Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 3093 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 3093 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 07/02/2025
ha emesso la seguente ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 21973/2023 proposto da:
Regione Campania, in persona del Presidente pro tempore , rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale in calce al ricorso per cassazione dall’A vv. NOME COGNOME dell’Avvocatura Regionale, unitamente al quale elegge domicilio in Roma, INDIRIZZO
PEC: EMAILregioneEMAILit
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE nella persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME giusta procura speciale apposta in atto separato allegata al controricorso.
PEC: EMAIL
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di Giustizia Tributaria della CAMPANIA, n. 2168/2023, depositata in data 3 aprile 2023, non notificata; udita la relazione della causa udita svolta nella pubblica udienza del 14 gennaio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso; udito per la parte ricorrente l’Avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso per cassazione; udito per la parte controricorrente l’Avv. NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso per cassazione;
FATTI DI CAUSA
La Corte di Giustizia tributaria di secondo grado ha accolto l’appello proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE avverso la sentenza di primo grado che aveva rigettato il ricorso avente ad oggetto il diniego di rimborso dell’imposta regionale sulla benzina per autotrazione corrisposta nell’anno 2018 .
I giudici di secondo grado, dopo una breve ricostruzione normativa e cronologica dell’imposta regionale sulla benzina per autotrazione e dopo l’espressa adesione alla sentenza di legittimità n. 6687 del 6 marzo 2023 (che aveva affermato che la disposizione dell’art. 1, comma 628, della legge n. 178 del 2020 doveva essere disapplicata perché in contrasto con la direttiva n. 2008/118 che aveva abrogato e sostituito quella n. 12/1992, come interpretata dalla ordinanza della Corte di Giustizia UE del 9 novembre 2021), hanno ritenuto che la
società ricorrente , soggetto passivo dell’imposta, aveva fin dal ricorso introduttivo del giudizio indicato tutti gli elementi costitutivi della sua pretesa (il versamento degli importi per cui era causa e il diretto pregiudizio subito da tale versamento in quanto il relativo onere non era stato riversato sul consumatore finale), mentre la Regione non aveva mai fornito la prova, neppure in via indiziaria o presuntiva, della «traslazione» del tributo sul consumatore finale e dell’ingiustificato arricchiment o che, dall’accoglimento del ricorso deriv ava al gestore, piuttosto muovendo dall’errato p resupposto che l’onere probatorio della mancata traslazione sui consumatori del tributo incombeva sulla società ricorrente. I giudici di secondo grado, infine, hanno affermato che non sussisteva la legittimazione passiva dell’Agenzia delle Dogane, perché estranea a ogni questione circa il rimborso in parola.
La Regione Campania ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a tre motivi.
La società RAGIONE_SOCIALE resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
In via preliminare va rigettata l’istanza di rinvio depositata dalla Regione Campania, con modalità telematiche, in data 20-23 dicembre 2024, in attesa della decisione sul rinvio pregiudiziale richiesto con ordinanza depositata in data 25 luglio 2024 ex art. 363bis c.p.c., sull’applicabilità nei giudizi di rimborso dell’IRBA dell’art. 29, comma 2, della legge n. 428 del 1990 nei casi di traslazione dell’imposta , in quanto anche la questione pregiudiziale sopra richiamata è stata fissata all’udienza pubblica del 14 gennaio 2025.
In via gradatamente preliminare va rigettata l’ eccezione di inammissibilità del ricorso per violazione degli artt. 83 e 365 cod. proc. civ., in quanto la procura alle liti allegata dalla Regione Campania nel messaggio PEC di notifica del ricorso non conteneva l’indicazione del luogo e della data di rilascio della procura alle liti stessa, indicando solo
nell’attestazione di conformità un riferimento spaziale (Napoli), che si riferiva esclusivamente al luogo di redazione dell’attestazione di conformità, e non a quello di sottoscrizione della procura.
E’ sufficiente al riguardo richiamare la sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte che, superando l’orientamento della sentenza della Corte 4 aprile 2023, n. 9271, indicata espressamente nel controricorso, e decidendo sulla questione se la procura speciale per proporre il ricorso per cassazione potesse essere rilasciata anche in data anteriore alla redazione del ricorso e in luogo diverso da quello indicato nell’atto stesso, ha statuito in principio di diritto secondo cui « In tema di ricorso per cassazione, il requisito della specialità della procura, di cui agli artt. 365 e 83, comma 3, c.p.c., non richiede la contestualità del relativo conferimento rispetto alla redazione dell’atto a cui accede, essendo a tal fine necessario soltanto che essa sia congiunta, materialmente o mediante strumenti informatici, al ricorso e che il conferimento non sia antecedente alla pubblicazione del provvedimento da impugnare e non sia successivo alla notificazione del ricorso stesso » (Cass., Sez. U., 19 gennaio 2024, n. 2075). Ciò assicurando al diritto di difesa una «centralità» fondamentale, volta a far sì che possa trovare reale attuazione lo scopo ultimo al quale il processo è di per sé orientato, ossia l’effettività della tutela giurisdizionale, nella sua essenziale tensione verso una decisione di merito e a declinazione anche del principio che impone di evitare eccessi di formalismo e, quindi, restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale che non siano frutto di criteri ragionevoli e proporzionali ( Cass., Sez. U., 19 gennaio 2024, n. 2075, in motivazione) .
Sempre in via preliminare va rigettata l’ulteriore eccezione di inammissibilità del ricorso per violazione degli artt. 83 e 365 cod. proc. civ., in quanto la procura alle liti non recava nemmeno l’indicazione delle generalità del soggetto che l’aveva sottoscritta, nella qualità di legale rappresentante.
Ed invero, in tema di rappresentanza processuale, la persona fisica che riveste la qualità di organo della persona giuridica non ha l’onere di dimostrare tale veste, spettando invece alla parte che ne contesta la sussistenza l’onere di formulare tempestiva eccezione e fornire la relativa prova negativa; principio applicabile anche nel caso in cui la persona giuridica si sia costituita in giudizio per mezzo di persona diversa dal legale rappresentante, se tale potestà deriva dall’atto costitutivo o dallo statuto (Cass., 7 novembre 2011, n. 23033; Cass., 13 settembre 2007, n. 19162; Cass. 13 giugno 2006, n. 13669). A ciò deve aggiungersi che il Presidente di un ente pubblico territoriale, quale è la Regione, assume la rappresentanza, anche processuale, della Regione medesima in forza di specifica disposizione statutaria; pertanto, qualora a seguito di proposizione di ricorso per cassazione, la controparte si limiti a rilevare che non risulta la fonte del potere esercitato dal Presidente della Regione conferente la procura speciale ad litem , deducendo al riguardo una carenza di prova, deve escludersi che l’ammissibilità dell’impugnazione esiga la specificazione od allegazione della fonte del relativo potere, spettando alla controparte medesima, che sostenga l’apposizione di limiti al potere stesso nell’atto di delega, di fornire la relativa dimostrazione (Cass. 18 maggio 2006, n. 11661, in motivazione). E ‘ appena il caso di precisare che la giurisprudenza di legittimità richiamata nel controricorso (Cass. 22 settembre 2021, n. 25794 e Cass., 15 maggio 2002 n. 7062) attiene a fattispecie diversa da quella in esame essendo relativa ad un ricorso per cassazione proposto da persona giuridica (società per azioni) in cui la procura conteneva l’indicazione delle generalità della persona fisica che assumeva di esserne il rappresentante e non anche la qualifica del potere attributivo della rappresentanza legale dell’ente.
Il primo motivo deduce la violazione del principio della rilevabilità d’ufficio della decadenza, in quanto la Regione aveva fin dal ricorso introduttivo del giudizio di primo grado rilevato l’ina mmissibilità
dell’istanza di rimborso per decadenza dal diritto al rimborso per l’ann o 2018 e la presentazione tardiva dell’istanza di rimborso ex art. 14, terzo comma, del decreto legislativo n. 504 del 1995. Ed infatti la società RAGIONE_SOCIALE aveva presentato l’istanza di rimborso il 10 giugno 2021, ossia oltre il termine di decadenza di 2 anni dalla presentazione della dichiarazione (il cui termine scadeva il 31 gennaio 2019) previsto dall’art. 14, terzo comma, del decreto legislativo n. 504 del 1995. Questa circostanza impeditiva della richiesta di rimborso, pur essendo stata eccepita, era stata del tutto pretermessa sia dai giudici di primo grado, che da quelli di secondo grado.
