Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 6619 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 6619 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 12/03/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 5297/2024 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-controricorrente-
REGIONE CAMPANIA, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso la SENTENZA di CORTE DI GIUSTIZIA TRIBUTARIA II GRADO CAMPANIA n. 4531/2023 depositata il 24/07/2023. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 14/01/2025 dal
Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
RAGIONE_SOCIALE con atto datato 14 maggio 2020 e trasmetto via pec il giorno successivo alla regione Campania ed all’Agenzia delle Dogane (cfr. il doc. 6.1 del fascicolo della contribuente ricorrente: ‘Istanza di rimborso IRBA RAGIONE_SOCIALE firmata (PDFA).pdf’), formulava istanza di rimborso dell’imposta regionale sulla benzina per autotrazione (IRBA) in riferimento alle annualità 2018, 2019 e 2020.
L’istanza rimaneva senza risposta.
La contribuente proponeva ricorso avverso il cd. silenzio -rifiuto sia nei confronti della regione Campania che nei confronti dell’Agenzia delle Dogane (cfr. il doc. 6 del medesimo fascicolo: ‘RICORSO avverso silenzio rifiuto PROPANGAS.pdf’).
Nel ricorso introduttivo, giusta quanto apprendesi dal ricorso per cassazione, la contribuente deduceva:
-la declaratoria di illegittimità e/o l’annullamento del silenzio -rifiuto opposto all’istanza di restituzione dell’IRBA corrisposta negli anni 2018, 2019 e 2020 ;
-l’accertamento del credito vantato conseguente alla illegittimità del prelievo e la condanna della Regione Campania al rimborso delle somme indebitamente percepite e dei relativi interessi anatocistici o interessi
legali come per legge, maturati e maturandi, a seguito dell’istanza presentata in data 15/05/2020;
-previa disapplicazione del Capo III del D. Lgs. 398 del 21 dicembre 1990, dell’art. 3 della L.R. della Campania n. 28 del 24 dicembre 2003, in particolare del comma 3 .
Con sentenza in data 17/6/2021, depositata il 14/3/2022, la Commissione Tributaria Provinciale di Napoli, giusta quanto apprendesi dalla sentenza in epigrafe, dichiarava inammissibile l’impugnazione.
Ragguaglia la sentenza in epigrafe che
il primo giudice ha rilevato che non risulta essere stata depositata in giudizio alcuna documentazione idonea a dimostrare che le somme richieste a titolo di IRBA in restituzione siano state effettivamente pagate dal ricorrente, che si tratti di somme rimaste a suo carico e che non vi sia stata la traslazione sul prezzo praticato alla vendita al consumatore finale il quale, di regola, nelle imposte di consumo è il soggetto economicamente inciso, mentre solo una rigorosa dimostrazione per tabulas che l’onere economico dell’IRBA è rimasto a carico del gestore avrebbe legittimato la richiesta di rimborso.
La contribuente proponeva appello, rigettato dalla CGT II della Campania sulla base, per quanto di rilievo, della seguente motivazione:
Una prima questione da risolvere è rappresentata dalla compatibilità con la normativa comunitaria della norma che fa salvi gli effetti delle obbligazioni relative ai periodi di imposta precedenti al 2021 e che, quindi, esclude la ripetibilità delle somme già versate. L’orientamento prevalente di questa Corte veniva espresso, ad esempio, nella sentenza n. 6192, emessa dalla sez. 7 in data 16/9/2022, depositata il successivo giorno 20. Se ne trascrivono i passaggi salienti.
Questo Collegio non ignora che la S.C. di Cassazione, con sentenza n. 6687 del 15.2.2023, depositata il 6.3.2023, richiamata dall’appellante, ha statuito che .
Ma anche successivamente la sez. 7 di questa Corte (sentenza n. 4184 del 16.6.2023, depositata il 4.7.2023) ha ancora deciso in senso favorevole alla tesi propugnata dalla Regione Campania .
A sommesso avviso di questo Collegio, tale interpretazione è maggiormente rispettosa della realtà normativa, mentre la citata decisione della S.C., emessa su parere difforme del P.G. e suscettibile di ulteriori successive riflessioni del giudice di legittimità, trascura la concreta sussistenza della ‘finalità specifica’ sottesa all’imposta in questione.
