizione nei ruoli straordinari dell’intero importo delle imposte, degli interessi e delle sanzioni, risultante dall’avviso di accertamento non definitivo, prevista, in caso di fondato pericolo per la riscossione, dagli artt. 11 e 15 bis del d.P.R. n. 602 del 1973, costituisce misura cautelare posta a garanzia del credito erariale, la cui legittimità dipende pur sempre da quella dell’atto impositivo presupposto, che ne è il titolo fondante, sicché, qualora intervenga una sentenza del giudice tributario, anche non passata in giudicato, che annulla in tutto o in parte tale atto, l’ente impositore, così come il giudice dinanzi al quale sia stata impugnata la relativa cartella di pagamento, ha l’obblig o di agire in conformità della statuizione giudiziale, sia ove l’iscrizione non sia stata ancora effettuata, sia, se già effettuata, adottando i conseguenziali provvedimenti di sgravio, o eventualmente di rimborso dell’eccedenza versata » e, più di recente, Cass., 21 ottobre 2020, n.
22938), con la conseguenza che la stabilità degli effetti del fermo, poi caducato dall’accertamento dell’insussistenza del credito da esso cautelato, comporta inevitabilmente l’esclusione che il corso degli interessi possa essere sospeso nel periodo di vigenza della misura, così trovando piena applicazione il principio di diritto unionale in base al quale il regime di calcolo degli interessi dovuti dall’erario deve assumere come dies a quo il giorno in cui l’eccedenza dell’Iva avrebbe dovuto essere normalmente rimborsata.
8.2 La sentenza impugnata deve essere, dunque, cassata e il giudizio rinviato ai giudici di merito per accertare la debenza degli interessi moratori tenendo conto dei principi dinanzi affermati e, in particolare, di quanto stabilito al punto 8.1 , nonché della circostanza (che si evince da pag. 3 del ricorso, che richiama gli allegati nn. 8, 9 e 10, e da pag. 2 del controricorso) che il provvedimento di sospensione del rimborso è stato notificato in data 10 maggio 2007, che l’Ufficio aveva richiesto la documentazione giustificativa del credito con missiva dell ‘1 ottobre 2015 e che i documenti sono stati consegnati in data 1 dicembre 2016, posto che il soggetto passivo che non collabori con l’amministrazione fiscale nel fornire la prova del credito e ostacoli in tal modo lo svolgimento della procedura di verifica, causando il ritardo del rimborso dell’eccedenza di iva, non può chiedere il versamento di interessi dovuti al suddetto ritardo (Corte giust., causa C-254/16, RAGIONE_SOCIALE, punto 26). Quanto, invece, al periodo trascorso dalla richiesta dell’atto di fusione fino al conseguente invio, va applicato il principio di diritto fissato da Cass., 4 giugno 2025, n. 15026, che, facendo leva sul rapporto d’integrazione e compenetrazione tra le società coinvolte nell’operazione di fusione affermato da Cass., Sez. U., 30 luglio 2021, n. 21970, ha concluso che l’esposizione di un credito Iva della società incorporata nella dichiarazione annuale di questa, anziché in quella della società incorporante, costituisce una violazione,
ma di carattere meramente formale, e che la natura meramente formale di una tale violazione non esclude il diritto al rimborso.
Per le ragioni di cui sopra, va accolto il primo motivo di ricorso, con assorbimento dei restanti due motivi; la sentenza impugnata va cassata, in relazione al motivo accolto, e la causa va rinviata alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo, con assorbimento dei restanti due motivi; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia la causa alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, in data 26 febbraio 2025.