5 . Il secondo motivo deduce la violazione e falsa applicazione di legge, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c .p.c., con riferimento agli artt. 7 e 18, primo comma, lett. e), del decreto legislativo n. 546 del 1992, nonché agli artt. 2697 c.c. e 112 c.p.c.. La sentenza impugnata era errata perché il giudice di secondo grado aveva violato il principio in base al quale il contribuente che presentava un’istanza di rimborso all’ente impositore era onerato della dimostrazione di essere stato economicamente inciso da un prelievo che si assume non dovuto. La decisione impugnata era pure illegittima, oltre che illogica ed apodittica, nella parte in cui aveva affermato che la sola affermazione di aver effettuato il versamento dell’imposta legittima va la richiesta di rimborso, in quanto costituiva presupposto logico e di fatto del rimborso la dimostrazione che la decurtazione economica era rimasta a carico del soggetto che chiedeva il rimborso e che la relativa prova doveva essere fornita dal contribuente. Le motivazioni della sentenza erano illegittime e contraddittorie e rese in violazione delle norme che regolavano il regime delle prove nel processo tributario e dei principi pacificamente affermati dalla Suprema Corte. La sentenza era altresì errata perché aveva deciso facendo applicazione di precedenti giurisprudenziali che si erano espressi su fattispecie del tutto diverse da quella oggetto del presente giudizio non riconducibili alla vicenda
per cui era causa. La Cassazione aveva stabilito che, poiché la traslazione economica dell’accisa sull’acquirente del gas venduto era lasciata alla discrezionalità dell’operatore economico, la mancata traslazione che legittimava il rimborso non era fatto costitutivo del diritto al rimborso che doveva essere provato dall’attore sostanziale (ovvero il contribuente), ma era fatto impeditivo del rimborso che doveva essere provato dall’ente impositore, il quale però poteva avvalersi di presunzioni anche semplici, mentre, al contrario, nel caso in esame , il ricorrente gestore di un’attività di distribuzione di carburante era semplicemente tenuto ad applicare una aliquota di euro 0,02582 su ogni litro di carburante erogato e successivamente a versarla all’ente impositore non avendo questa operazione alcuna incidenza sulla determinazione del costo del venduto ai fini del proprio reddito, né tantomeno sulla determinazione della base imponibile dell’IVA. Poiché l’applicazione dell’IRBA su ogni litro di carburante venduto non era lasciata alla discrezionalità dell’operatore economico ma rientrava in un obbligo di legge, la mancata traslazione era fatto costitutivo del diritto al rimborso, che doveva essere provato dall’attore sostanziale, con conseguente applicazione della regola generale della distribuzione dell’onere della prova nei giudizi di rimborso secondo la quale il contribuente che chiede il rimborso di un tributo era onerato della dimostrazione in giudizio di tutti gli elementi di fatto e di diritto che fondavano la sua domanda. Risultava anche fuorviante l’affermazione in base alla quale, non essendo previsto dalla legge un obbligo di rivalsa del fornitore sul consumatore finale, si presumeva che l’imposta fosse rimasta a suo carico perché in realtà l’IRBA per il fornitore era neutra in quanto il gestore doveva solo riscuoterla sul quantitativo venduto e riversarla alla regione.
Il terzo motivo deduce , in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 18, primo comma, lett. e) , del decreto legislativo n. 546 del 1992, dell’ art. 17 del decreto
legislativo n. 398 del 1990 . L’art. 3 della legge regionale n. 28 del 2003, istitutiva dell’I RBA nella Regione Campania, non poteva ritenersi in contrasto con l’art. 1, paragrafo 2, della Direttiva 2008/118/CE del 16 dicembre 2008, perché in realtà aveva una previsione di destinazione specifica del gettito e non aveva un mero scopo. In particolare, l ‘art. 1 della citata legge regionale, nel prevedere che le entrate derivanti anche dall’IRBA fossero destinate al finanziamento di un fondo prioritariamente utilizzato per il rafforzamento patrimoniale delle Aziende sanitarie locali o p er l’incremento del capitale della società di cui all’art . 6, comma 1, in relazione a specifici programmi, risultava contraddistinto da una finalità specifica e non puramente di bilancio, attese le funzioni attribuite, in particolare, alle Aziende sanitarie locali riguardo alle attività di prevenzione delle problematiche sanitarie della popolazione regionale, anche lega te alla tutela dell’ambiente che incideva sulla salute delle persone. Peraltro, la stessa Corte di Giustizia, nella decisione del 9 novembre 2021 (causa C-255/20) non aveva chiarito se tale finalità dovesse essere palese o meno nella legislazione nazionale ed aveva affermato che la finalità di bilancio poteva coesistere con la finalità specifica e in ciò non aveva detto nulla di specifico, ciò che rendeva la norma della Regione Campania in esame senza dubbio compatibile con la direttiva UE, in quanto non poteva negarsi che la struttura dell’imposta in questione non era svincolata da una indubbia finalità di scoraggiare il comportamento dei contribuenti volto al consumo di determinati prodotti, tanto in un’ottica di riorientamento delle stesse scelte dei consumatori in direzione di finalità di tutela della salute dei cittadini tramite la tutela ambientale, come del resto voluto dalla direttiva UE n.118/2008.
Deve premettersi che i giudici di secondo grado, a pag. 7 della sentenza impugnata, hanno espressamente statuito che « Non sussiste, invece, la legittimazione passiva dell’Agenzia delle dogane, estranea a ogni questione circa il rimborso in parola »; si tratta di una statuizione
che non è stata espressamente impugnata con il ricorso per cassazione, con la conseguente formazione del giudicato sul difetto di legittimazione passiva dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli .
In proposito, questa Corte ha affermato il principio secondo cui « il giudicato interno preclude la rilevabilità d’ufficio delle relative questioni solo se espresso, cioè formatosi su rapporti tra “questioni di merito” dedotte in giudizio e, dunque, tra le plurime domande od eccezioni di merito, e non quando implicito, cioè formatosi sui rapporti tra “questioni di merito” e “questioni pregiudiziali” o “preliminari di rito o merito” sulle quali il giudice non abbia pronunziato esplicitamente, sussistendo tra esse una mera presupposizione logico-giuridica » (Cass., 31 ottobre 2017, n. 25906). Si tratta, peraltro, di un principio che è stato applicato, proprio in tema di legittimazione ad agire, dalle Sezioni unite di questa Corte, che richiamando alcuni precedenti della Corte (Cass., 13 settembre 2013, n. 20978 e Cass., 11 settembre 2011, n. 23568, a riprova di un univoco orientamento nomofilattico) hanno affermato che « La decisione della causa nel merito non comporta la formazione del giudicato implicito sulla legittimazione ad agire ove tale “quaestio iuris”, pur avendo costituito la premessa logica della statuizione di merito, non sia stata sollevata dalle parti, posto che una questione può ritenersi decisa dal giudice di merito soltanto ove abbia formato oggetto di discussione in contraddittorio » (cfr. Cass., Sez. U., 20 marzo 2019, n. 7925 e, più di recente, Cass., 13 maggio 2024, n. 12936; Cass., 1 luglio 2024, n. 17989; Cass., 1 luglio 2024, n. 18001).
Il primo motivo è inammissibile.
8.1 Ed invero, il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, comma primo, c.p.c., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria
adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (Cass., 7 maggio 2018, n. 10862).
Inoltre, in tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare, con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni, la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass., 28 ottobre 2020, n. 23745).
Nel giudizio di legittimità, poi, la deduzione del vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., postula, per un verso, che il giudice di merito sia stato investito di una domanda o eccezione autonomamente apprezzabili e ritualmente e inequivocabilmente formulate e, per altro verso, che tali istanze siano puntualmente riportate nel ricorso per cassazione nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto del relativo contenuto, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire la verifica, innanzitutto, della ritualità e della tempestività e, in secondo luogo, della decisività delle questioni prospettatevi. Pertanto, non essendo detto vizio rilevabile d’ufficio, la Corte di cassazione, quale giudice del «fatto processuale», intanto può esaminare direttamente gli atti processuali in quanto, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso, il ricorrente abbia, a pena di inammissibilità, ottemperato all’onere di indicarli compiutamente, non
essendo essa legittimata a procedere ad un’autonoma ricerca, ma solo alla verifica degli stessi (Cass., 14 ottobre 2021, n. 28072).
Peraltro l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello, e, in genere, su una domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio, integra una violazione dell’art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, dello stesso codice, che consente alla parte di chiedere – e al giudice di legittimità di effettuare – l’esame degli atti del giudizio di merito, nonché, specificamente, dell’atto di appello, mentre è inammissibile ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod. proc. civ. (Cass., 27 ottobre 2014, n. 22759).