Infatti, l’IRBA veniva istituita dalla Regione Campania al peculiare scopo di finanziare (art. 1, comma 3, in relazione all’art. 3, citata L.R. n. 28/2003) un fondo da utilizzare per il rafforzamento patrimoniale delle Aziende sanitarie locali e per l’incremento del capitale della società per azioni unipersonale costituita -ai sensi del successivo art. 6, comma 1 -ai fini della elaborazione e della gestione di un progetto complessivo da realizzarsi con economie, finalizzato al compimento di operazioni di carattere patrimoniale, economico e finanziario da integrarsi con gli interventi per il consolidamento ed il risanamento della maturata debitoria del sistema sanitario regionale e per l’equilibrio della gestione corrente del debito della sanità. Inoltre, l’art. 5/bis L.R. citata, aggiunto dall’art. 1, co. 2 lett. c), L.R. 29/12/2005, n. 24, prevedeva l’utilizzo delle entrate derivanti dall’imposta in discorso per il ripiano dei disavanzi di gestione prodotti dal sistema sanitario regionale.
Dunque, l’IRBA campana è stata sempre destinata esclusivamente alla finalità di contribuire a finanziare la sanità pubblica regionale, all’epoca in situazione di grave dissesto tanto da dover essere gestita in forma commissariale per svariati anni. Si ritiene pertanto sussistente nella specie la finalità specifica che legittima, secondo la normativa comunitaria, l’istituzione del prelievo tributario aggiuntivo. Ciò preclude la disapplicazione delle normative statali e regionali che, nel porre termine a tale prelievo aggiuntivo, hanno previsto la salvezza delle obbligazioni tributarie già insorte, con conseguente infondatezza delle richieste di rimborso come quella il cui rifiuto è oggetto di questo processo. Ne consegue anche l’inammissibilità della richiesta di rimessione alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee.
Si è così esposto l’orientamento del Collegio, adesivo alla sentenza di questa CTR n. 4184/07/2023, nell’auspicio di un revirement della Suprema Corte.
Inoltre, questo Collegio ritiene anche – come esposto nella sentenza impugnata da confermare, nonché nella seconda parte della sentenza CTR n. 6192/07/2022 innanzi estesamente riportata ed in tale parte qui pienamente condivisa -che, anche qualora si ritenesse di dover
disapplicare la irretroattività dell’abolizione dell’imposta, comunque i fornitori di carburante non avrebbero titolo ad ottenerne il rimborso in quanto non sono essi ad averne sostenuto i costi.
Invero, l’IRBA si risolveva in un aumento del prezzo del carburante alla pompa, con conseguente esborso da parte dei consumatori di una somma aggiuntiva che il gestore aveva l’obbligo di riversare nelle casse regionali.
Al fine dell’accoglimento della propria richiesta, l’appellante avrebbe dovuto provare di non aver traslato tale costo sui consumatori.
In mancanza, tale accoglimento si risolverebbe nella legittimazione di un indebito arricchimento del gestore dell’impianto che incamererebbe in proprio favore l’importo a suo tempo versato a titolo di IRBA a seguito di pari incasso percepito dagli utenti, unici ad aver sopportato la spesa corrispondente. Né è immaginabile una serie indefinita di azioni nei confronti dei concessionari degli impianti (ovvero società petrolifera che ne sia unica fornitrice) di ripetizione dell’indebito (cfr., più recente ex plurimis, Cass. civ., sez. V, ordinanza n. 31609 del 25/10/2022) da parte dei consumatori medesimi, chiamati alla probatio diabolica di documentare il numero di litri di carburante acquistati presso ciascun impianto negli anni di vigenza dell’imposta.
Propone ricorso per cassazione la contribuente con due motivi. Resistono la regione Campania e l’Agenzia delle dogane con controricorso.
In data 20 dicembre 2024, la regione Campania deposita istanza di rinvio dell’udienza in considerazione del rinvio pregiudiziale sollevato, ai sensi dell’art. 363 bis c.p.c., dalla CGT II del Piemonte nei giudizi di rimborso dell’IRBA relativamente all’applicabilità dell’art. 29, comma 2, della legge n. 428 del 1990 nei casi di traslazione dell’imposta.
In data 21 dicembre 2024, il Pubblico Ministero, in persona della Dott.ssa NOME COGNOME deposita conclusioni scritte, concludendo per l’accoglimento del primo motivo, assorbito, o in subordine rigettato, il secondo.