In ultimo, non è superfluo rilevare, che, da un lato, nel giudizio di cassazione, che ha per oggetto solo la revisione della sentenza in rapporto alla regolarità formale del processo ed alle questioni di diritto proposte, non sono prospettabili nuove questioni di diritto o temi di contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili di ufficio o, nell’ambito delle questioni trattate, di nuovi profili di diritto compresi nel dibattito e fondati sugli stessi elementi di fatto dedotti (Cass., 16 ottobre 2018, n. 25863, in motivazione; Cass., 26 marzo 2012, n. 4787) e dall’altro, la regola della rilevabilità d’ufficio delle questioni, in ogni stato e grado del processo, va coordinata con i principi che governano il sistema delle impugnazioni, nel senso che essa opera solo quando sulle suddette questioni non vi sia stata una statuizione anteriore, mentre, ove questa vi sia stata, i giudici delle fasi successive possono conoscere delle questioni stesse solo se e in quanto esse siano state riproposte con l’impugnazione, posto che altrimenti si forma il giudicato interno che ne preclude ogni ulteriore esame (Cass., 10 ottobre 2019, n. 25493, in motivazione; Cass., 22 settembre 2017, n. 22207; Cass., 18 marzo 2014, n. 6246).
Più specificamente, nel giudizio di cassazione non si possono prospettare nuove questioni di diritto ovvero nuovi temi di contestazione che implichino indagini ed accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito, nemmeno se si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (Cass., 25 ottobre 2017, n. 25319; Cass., 13 agosto 2018, n. 20712).
8.2 Nel caso in esame, la Regione ricorrente non ha assolto l’onere che pure le spettava, onere ancor più necessario alla luce di quanto affermato dalla controparte nel controricorso (pagg. 12 e 13) circa il fatto che detta eccezione era stata sollevata dalla Regione in primo grado, ma non era stata riproposta espressamente in sede di controdeduzioni dall’Ente territoriale (parte totalmente vittoriosa), in ossequio all’orientamento di questa Corte secondo cui « La parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado non ha l’onere di proporre, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, appello incidentale specifico per richiamare in discussione le eccezioni e le questioni che risultino superate o assorbite, difettando di interesse al riguardo, ma è soltanto tenuta a riproporle espressamente nel nuovo giudizio in modo chiaro e preciso, tale da manifestare in forma non equivoca la sua volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo, ai sensi dell’art. 346 cod. proc. civ. » (Cass., 28 novembre 2016, n. 24124; Cass., 11 giugno 2010, n. 14086; Cass., 3 luglio 2003, n. 10495) e secondo cui « In mancanza di una norma specifica sulla forma con la quale l’appellante che voglia evitare la presunzione di rinuncia ex art. 346 cod. proc. civ. deve reiterare le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, queste possono essere riproposte in qualsiasi forma idonea a evidenziare la volontà di riaprire la discussione e sollecitare la decisione su di esse » (Cass., 26 aprile 2023, n. 10993, richiamata anche dalla società controricorrente; Cass., 23 settembre 2021, n. 25840; Cass., 15 ottobre 2020, n. 22311).
8.3 Come è evidente, la censura, così come formulata dalla Regione ricorrente, che da un lato deduce la violazione del «principio della rilevabilità d’ufficio della decadenza» e dall’altra espone che la decadenza della richiesta di rimborso, pur essendo stata eccepita, era stata del tutto pretermessa sia dai giudici di primo grado, che da quelli di secondo grado, priva peraltro dell’indicazione puntuale degli atti processuali e dei documenti sui quali la censura si fonda, nonché delle circostanze di fatto ad essa correlate, demanda sostanzialmente alla Corte il compito di individuare lo specifico vizio denunciato, compito che, all’evidenza, trascende le funzioni alla stessa assegnate e che implica conseguenze diverse in ragione delle modalità di formulazione dello specifico vizio denunciato.
Il secondo motivo è infondato.
9.1 Deve premettersi che sia la disciplina statale, che quella regionale hanno registrato un’evoluzione sul piano soggettivo, nel senso che, ferma restando l’incidenza economica del tributo sul consumatore finale, il soggetto passivo del rapporto tributario va individuato, non più nel «soggetto erogatore» del carburante (e dunque, in ipotesi, nel gestore che non sia anche concessionario dell’impianto di distribuzione), bensì nel «concessionario» dell’impianto stesso (ovvero per sua delega, nella società petrolifera unica fornitrice).
In particolare, l’art. 18 del decreto legislativo n. 298 del 1990 stabiliva che l’imposta così eventualmente istituita fosse « dovuta dal soggetto consumatore della benzina » e « riscossa dal soggetto erogatore che deve versarlo alla Regione sulla base dei quantitativi erogati risultanti dal registro di carico e scarico di cui all’art. 3 del decreto-legge 5 maggio 1957, n. 271, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 luglio 1957, n. 474 ».
Quest’ultima previsione è stata espressamente abrogata, a decorrere dal 1° gennaio 1996, dall’art. 3, comma 14, della legge n. 549 del 1995, a seguito dell’introduzione della diversa disciplina di cui al
comma 13, che prevede: « L’imposta regionale sulla benzina per autotrazione, di cui all’articolo 17 del decreto legislativo 21 dicembre 1990, n. 398, è versata direttamente alla Regione dal concessionario dell’impianto di distribuzione di carburante o, per sua delega, dalla società petrolifera che sia unica fornitrice del suddetto impianto, sulla base dei quantitativi erogati in ciascuna Regione dagli impianti di distribuzione di carburante che risultano dal registro di carico e scarico di cui all’articolo 3 del decreto-legge 5 maggio 1957, n. 271, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 luglio 1957, n. 474, e successive modificazioni (…) ».
A questo assetto normativo si è allineata la disciplina regionale Campania, dapprima con l’art. 3 della legge regionale n. 28 del 2003, che ha stabilito che « L’imposta è dovuta alla Regione dal concessionario dell’impianto di distribuzione di carburante sulla base dei quantitativi erogati in ogni mese » e, dopo, con l’art. 2, comma 2, della legge regionale Campania n. 8 del 2004, che ha modificato l’art. 3 della legge regionale n. 28 del 2003, aggiungendo alla parola «concessionario» le seguenti «e dal titolare», per poi addivenire alla formulazione del medesimo art. 3, così come risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 3, della legge regionale n. 15 del 2005: « L’imposta è dovuta alla Regione dal concessionario e dal titolare dell’autorizzazione dell’impianto di distribuzione del carburante o, per loro delega, dalla società petrolifera che sia unica fornitrice dell’impianto, su base mensile e sui quantitativi di cui al decreto del Ministero delle finanze 30 luglio 1996, articolo 1, comma 1, lettera d)» Questa Corte, dunque, ha affermato che, all’esito di tale sviluppo normativo, resta ferma l’individuazione del soggetto debitore nel concessionario prefettizio ovvero – qualora sia applicabile il regime di autorizzazione sindacale medio tempore introdotto dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 32 del 1998 – nel titolare dell’autorizzazione
all’impianto (Cass., 1 giugno 2023, n. 15522; Cass., 19 aprile 2017, n. 9874).
9.2 Il conseguente corollario è che l’IRBA, tributo regionale proprio derivato, è una imposta di consumo, in quanto, colpisce la vendita della benzina per autotrazione in base alla quantità, e non al valore, e diviene esigibile nel momento e nel luogo in cui avviene l’immissione al consumo del prodotto energetico.
Anche la Corte Costituzionale, di recente, ha affermato che « L’IRBA è stata prevista dall’art. 17 del d.lgs. n. 398 del 1990, in attuazione della legge delega n. 158 del 1990, la quale, all’art. 6, comma 1, lettera c), al dichiarato fine di ‘attribuire alle regioni a statuto ordinario una più ampia autonomia impositiva in adempimento del precetto di cui al secondo comma dell’art. 119 della Costituzione’, aveva consentito a dette regioni di introdurre, con proprie leggi, un’imposta sulla benzina per autotrazione erogata dagli impianti di distribuzione ubicati nei rispettivi territori» e che « L’IRBA si configura come un tributo regionale proprio derivato, avente struttura analoga a quella dell’accisa, in quanto, al pari di questa, colpisce la vendita della benzina per autotrazione in base alla quantità, e non al valore, e diviene esigibile nel momento e nel luogo in cui avviene l’immissione al consumo del prodotto energetico » (Corte Costituzionale, 4 giugno 2024, n. 100).
9.3 Ciò posto, l’imposta è dovuta al momento della fornitura della benzina al consumatore finale e il concessionario, il titolare dell’autorizzazione dell’impianto di distribuzione del carburante o, per loro delega, la società petrolifera che sia unica fornitrice dell’impianto, in caso di pagamento indebito, sono gli unici soggetti legittimati a presentare istanza di rimborso all’Amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 29, comma 2, della legge n. 428 del 1990, che recita: « I diritti doganali all’importazione, le imposte di fabbricazione, le imposte di consumo, il sovrapprezzo dello zucchero e i diritti erariali riscossi in applicazione di disposizioni nazionali incompatibili con norme
comunitarie sono rimborsati a meno che il relativo onere non sia stato trasferito su altri soggetti, circostanza che non può essere assunta dagli uffici tributari a mezzo di presunzioni ».