In data 3 gennaio 2025, la contribuente deposita memoria ad ulteriore illustrazione delle sue ragioni.
All’odierna pubblica udienza, dopo breve discussione, medesimo Pubblico Ministero conclude in conformità.
L’Avv. NOME COGNOME per la contribuente, e l’Avv. NOME COGNOME per la regione Campania, si riportano ai rispettivi atti, insistendo nelle conclusioni rassegnatevi.
Nessuno compare per l’Agenzia delle Dogane.
RAGIONI DELLA DECISONE
Va rigettata l’istanza di rinvio presentata dalla regione Campania in attesa della decisione sul rinvio pregiudiziale sollevato, ai sensi dell’art. 363 bis c.p.c., dalla CGT II del Piemonte, atteso che il relativo ricorso (n. 15074 del 2024 R.G.) viene trattato nella medesima pubblica udienza odierna.
Un tanto consente di procedere alla disamina dei motivi di ricorso.
Come, letteralmente, da sintesi anteposta all’illustrazione del ricorso:
Con il primo motivo di ricorso si censura l’assunto secondo cui l’IRBA istituita in Campania sarebbe compatibile con la finalità specifica richiesta dalle direttive UE, siccome gli introiti di tale imposta sarebbero legati al finanziamento di un fondo prioritariamente utilizzato per il rafforzamento delle ASL e per l’incremento del capitale di una società che dovrebbe intervenire per il consolidamento e il risanamento del debito del SSR, quando invero nessuna specifica destinazione del gettito era mai stata prevista della normativa nazionale e regionale, secondo le specifiche finalità richieste dalla normativa UE nel senso inteso dall’interpretazione fornitane dalla CGUE.
Con il secondo motivo di ricorso si avversa la sentenza impugnata nella misura in cui ha escluso il diritto al rimborso dell’IRBA corrisposta, sulla base della mancata prova della circostanza che il costo economico del tributo non sia stato traslato sull’acquirente della benzina, dovendosi ritenere che la contribuente non sia rimasta incisa dal costo fiscale e costituendo dunque l’eventuale rimborso un illegittimo arricchimento. Con il motivo di ricorso si chiede invece che sia accertato che, in caso di richiesta di rimborso dell’IRBA, la mancata traslazione del tributo stesso, non essendo elemento del fatto costitutivo del diritto al rimborso, ma essendo invece l’avvenuta traslazione un fatto impeditivo di detto diritto,
sussiste un onere a carico dell’amministrazione finanziaria di provare tale fatto impeditivo; si chiede altresì di sancire che, nella medesima ipotesi, l’amministrazione finanziaria, per escludere il diritto al rimborso, ha anche l’onere di dimostrare l’esistenza di un effettivo arricchimento che l’operatore conseguirebbe per effetto del rimborso e che, sempre nella medesima ipotesi, la prova del fatto impeditivo costituito della traslazione dell’imposta debba essere fornita dall’amministrazione finanziaria, con prova rigorosa e non attraverso il ricorso a presunzioni.
In via preliminare deve essere esaminata d’ufficio la questione della legittimazione passiva della regione nel presente giudizio in ordine alla istanza di rimborso dell’imposta regionale sulla benzina per autotrazione azionata nel giudizio di merito, dovendosi richiamare il principio statuito dalle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui « la decisione della causa nel merito non comporta la formazione del giudicato implicito sulla legittimazione ad agire ove tale “quaestio iuris”, pur avendo costituito la premessa logica della statuizione di merito, non sia stata sollevata dalle parti, posto che una questione può ritenersi decisa dal giudice di merito soltanto ove abbia formato oggetto di discussione in contraddittorio » (cfr. Cass., Sez. U., 20 marzo 2019, n. 7925 e, più di recente, Cass., 13 maggio 2024, n. 12936; Cass., 1 luglio 2024, n. 17989; Cass., 1 luglio 2024, n. 18001).
La disamina di tale questione -come sarà chiaro in seguito -involge parallelamente quella della questione della legittimazione passiva dell’Agenzia delle Dogane, protestata da questa come insussistente nel suo controricorso, ove infatti eccepisce la ‘carenza di legittimazione passiva dell’Agenzia delle Dogane ai sensi del combinato disposto dell’art. 3, comma 13, Legge 549/1995 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) e dell’art. 3, Legge Regionale Campania n. 28/2003art. 100 cpc’.