Va precisato che l’ultimo inciso (« circostanza che non può essere assunta dagli uffici tributari a mezzo di presunzioni ») è stato introdotto, con decorrenza dal 4 marzo 2007, dall’art. 21 della legge n. 13 del 2007, sicché alla presente controversia, che riguarda il rimborso dell’imposta regionale sulla benzina per autotrazione corrisposta nell’anno 2018, si applicano l’ul tima versione della disposizione menzionata, anche se, come precisato da questa Corte, la portata innovativa della disposizione è del tutto trascurabile, dovendosi interpretare tale inciso in n conformità alla giurisprudenza della Corte di giustizia, che ha suggerito al legislatore nazionale la modifica, come emerge dai lavori preparatori (relazione della XIV commissione permanente per le politiche comunitarie), dove si legge che « La modifica in esame, che si rende necessaria a seguito della sentenza della Corte di giustizia del 9 dicembre 2003 e della successiva procedura di infrazione a carico dell’Italia, uniforma le modalità di rimborso, consentendolo nei casi in cui il tributo non è stato traslato su altri soggetti; prevede, inoltre, come richiesto dalla Corte di giustizia, che la prova di tale traslazione non possa essere assunta dagli uffici tributari a mezzo di presunzioni » (cfr. Cass., 17 dicembre 2024, n. 32982).
9.4 Al riguardo, la Corte di giustizia ha ripetutamente sottolineato che, in mancanza di disciplina dell’Unione in materia di domande di rimborso delle imposte, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire i requisiti al ricorrere dei quali tali domande possono essere presentate, purché i requisiti in questione rispettino i principi di equivalenza e di effettività, vale a dire, non siano meno favorevoli di quelli che riguardano reclami analoghi basati su norme di natura interna e non siano congegnati in modo da rendere
praticamente impossibile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (Corte di Giustizia UE, 27 aprile 2017, causa C564/15; Corte di Giustizia UE, 15 marzo 2007, causa C-35/05).
È, dunque, compito degli Stati membri prevedere gli strumenti e le modalità procedurali necessari per consentire a detto acquirente di recuperare l’imposta indebitamente fatturata, in modo da rispettare il principio di effettività. Sicché soltanto se il rimborso risulti impossibile o eccessivamente difficile, il principio di effettività può imporre che l’acquirente del bene in questione sia legittimato ad agire per il rimborso direttamente nei confronti delle autorità tributarie (come nel caso di fallimento del venditore, Corte di Giustizia UE, 27 aprile 2017, causa C-564/15; Corte di Giustizia UE, 31 maggio 2018, cause C-660 e C- 661/16).
Il fruitore dei beni o dei servizi può, dunque, ottenere il rimborso dell’imposta illegittimamente versata esperendo nei confronti del cedente o del prestatore un’azione di ripetizione d’indebito di rilevanza civilistica (cfr., in tema di IVA, Corte di Giustizia UE, 15 dicembre 2011, causa C-427/10, e, in tema di accise, Corte di Giustizia UE, 20 ottobre 2011, causa C-94/10) ed eccezionalmente una azione diretta nei confronti dell’Erario, ove venga dedotta in relazione all’azione nei confronti del fornitore la violazione del principio di effettività.
Più in particolare, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia:
-) se esiste una disposizione che prevede una presunzione di traslazione su altri soggetti dei diritti e dei tributi indebitamente riscossi e se la prova contraria di tale presunzione per ottenere il rimborso del tributo è a carico del ricorrente, la disposizione in questione deve considerarsi contraria al diritto comunitario (CGUE 9 febbraio 1999, in causa C-343/96, Dilexport);
-) un’interpretazione dell’art. 29, comma 2, della legge n. 428 del 1990 che consenta l’utilizzo di presunzioni quale quella per la quale le
imposte indirette siano in via di principio trasferite a valle della catena delle vendite da parte degli operatori economici è contraria al diritto unionale (CGUE 9 dicembre 2003, in causa C-129/00, Commissione v. Repubblica italiana).
-) la Corte di giustizia richiede, pertanto, che la prova della traslazione dell’imposta sia a carico dell’Amministrazione doganale e che, al fine di fornire la superiore prova, l’Agenzia delle Dogane non possa fare ricorso ad una prova presuntiva generica, fondata sull’id quod plerumque accidit (ad es., l’imposta viene traslata perché così sono solite fare le imprese), ma debba indicare gli elementi concreti dai quali evincersi, anche in via indiziaria, l’effettiva traslazione dell’imposta.
9.5 Questa Corte, sia pure con riferimento alle imposte addizionali sul consumo di energia elettrica di cui all’art. 6, comma 3, del decreto legge n. 511 del 1988, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 20 del 1989, ha affermato, che le imposte addizionali sul consumo di energia elettrica, alla medesima stregua delle accise, « sono dovute, al momento della fornitura dell’energia elettrica al consumatore finale, dal fornitore, il quale, pertanto, in caso di pagamento indebito, è l’unico soggetto legittimato a presentare istanza di rimborso all’Amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 504 del 1995 e dell’art. 29, co. 2, della l. n. 428 del 1990 (Sez. 5, Sentenza n. 27099 del 23/10/2019), mentre il consumatore finale, al quale il fornitore abbia addebitato le suddette imposte, può esercitare nei confronti di quest’ultimo l’ordinaria azione di ripetizione dell’indebito e, soltanto nel caso in cui dimostri l’impossibilità o l’eccessiva difficoltà di tale azione – da riferire alla situazione in cui si trova il fornitore e non al fatto che il pagamento indebito dell’imposta derivi dalla contrarietà alla direttiva n. 2008/118/CE della norma interna in tema di accise -, può in via di eccezione chiedere direttamente il rimborso all’Amministrazione finanziaria, nel rispetto del principio unionale di
effettività della tutela (Sez. 5, Sentenza n. 14200 del 24/05/2019; conf., fra le tante, Sez. 5, Ordinanza n. 29980 del 19/11/2019 e Sez. 5, Sentenza n. 27099 del 23/10/2019). In tal guisa ragionando, il consumatore, in coerenza con i principi unionali, non viene privato del proprio diritto al rimborso delle somme indebitamente pagate e non si realizza un’ipotesi di indebito arricchimento dell’amministrazione » (Cass., 30 gennaio 2024, n. 2733, in motivazione).
Ancora, con riferimento al gas metano, è stato, affermato che « il rapporto tributario inerente al pagamento dell’imposta si svolge solo tra la Amministrazione finanziaria ed i soggetti che forniscono direttamente il gas metano ai consumatori e ad esso è del tutto estraneo l’utente consumatore » (Cass., Sez. U., 25 maggio 2009, n. 11987) e che « il solo soggetto obbligato verso l’amministrazione finanziaria è l’ente comunale che immette in consumo il gas e riscuote l’accisa inglobata nel prezzo (è una peculiarità che non incide sulla natura del tributo che resta distinto dal prezzo del gas) (…) » (Cass., Sez. U., 19 marzo 2009, n. 6589).
In applicazione dei principi richiamati questa Corte, con specifico riferimento alla materia delle accise e delle addizionali, ha, quindi, concluso che: « 1) obbligato al pagamento delle accise nei confronti dell’Amministrazione doganale è unicamente il fornitore; 2) il fornitore può addebitare integralmente le accise pagate al consumatore finale; 3) i rapporti tra fornitore e Amministrazione doganale e fornitore e consumatore finale sono autonomi e non interferiscono tra loro; 4) in ragione della menzionata autonomia, il consumatore finale, anche in caso di addebito del tributo da parte del fornitore, non ha diritto a chiedere direttamente all’Amministrazione finanziaria il rimborso delle accise indebitamente corrisposte; 5) il diritto al rimborso spetta unicamente al fornitore, che può esercitarlo nei confronti dell’Amministrazione finanziaria: a) nel caso in cui non abbia addebitato l’imposta al consumatore finale, entro due anni dalla data
del pagamento; b) nel caso in cui il consumatore finale abbia esercitato vittoriosamente nei suoi confronti azione di ripetizione di indebito, entro novanta giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza; 6) nel caso di addebito delle accise al consumatore finale e delle addizionali, quest’ultimo può esercitare l’azione civilistica di ripetizione di indebito direttamente nei confronti del fornitore, salvo chiedere eccezionalmente il rimborso anche nei confronti dell’Amministrazione finanziaria allorquando alleghi che l’azione esperibile nei confronti del fornitore si riveli oltremodo gravosa (come accade, ad esempio, nell’ipotesi di fallimento del fornitore) (da ultimo, Cass. sez.6-5, n. 35830 del 2022 tra le stesse parti) » (Cass., 30 gennaio 2024, n. 2733, in motivazione).