Tanto premesso, nella fattispecie in esame vengono in rilievo l’art. 1 della legge 14 giugno 1990, n. 158 (recante « Norme di delega in materia di autonomia impositiva delle regioni e altre disposizioni concernenti i rapporti finanziari tra lo Stato e le
Regioni »), che, nel riconoscere l’autonomia finanziaria delle regioni, prevedeva « l’applicazione di tributi propri e quote di tributi erariali accorpati in un fondo comune che assicuri il finanziamento delle spese necessarie ad adempiere a tutte le funzioni normali compresi i servizi di rilevanza nazionale » e, in attuazione della delega legislativa, l’art. 17, comma 1, del decreto legislativo n. 398 del 1990, che stabiliva che « le regioni hanno la facoltà di istituire, con leggi proprie, un’imposta regionale sulla benzina per autotrazione, erogata dagli impianti di distribuzione ubicati nelle rispettive regioni, successivamente alla data di entrata in vigore della legge istitutiva , in misura non eccedente lire 30 al litro ». L’art. 17 d.lgs. n. 398 del 1990, al comma 2, ha poi stabilito che « le regioni, possono, con successive leggi, fissare l’aliquota dell’imposta in misura diversa da quella precedentemente prevista, purché non eccedente lire 30 al litro, sulla benzina erogata successivamente alla data di entrata in vigore della legge che dispone la variazione ». L’art. 18 ha previsto che « l’imposta eventualmente istituita è dovuta dal soggetto consumatore della benzina ed è riscossa dal soggetto erogatore che deve versarlo alla regione sulla base dei quantitativi erogati risultanti dal registro di carico e scarico di cui all’art. 3 del decreto-legge 5 maggio 1957, n. 271, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 luglio 1957, n. 474 » ed il successivo art. 19 ha disposto che « le modalità di accertamento, i termini per il versamento dell’imposta nelle casse regionali, le sanzioni, da determinare in misura compresa tra il 50 per cento ed il 100 per cento del tributo evaso, le indennità di mora e gli interessi sono disposti da ciascuna regione con propria legge, con l’osservanza dei principi stabiliti dalle leggi dello Stato ».
La disciplina in esame è stata poi modificata dalla legge n. 549 del 1995, il cui art. 3, al comma 14, ha abrogato, a decorrere dal 1° gennaio 1996, gli artt. 18 e 19 d.lgs. n. 398 del 1990 e, al comma 13, ha inciso sulla struttura dell’IRBA, ponendone la
corresponsione a carico del concessionario dell’impianto di distribuzione (e non più del soggetto consumatore della benzina, con riscossione da parte del soggetto erogatore, tenuto a versarne l’importo alla regione, come previsto dall’art. 18 dello stesso d.lgs n. 398 del 1990), nella misura determinata sulla base dei quantitativi erogati e contabilizzati nei registri di carico e scarico.
Nel dettare disposizioni sull’accertamento e sulla riscossione del tributo, in continuità con l’abrogato art. 19 d.lgs. n. 398 del 1990, lo stesso comma 13 ha altresì precisato che « le modalità ed i termini di versamento, anche di eventuali rate di acconto, le sanzioni, da stabilire in misura compresa tra il 50 e il 100 per cento dell’imposta evasa, sono stabiliti da ciascuna regione con propria legge ». Sempre il comma 13 ha, poi, previsto che, « per la riscossione coattiva, gli interessi di mora, il contenzioso e per quanto non disciplinato dai commi da 12 a 14 del presente articolo, si applicano le disposizioni vigenti in materia di accisa sugli oli minerali, comprese quelle per la individuazione dell’organo amministrativo competente. Le regioni hanno facoltà di svolgere controlli sui soggetti obbligati al versamento dell’imposta e di accedere ai dati risultanti dalle registrazioni fiscali tenute in base alle norme vigenti, al fine di segnalare eventuali infrazioni o irregolarità all’organo competente per l’accertamento. Ciascuna regione riscuote, contabilizza e dà quietanza delle somme versate, secondo le proprie norme di contabilità ».