Sempre di recente, questa Corte ha precisato che « Secondo una non recente giurisprudenza di questa Corte, nell’ordinamento non sarebbe dato ravvisare una regola generale secondo cui la traslazione del carico di un tributo costituisca impedimento al rimborso dello stesso, sicché tale impedimento deve essere espressamente previsto dalle singole leggi d’imposta, come è nel caso dei diritti doganali all’importazione, ma non, invece, per l’IVA; ne conseguirebbe che ai fini dell’esercizio del diritto al rimborso da parte del soggetto passivo IVA non assume rilievo l’avvenuta rivalsa dell’imposta sul cessionario, disponendo quest’ultimo, in caso di pagamento di IVA non dovuta in rivalsa, di un’azione di ripetizione nei confronti del cedente (Cass., Sez. V, 10 gennaio 2001, n. 272; Cass., Cass., Sez. V, 16 marzo 2007, n. 6193) » (Cass., 9 agosto 2023, n. 24220, in motivazione).
La Corte di Cassazione, inoltre, nella sentenza richiamata, ha ricordato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, « la prova della traslazione dell’imposta dal contribuente al consumatore finale graverebbe sull’Ufficio quale fatto impeditivo del diritto al rimborso. Tuttavia, questa giurisprudenza si è formata in materia di rimborso di accise, dove la rivalsa sul consumatore non è obbligatoria, ma facoltativa (ex
multis Cass., Sez. V, 6 febbraio 2020, n. 2810; Cass., Sez. V, 24 luglio 2019, n. 19975). Le accise sono, difatti, imposte monofase, in cui il tributo è assolto solo dal produttore (Cass., Sez. V, 21 novembre 2008, n. 27627) e colpisce una sola fase del processo produttivo; per queste imposte, la traslazione dell’imposta entra nella componente del corrispettivo civilistico richiesto al consumatore e il suo effettivo esercizio costituisce fatto impeditivo per il diritto al rimborso » a differenza dell’applicazione della rivalsa nell’IVA, « che, in quanto imposta plurifase, colpisce tutte le fasi del processo produttivo ed è in linea di principio (eccettuati casi specifici, come l’art. 60 e l’art. 18, terzo comma, d.P.R. n. 633/1972) inderogabilmente obbligatoria (art. 18, primo comma, d.P.R. n. 633/1972), con nullità di ogni patto contrario (art. 18, quarto comma, d.P.R. n. 633/1972). La rivalsa nell’IVA è tendenzialmente estranea alla struttura giuridica del tributo, non concorre a determinare la capacità contributiva del contribuente e opera sul piano civilistico tra prestatore (emittente) e cessionario. L’eventuale mancato esercizio della rivalsa (comportamento anomalo per la struttura dell’imposta) non potrebbe, pertanto, costituire fatto impeditivo al sorger e dell’obbligazione tributaria. Anche nel caso in cui fosse mancato ab origine l’esercizio della rivalsa (in caso di pagamento della prestazione da parte del consumatore finale), ciò sarebbe indifferente per l’ordinamento, rimanendo l’emittente (prestatore ) collettore dell’IVA per conto dell’Erario ex art. 193 Dir. 2006/112/CE, salva la riduzione della base imponibile in caso di mancato pagamento (CGUE, 9 febbraio 2023, Euler Hermes, C-482/21, punto 32) » (Cass., 9 agosto 2023, n. 24220, sempre in motivazione).
E’ stato, dunque, ritenuto conforme al diritto dell’Unione il principio secondo cui, in caso di obbligatorio esercizio della rivalsa sul consumatore finale, il rimborso al prestatore dell’IVA indebitamente applicata si rivelerebbe ingiustificatamente sovracompensativa e comporterebbe esso stesso una violazione della neutralità dell’imposta,
alterando la posizione competitiva del contribuente e che tale orientamento non comporta, peraltro, che il prestatore debba ritenersi indefettibilmente inciso dal costo dell’imposta non dovuta, ben potendo, nel caso in cui abbia restituito l’imposta versatagli in rivalsa, chiedere il rimborso sul presupposto della restituzione della stessa (art. 21, comma 2, del decreto legislativo n. 546 del 1992, art. 30ter d.P.R. n. 633/1972) (Cass., 9 agosto 2023, n. 24220, in motivazione).
9.6 Circa l’esatta individuazione degli elementi sulla cui base il giudice interno può valutare la sussistenza dell’effettiva traslazione dell’onere economico in favore di terzi, questa Corte ha specificato che occorre conto della pronuncia della Corte di giustizia 9 dicembre 2003, n. 129 (causa c-129/00) e che « In particolare, la Corte di giustizia ha precisato quali siano i corretti ambiti di applicazione della disciplina nazionale interna di cui all’art. 29 della legge n. 408/1990, al fine di renderla coerente con i principi di equivalenza e di effettività propri dell’ordinamento comunitario. In questo contesto, rilevante è quanto dalla stessa precisato (par. 39 e 40), per quanto riguarda la questione della valenza probatoria della mancata contabilizzazione del tributo come credito all’attivo nel bilancio dell’impresa che ne chiede il rimborso. Sul punto, ha affermato che: riconoscere la suddetta valenza probatoria «porta ad istituire un’ingiustificata presunzione a danno del ricorrente. Tenuto conto delle condizioni alle quali interviene una domanda di rimborso del tributo, infatti, iscrivere l’importo di tale tributo tra le voci attive del bilancio a partire dall’anno del suo versamento presuppone che il soggetto passivo ritenga fin da subito di poter contestare, con buone probabilità di successo, il suo pagamento, mentre, ai sensi dello stesso art. 29, primo comma, della legge n. 428/1990, egli dispone di un termine di diversi anni per proporre tale domanda. Il soggetto passivo, inoltre, anche se contesta il pagamento del tributo, può benissimo ritenere che le sue probabilità di successo non siano tanto certe da fargli assumere il rischio di contabilizzare
l’importo corrispondente tra le voci attive del bilancio. A tale riguardo, tenuto conto delle difficoltà nell’ottenere una risposta favorevole ad una domanda di rimborso alle condizioni esposte in questa causa, tale iscrizione potrebbe anche rivelarsi in contrasto con i principi di una contabilità regolare. Per di più, la considerazione che la traslazione del tributo su terzi è dimostrata perché il suo importo non è stato riportato come credito nell’attivo di bilancio si fonda già sulla presunzione che le imposte indirette siano normalmente trasferite a valle della catena delle vendite, presunzione dichiarata in contrasto con il diritto comunitario nell’ambito dell’analisi del primo aspetto criticato dalla Commissione» (Cass., 26 ottobre 2022, n. 31679, in motivazione).
In sostanza, come è stato già detto, « la Corte di giustizia ha escluso che la verifica dell’effettuazione della traslazione dell’onere economico su terzi possa fondarsi unicamente sulla circostanza che la società non ha provveduto a iscrivere in bilancio, come credito, l’avvenuto pagamento dell’imposta, essendo, quindi, necessario che l’assolvimento dell’onere della prova in esame da parte dell’amministrazione doganale si fondi su altri e ulteriori elementi presuntivi, dotati di precisione, gravità e concordanza, come postulati dall’art. 2729 cod. civ. » (Cass., 24 luglio 2019, nn. 19975 e 19976, in motivazione).
Come questa Corte ha già precisato, tale impostazione, che nega in radice la circostanza che il riferimento ai bilanci possa costituire un sufficiente elemento presuntivo della traslazione dell’imposta e che tale iscrizione non è un indizio univoco dell’av venuta traslazione, potendo tale mancata appostazione avere anche significati differenti, è stata temperata, peraltro, da Cass., 6 febbraio 2020, n. 2810, che ammette l’utilizzo presuntivo del bilancio, sia pure a certe condizioni: invero, deve evincersi chiaramente dal documento contabile della società che dei relativi esborsi l’imprenditore abbia tenuto conto nella determinazione del prezzo finale praticato all’utente inciso (o
contribuente di fatto); se, quindi, le accise siano inserite nella specifica voce B6 del bilancio civilistico, è verosimile ipotizzare che della imposta si sia tenuto conto nella determinazione del prezzo, trattandosi di costi di produzione. Tale inserimento sarebbe, dunque, idoneo a giustificare l’avvenuta traslazione dell’imposta. Se, da un lato, è vero che l’inserimento delle imposte di consumo (nella specie accise) tra i costi non significa necessariamente che delle stesse si sia tenuto conto ai fini de lla determinazione del prezzo, dall’altro, negare la valenza indiziaria ad una collocazione a bilancio così specifica e significativa renderebbe la prova demandata all’Agenzia delle Dogane eccessivamente difficile e che, allora, può ragionevolmente affermarsi che l’appostazione da parte della contribuente delle imposte versate tra i costi messi a bilancio non è di solito elemento sufficiente a comprovare l’intervenuta traslazione dell’imposta; tuttavia, occorre verificare in concreto in quale voce del bilancio il costo sia stato collocato, perché se tale collocazione è avvenuta tra i costi di produzione, l’elemento indiziario diventa altamente significativo e tale da assurgere a prova ai sensi dell’art. 2729 c.c. (cfr. Cass., 17 dicembre 2024, n. 32982, in motivazione).
9.7 Ciò posto, sulla premessa che l’IRBA è dovuto dai soggetti concessionari al momento della vendita della benzina ai consumatori finali, ovvero l’imposta è dovuta dai soggetti che forniscono direttamente il prodotto ai consumatori, di guisa che soggetto passivo dell’imposta è il fornitore del prodotto, mentre l’onere corrispondente all’imposta è traslato sul consumatore in virtù e nell’ambito di un fenomeno meramente economico, ne deriva necessariamente che il rapporto tributario inerente al pagamento dell’imposta si svolge soltanto tra l’Amministrazione finanziaria ed i soggetti che forniscono direttamente i prodotti, essendo ad esso estraneo l’utente consumatore. Come è stato efficacemente rilevato, « i due rapporti, quello fra fornitore ed amministrazione finanziaria e quello fra fornitore
e consumatore, si pongono quindi su due piani diversi: il primo ha rilievo tributario, il secondo civilistico » (cfr. Cass., 30 gennaio 2024, n. 2733 ed altra giurisprudenza ivi richiamata).
Sotto questo aspetto, la tesi dell’Ente territoriale poteva trovare riscontro nell’originaria formulazione dell’IRBA, alla luce di una legge delega che, in effetti, configurava il consumatore finale come soggetto passivo dell’IRBA, ma in seguito alla rifor ma del quadro normativo di riferimento operata dal legislatore con l’art. 3, comma 13, della legge n. 549 del 1995 i caratteri fondamentali del tributo sotto il profilo soggettivo sono radicalmente mutati e la Regione Campania si è adeguata alla riforma legislativa del 1995 (cfr. Cass., 1 giugno 2023, n. 15522; Cass., 19 aprile 2017, n. 9874), con la conseguenza che il concessionario, previsto in sede di delega come un mero riscossore dell’imposta, è diventato il soggetto passivo dell’imposta, e il consumatore finale è il soggetto sui cui l’imposta viene traslata economicamente. Inoltre, in applicazione dell’art. 29 , comma 2, della legge n. 428 del 1990, è l’amministrazione finanziaria che deve provare l’avvenuta traslazione del tributo, conformemente ai principi suesposti secondo cui l’avvenuta traslazione dell’imposta integra un fatto impeditivo di detto diritto, l’onere della cui prova ricade sull’amministrazione finanziaria e che non sussiste, nel caso di specie, un obbligo legale di rivalsa (come per esempio in materia di Iva dove l’art. 18 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevede che il soggetto che effettua la cessione di beni o prestazione di servizi deve addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o committente), con l’ulteriore corollario che il rigetto della richiesta di rimborso dell’IRBA (tributo ritenuto incompatibile con la direttiva 118/2008/CE) presuppone il concreto accertamento dell’avvenuta traslazione del tributo ad altri soggetti, oltre che dell’esistenza di un effettivo arricchimento che l’operatore conseguirebbe per effetto del rimborso (cfr. Cass., 26 ottobre 2022, n. 31679; Cass. 24 luglio 2019, n. 19976;
Cass., 1 ottobre 2015, n. 19681), ciò che non scalfisce il principio, pure affermato e condiviso da questa Corte secondo cui « Nelle liti di rimborso, sia in tema di imposte dirette, che in tema di Iva, il contribuente che impugni il rigetto dell’istanza riveste la qualità di attore in senso sostanziale, con la conseguenza che grava su di lui l’onere di allegare e provare gli elementi costitutivi della pretesa » (Cass.,14 dicembre 2023, n. 35042; Cass., 3 luglio 2023, n. 18644; Cass., 2 settembre 2022, n. 25999; Cass., 29 ottobre 2020, n. 23862; Cass., 27 giugno 2019, n. 17239).
Dunque l’Amministrazione finanziaria, per escludere il diritto al rimborso, ha l’onere di dimostrare sia la traslazione su altri (nella specie, il consumatore finale) dell’onere economico costituito dal tributo chiesto in rimborso, sia l’arricchimento det erminato dal rimborso in capo al richiedente, che costituiscono entrambi non già fatti costitutivi dello stesso diritto al rimborso, bensì fatti impeditivi al suo riconoscimento, così da dover essere provati, in positivo, dall’Ente impositore. Né è condivisibile la prospettazione regionale ( secondo cui la traslazione economica dell’imposta si è verificata per via della struttura normativa dell’IRBA, che comporta una traslazione automatica sul consumatore finale e che l’imposta per cui è causa era inclusa nel prezzo di vendita al dettaglio della benzina ), stante da un lato l’assenza di un meccanismo di rivalsa obbligatorio e dall’altro che la traslazione dell’imposta non comporta automaticamente l’arricchimento del soggetto che chiede e ottiene il rimborso. La Corte di Giustizia Ue, in proposito, ha affermato che « Anche quando è provato che l’onere dell’imposta indebitamente riscossa è stato parzialmente o totalmente ripercosso sui terzi, il rimborso di questa all’operatore non gli procura necessariamente un arricchimento senza causa (v. sentenze Comateb e a., cit., punto 29, e 21 settembre 2000, cause riunite C-441/98 e C-442/98, Michailidis, Racc. pag. 1-7145, punto 34). Infatti, anche qualora l’imposta sia completamente inserita
nel prezzo praticato, il soggetto passivo potrebbe subire un danno dovuto ad una diminuzione di volume delle sue vendite (v. cit. sentenze Comateb e a., punto 29, e Michailidis, punto 35). Pertanto, l’esistenza e la misura dell’arricchimento senza causa che il rimborso di un tributo indebitamente riscosso con riguardo al diritto comunitario causerebbe per un soggetto passivo potranno essere stabiliti soltanto al termine di un’analisi economica che tenga conto di tutte le circostanze pertinenti. Di conseguenza, il diritto comunitario osta a che uno Stato membro neghi di rimborsare a un operatore un’imposta riscossa in violazione del diritto comunitario solo perché questa è stata inserita nel prezzo di vendita al dettaglio praticato da detto operatore e, pertanto, trasferita su terzi, il che implicherebbe necessariamente che il rimborso dell’imposta causerebbe un arricchimento senza causa dell’operatore » e ha concluso che affermando che « le norme del diritto comunitario relative alla ripetizione dell’indebito devono essere interpretate nel senso che esse ostano a una normativa nazionale che rifiuti – il che tocca al giudice nazionale verificare – il rimborso di un’imposta incompatibile con il diritto comunitario solo perché questa è stata trasferita sui terzi, senza esigere che sia stabilita la misura dell’arricchimento senza causa che causerebbe per l’operatore il rimborso di detta imposta » (Corte Giustizia UE, 2 ottobre 2003, causa C-147/2001 ). Anche di recente, in tema di Iva, la Corte di Giustizia ha ribadit o che l’assenza di perdita o di svantaggio finanziari non è necessariamente il corollario della traslazione integrale dell’Iva sul consumatore finale in quanto, anche in tale ipotesi, l’operatore economico può avere subito una perdita economica connessa alla diminuzione del volume delle sue vendite (Corte di Giustizia UE, sentenza 21 marzo 2024, causa C-606/22, che richiama Corte di Giustizia UE, del 10 aprile 2008, causa C-309/06).
9.8 Le suddette argomentazioni implicano anche l’assorbimento dell’eccezione, sollevata dalla Regione Campania, di inammissibilità
dell’istanza di rimborso per omessa comunicazione della stessa anche all’Agenzia delle entrate competente, ex art. 29, comma 4, della legge n. 428 del 1990, e di decadenza della contribuente dal diritto di chiedere il rimborso per gli anni in esame, dovendosi ritenere, comunque, che nel giudizio di cassazione non si possono prospettare nuove questioni di diritto ovvero nuovi temi di contestazione che implichino indagini ed accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito, nemmeno se si tratti di q uestioni rilevabili d’ufficio (Cass., 25 ottobre 2017, n. 25319; Cass., 13 agosto 2018, n. 20712).
10. Anche il terzo motivo è infondato.
10.1 Va innanzi tutto precisato che l ‘imposta in contestazione rinviene il suo fondamento normativo nel l’art. 17, comma 1, del decreto legislativo n. 398 del 1990, emanato in attuazione alla delega di cui all ‘art. 6, comma 1, lett. c), della legge n. 158 del 1990, e che la Regione Campania, avvalendosi della facoltà attribuitale, con l’art. 3 della legge 24 dicembre 2003, n. 28, ha istituito (a decorrere dal 1° gennaio 2004) « l’imposta regionale sulla benzina per autotrazione di cui al decreto legislativo 21 dicembre 1990, n. 398, articolo 17 »; detta imposta, da ultimo, è stata soppressa tanto dal legislatore nazionale, che, con l ‘art. 1, comma 628, della legge n. 178 del 2020 , ha disposto che « L’articolo 6, comma 1, lettera c), della legge 14 giugno 1990, n. 158, l’articolo 17 del decreto legislativo 21 dicembre 1990, n. 398, l’articolo 3, comma 13, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, l’articolo 1, comma 154, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e l’articolo 1, commi 670, lettera a), e 671, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recanti disposizioni in materia di imposta regionale sulla benzina per autotrazione, sono abrogati. Sono fatti salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte. », quanto dalla stessa Regione Campania che, in attuazione del disposto del l’art. 1, comma 629, della legge di bilancio 2021, con l’art. 54 della legge 29 giugno 2021, n. 5, nel disporre l’abrogazione delle disposizioni normative che, per il passato, avevano
regolato il prelievo tributario in questione (art. 54, comma 2), ha espressamente previsto che « A decorrere dal periodo d’imposta 2021 è soppressa l’imposta regionale sulla benzina per autotrazione. Sono fatti salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte » (art. 54, comma 1).
Come, dunque, reso esplicito dalla successione normativa sopra ripercorsa, l’IRBA non può trovare più applicazione nella Regione Campania a decorrere dal periodo d’imposta 2021, ciò non di meno rimanendo « salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte » durante il periodo di vigenza del tributo.
10.2 Orbene, in questo contesto normativo, con specifico riferimento all’IRBA istituita dalla Regione Lazio con l’art. 3 della legge regionale n. 19 del 2011, e, dunque, ad una disciplina del tutto omogenea a quella (ora) in esame siccome rinveniente dal medesimo fondamento normativo offerto dalla legislazione nazionale, e connotata da medesimi contenuti di regolazione, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è specificamente intervenuta a seguito di rinvio pregiudiziale, in ordine al tributo qui dedotto, l’IRBA, con ordinanza del 9 novembre 2021, nella causa C-255/20, pronunciandosi sulla domanda di pronuncia pregiudiziale che verteva sull’interpretazione dell’art. 3, paragrafo 2, della direttiva 9 2/12 alla luce dell’art. 1, paragrafi 1 e 2 della direttiva 2008/118/CE del Consiglio del 16 dicembre 2008, che, dispone nei seguenti termini: « Gli Stati membri possono applicare ai prodotti sottoposti ad accisa altre imposte indirette aventi finalità specifiche, purché tali imposte siano conformi alle norme fiscali comunitarie applicabili per le accise o per l’imposta sul valore aggiunto in materia di determinazione della base imponibile, calcolo, esigibilità e controllo dell’imposta; sono escluse da tali norme le disposizioni relative alle esenzioni ».
10.3 Ai sensi di detta disposizione, che sostanzialmente riproduce le previgenti disposizioni di cui all’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva
92/12 (cfr. CGUE, 9 novembre 2021, causa C-255/20, punto 27; CGUE, 5 marzo 2015, causa C-553/13, punto 34), gli Stati membri possono, quindi, applicare ai prodotti sottoposti ad accisa altre imposte indirette a condizione che dette imposte rispondano a finalità specifiche e che siano conformi alle norme fiscali dell’Unione applicabili ai fini delle accise o dell’imposta sul valore aggiunto per la determinazione della base imponibile, nonché per il calcolo, l’esigibilità e il controllo dell’imposta. Le due condizioni, che mirano ad evitare che le imposizioni indirette supplementari ostacolino indebitamente gli scambi, hanno carattere cumulativo e, per quanto attiene alla prima di dette condizioni, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia emerge che una finalità specifica ai sensi della disposizione di cui trattasi è una finalità che non sia puramente di bilancio (cfr. CGUE, 7 febbraio 2022, causa C-460/21, punti 19 e ss.; CGUE, 9 novembre 2021, causa C255/20, punti 27 e ss.; CGUE, 25 luglio 2018, causa C-103/17, punti 34 e ss.).
10.4 La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nell’ordinanza del 9 novembre 2021, pronunciata nella causa C-255/20, ha affermato che: -) anche se l’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 2008/118 /CE prevede che gli Stati membri possono applicare ai prodotti sottoposti ad accisa altre imposte indirette, è necessario che tali imposte abbiano «finalità specifiche» e che siano conformi alle norme fiscali dell’Unione applicabili per le accise o per l’imposta sul valore aggiunto in materia di determinazione della base imponibile, calcolo, esigibilità e controllo dell’imposta;
siccome qualsiasi imposta persegue necessariamente uno scopo di bilancio, la sola circostanza che un’imposta miri ad un obiettivo di bilancio non può, di per sé sola, salvo privare l’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 2008/118/CE di qualsivoglia sostanza, essere sufficiente a escludere che l’imposta in parola possa essere considerata dotata parimenti di una «finalità specifica» ai sensi di tale disposizione;
-) affinché la destinazione predeterminata del gettito di un’imposta che grava sui prodotti sottoposti ad accisa consenta di considerare che tale imposta persegue una «finalità specifica» ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 2008/118/CE, è necessario che l’imposta in questione miri, di per sé stessa, a garantire la realizzazione della finalità specifica invocata, e quindi che sussista un nesso diretto tra l’uso del gettito derivante dall’imposta e la predetta finalità specifica; -) in assenza di un meccanismo di destinazione predeterminata del gettito, un’imposta che grava sui prodotti sottoposti ad accisa può essere considerata perseguire una «finalità specifica» ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 2008/118 soltanto qualora tale imposta sia concepita, quanto alla sua struttura, segnatamente riguardo alla materia imponibile o all’aliquota d’imposta, in modo tale da influenzare il comportamento dei contribuenti nel senso di consentire la realizzazione della finalità specifica invocata, ad esempio mediante una forte tassazione dei prodotti di cui trattasi al fine di scoraggiarne il consumo;
-) alla luce dell’insieme delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla questione sollevata dichiarando che l’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 2008/118/CE deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che istituisce un’imposta regionale sulle vendite di benzina per autotrazione, dal momento che non si può ritenere che tale imposta abbia una «finalità specifica» ai sensi di tale disposizione, il suo gettito essendo inteso solo a contribuire genericamente al bilancio degli enti territoriali.
10.5 Questa Corte ha già avuto modo di rilevare, più volte, che alla disposizione di cui alla direttiva 2008/118/CE, art. 1, paragrafo 2, va riconosciuta efficacia diretta nello Stato (Cass., 15 ottobre 2020, n. 22343, in motivazione; Cass., 23 ottobre 2019, n. 27101; Cass., 4 giugno 2019, n. 15198) e che, in ragione del primato del diritto dell’Unione Europea, che impone il doveroso rispetto degli obblighi di
adottare « ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione » (cd. principio di leale cooperazione; art. 4, par. 3, del TUE, già art. 10 TCE), e di realizzare il risultato prescritto da una direttiva, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi (art. 288 TFUE, già art. 249 TCE), alla stessa, nell’interpretazione offertane dalla Corte di Giustizia, il giudice nazionale deve dare applicazione, non venendo in rilievo, per l’appunto, un rapporto esaurito (v. Cass. , Sez. U., 16 giugno 2014, n. 13676), disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale e che la verifica della compatibilità del diritto interno con le disposizioni comunitarie vincolanti deve essere effettuata di ufficio dal giudice, tenuto all’applicazione di queste ultime, per cui il relativo controllo non è condizionato, nel giudizio di primo grado, alla proposizione di un’apposita eccezione, né, in quello di impugnazione, alla formulazione di uno specifico motivo, dovendo, altresì, esercitarsi anche in sede di legittimità, ove non siano necessari nuovi accertamenti in fatto ( cfr. Cass., 25 maggio 2023, n. 14606; Cass., 9 ottobre 2019, n. 25278; Cass, 31 ottobre 2018, n. 27822; Cass., 10 dicembre 2015, n. 24952; Cass., 2 luglio 2014, n. 15032).
10.6 Va del resto ancora osservato come l’interpretazione di una norma di diritto comunitario data pregiudizialmente dalla CGUE nell’esercizio della competenza ad essa attribuita « chiarisce e precisa, quando ve ne sia il bisogno, il significato e la portata della norma, quale deve, o avrebbe dovuto, essere intesa ed applicata dal momento della sua entrata in vigore »; con la conseguenza che, proprio per la sua portata interpretativa dichiarativa, essa produce effetti normalmente retroattivi sui rapporti ancora aperti e sub iudice , in modo tale che « la
norma così interpretata può, e deve, essere applicata dal giudice anche a rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza interpretativa, se, per il resto, sono soddisfatte le condizioni che consentono di portare alla cognizione dei giudici competenti una controversia relativa all’applicazione di detta norma » (cfr. Corte di Giustizia UE, sentenza 27 marzo 1980, cause riunite nn. 66, 127 e 128/79).
10.7 Inoltre, conformemente a quanto stabilito da questa Corte, se è vero che oggetto del presente giudizio è la realizzazione di una pretesa impositiva insorta prima della soppressione del tributo e che, stante la su riportata clausola legale, dovrebbe rimanere «salva» nei suoi effetti obbligatori, tuttavia, l’accertata incompatibilità dell’imposta con il diritto UE, secondo quanto si è già osservato, esclude che questa clausola di salvezza possa sopravvivere alla radicale espunzione del tributo, proprio per le predette considerazioni di incompatibilità, dall’ordinamento nazionale. Sicché, per le stesse ragioni ostative già evidenziate dalla CGUE nella pronuncia menzionata, deve questo giudice nazionale disapplicare la norma interna che vorrebbe mantenere al tributo soppresso una residuale efficacia impositiva per il passato, cioè in rapporto alle obbligazioni insorte prima della soppressione stessa. Conclusione, questa, che impone di ritenere non dovuta l’imposta anche per le annualità precedenti al 2021, con ciò parimenti disapplicando la citata legge regionale che ha, a sua volta, collocato un limite temporale di validità ed efficacia di un’imposta che si pone in già affermato totale contrasto con il diritto UE e, in particolare, con l’articolo 1, par. 2, della direttiva 2008/118/C E (cfr., fra le tante, Cass., 6 marzo 2023, n. 6687; Cass.,7 marzo 2023, n. 6687; Cass., 8 marzo 2023, n. 6966; Cass., 19 giugno 2023, n. 17436; Cass., 19 giugno 2023, n. 17529).
10.8 Peraltro, già nell’impianto della legge di delega n. 158 del 1990 (art. 6), la « facoltà delle regioni a statuto ordinario di istituire un’imposta regionale sulla benzina per autotrazione, erogata dagli
impianti di distribuzione ubicati nelle predette regioni » veniva correlata all’obiettivo di «attribuire alle regioni a statuto ordinario una più ampia autonomia impositiva in adempimento del precetto di cui al secondo comma dell’articolo 119 della Costituzione»; e che, ivi difettando l’individuazione di una «fi nalità specifica», ad un siffatto vuoto di previsione nemmeno la legge della Regione ricorrente ha mai ovviato (cfr. Cass., 25 maggio 2023, n. 14606).
10.9 Si tratta di una ricostruzione, normativa e giurisprudenziale, che è stata avvalorata anche dalla Corte costituzionale che, nella sentenza n. 100 del 4 giugno 2024, nel dichiarare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Molise 31 dicembre 2004, n. 38, come modificato dall’art. 5, comma 1, della legge della Regione Molise 30 gennaio 2018, n. 2 sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costitu zione e ai «criteri fissati dalla legge delega e da quelle applicative», ha evidenziato che « 5.3. -Anche questa Corte ha ripetutamente affermato che il giudice nazionale deve dare piena e immediata attuazione alle norme dell’Un ione europea provviste di efficacia diretta e non applicare, in tutto o anche solo in parte, le norme interne ritenute con esse inconciliabili, previo -ove occorra -rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE per dirimere pos sibili dubbi riguardo all’esistenza di tale conflitto. Il contrasto con il diritto dell’Unione europea condiziona, infatti, la stessa applicabilità della disposizione censurata nel giudizio a quo -e, di conseguenza, la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale che si intendano sollevare sulla medesima -, se la norma europea è dotata di effetto diretto, salvo che sussistano i presupposti, gradualmente precisati da questa Corte a partire dalla sentenza n. 269 del 2017, per sollevare questione di legittimità costituzionale sulla base del contrasto tra la disposizione censurata e un diritto riconosciuto tanto dalla Costituzione, quanto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (da ultimo, sentenza n. 15 de l 2024, punto 7.3.3.
del Considerato in diritto ). In tale ultima ipotesi, ravvisabile nell’odierno giudizio, la questione di compatibilità con il diritto dell’Unione costituisce, dunque, un prius logico e giuridico rispetto alla stessa questione di legittimità costituzionale in via incidentale (sentenza n. 245 del 2019; ordinanze n. 48 e n. 2 del 2017). 6. -In conclusione, le disposizioni di diritto intertemporale che, per i rapporti in essere al 1° gennaio 2021, mantengono in vita una disciplina, quale quella dell’IRBA, ritenu ta dalla Corte di giustizia contrastante con il diritto dell’Unione, «si prestano a essere disapplicate dal giudice rimettente» (ancora, in altra materia, sentenza n. 67 del 2022)».
10.10 Anche con specifico riferimento alla nozione di finalità specifica in relazione alla legge regionale n. 28 del 2003, ferma restando l’ordinanza della Corte di Giustizia del 9 novembre 2021, pronunciata nella causa C-255/20, che ha stabilito la incompatibilità comunitaria dell’IRBA, ritenendo espressamente che non sussistesse la finalità specifica per come individuata dalla direttiva n. 118/2008/CE, deve rilevarsi che l’art. 1 , comma 3, della legge regionale campana ha previsto una destinazione del gettito prodotto dall’IRBA , unitamente al gettito prodotto dalla tassa e dalla sopratassa automobilistica regionale (ex art. 2 della stessa legge) ad un fondo « prioritariamente utilizzato per il rafforzamento patrimoniale delle Aziende sanitarie locali o per l’incremento del capitale della società di cui all’articolo 6, comma 1 » Inoltre, l’ art. 1, comma 3, citato, ha disposto che « Per il finanziamento del fondo di cui al comma 1 è autorizzata la spesa di 400 milioni di euro per l’anno 2004 e di 200 milioni di euro per l’anno 2005 ».
10.11 Alla luce di quanto esposto, dunque, e contrariamente a quanto affermato dalla Regione Campania, deve ritenersi che, conformemente a quanto hanno affermato i giudici unionali, la legge regionale n. 28 del 2003, non ha previsto una «finalità specifica» ai sensi dell’art. 1, par. 2, della direttiva 2008/118/CE, dovendosi considerare che il finanziamento di un fondo del bilancio regionale avente come scopi il
rafforzamento patrimoniale delle Aziende sanitarie locali e l’incremento del capitale di una società destinata a sviluppare programmi per la gestione del debito sanitario regionale rappresenti una finalità di bilancio, peraltro finanziata anche da altre fonti di gettito (quale la sopratassa automobilistica regionale) e comunque individuata solo in relazione ai periodi 2004 e 2005 e non anche per gli anni che vengono in rilievo nella presente causa. Ed invero, la finalità specifica non è data dalla «finalità di bilancio», perché qualsiasi imposta persegue necessariamente uno scopo di bilancio, ed è anche necessario che un’imposta sia diretta, di per sé, a garantire la tutela della salute e dell’ambiente e ciò si verifica quando il gettito d ell’ imposta debba obbligatoriamente essere utilizzato al fine di ridurre i costi sociali e ambientali specificamente connessi al consumo del carburante su cui grava l’imposta, cosicché sussista un nesso diretto tra l’uso del gettito e la finalità dell’imposta di cui trattasi; inoltre, deve essere esclusa la finalità specifica nel caso in cui il gettito dell’imposta sia finalizzato alle spese sanitarie in generale e non a quelle specificamente connesse al consumo del carburante (come nel caso di specie), perché spese generali che possono essere finanziate dal gettito di imposte di qualsiasi natura. Ciò nel rispetto dei principi statuiti dai giudici unionali che, ai fini della configurabilità della «finalità specifica», hanno ritenuto necessario che la normativa nazionale preveda meccanismi di assegnazione predeterminata a fini ambientali del gettito dell’imposta e, in mancanza di siffatta assegnazione predeterminata, che l’ imposta sia concepita, quanto alla sua struttura, segnatamente riguardo alla materia imponibile o all’aliquota d’imposta, in modo tale da scoraggiare i contribuenti dall’utilizzare i prodotti i cui effetti sono meno nocivi per l’ambiente.
10.12 La sentenza impugnata, laddove ha espressamente aderito alla sentenza di questa Corte, sopra richiamata, n. 6687 del 6 marzo 2023, (che ha affermato che la disposizione dell’art. 1, comma 628, della
legge n. 178 del 2020 doveva essere disapplicata perché in contrasto con la direttiva n. 2008/118 che aveva abrogato e sostituito quella n. 12/1992, come interpretata dalla ordinanza della Corte di Giustizia UE del 9 novembre 2021) è conforme ai principi suesposti.
In conclusione, il ricorso va rigettato e la Regione Campania va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla società controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la Regione ricorrente al pagamento, in favore della società controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della Regione ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, in data 14 gennaio 2025.