A questo assetto normativo si è allineata la disciplina della regione Campania, che, dapprima, con l’art. 3 della legge regionale n. 28 del 2003, ha stabilito che « l’imposta è dovuta alla regione dal concessionario dell’impianto di distribuzione di carburante sulla base dei quantitativi erogati in ogni mese » e, dopo, con l’art. 2, comma 2, della legge regionale n. 8 del 2004, ha modificato l’art. 3 cit. aggiungendo alla parola « concessionario » le seguenti « e dal titolare », per poi addivenire alla formulazione di detto articolo così
come risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 3, della legge regionale n. 15 del 2005: « L’imposta è dovuta alla regione dal concessionario e dal titolare dell’autorizzazione dell’impianto di distribuzione del carburante o, per loro delega, dalla società petrolifera che sia unica fornitrice dell’impianto, su base mensile e sui quantitativi di cui al decreto del Ministero delle finanze 30 luglio 1996, articolo 1, comma 1, lettera d)».
L’IRBA è stata soppressa tanto dal legislatore nazionale, che, con l’art. 1, comma 628, della legge n. 178 del 2020 (legge di bilancio 2021), ha disposto che « l’articolo 6, comma 1, lettera c), della legge 14 giugno 1990, n. 158, l’articolo 17 del decreto legislativo 21 dicembre 1990, n. 398, l’articolo 3, comma 13, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, l’articolo 1, comma 154, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e l’articolo 1, commi 670, lettera a), e 671, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recanti disposizioni in materia di imposta regionale sulla benzina per autotrazione, sono abrogati. Sono fatti salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte », quanto dalla stessa regione Campania che, in attuazione della legge di bilancio 2021, con l’art. 54 della legge regionale 29 giugno 2021, n. 5, nel disporre l’abrogazione delle disposizioni normative che, per il passato, avevano regolato il prelievo (comma 2), ha espressamente previsto che « a decorrere dal periodo d’imposta 2021 è soppressa l’imposta regionale sulla benzina per autotrazione. Sono fatti salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte » (comma 1).
Come, dunque, reso esplicito dalla successione normativa sopra ripercorsa, l’IRBA non può trovare più applicazione nella regione Campania a decorrere dall’anno d’imposta 2021.
In ragione di quanto detto, gli aspetti procedurali, dichiarativi, liquidativi, di accertamento, di riscossione e sanzionatori dell’IRBA, ad integrazione e modifica di quanto inizialmente stabilito nel 1990, sono stati modificati e fissati dall’art. 3, comma 13, della legge n.
549 del 1995, che, per quel che rileva in questa sede, ha stabilito che « gli uffici tecnici di finanza effettuano l’accertamento e la liquidazione dell’imposta regionale sulla base di dichiarazioni annuali presentate, dai soggetti obbligati al versamento dell’imposta e che per la riscossione coattiva, gli interessi di mora, il contenzioso e per quanto non disciplinato dai commi da 12 a 14 del presente articolo, si applicano le disposizioni vigenti in materia di accisa sugli oli minerali, comprese quelle per la individuazione dell’organo amministrativo competente ».
Il conseguente corollario è che l’IRBA è un tributo regionale proprio derivato, in quanto colpisce la vendita della benzina per autotrazione in base alla quantità, e non al valore, e diviene esigibile nel momento e nel luogo in cui avviene l’immissione al consumo del prodotto energetico; dunque, l’imposta è dovuta al momento della fornitura della benzina al consumatore finale e il fornitore, « in caso di pagamento indebito, è l’unico soggetto legittimato a presentare istanza di rimborso all’Amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 29, comma 2, della legge n. 428 del 1990 ».
Peraltro, già nell’impianto della legge di delega n. 158 del 1990 (art. 6), la « facoltà delle regioni a statuto ordinario di istituire un’imposta regionale sulla benzina per autotrazione, erogata dagli impianti di distribuzione ubicati nelle predette regioni » veniva correlata all’obiettivo di « attribuire alle regioni a statuto ordinario una più ampia autonomia impositiva in adempimento del precetto di cui al secondo comma dell’articolo 119 della Costituzione ».
Anche la Corte Costituzionale, di recente, ha affermato che « l’IRBA è stata prevista dall’art. 17 del d.lgs. n. 398 del 1990, in attuazione della legge delega n. 158 del 1990, la quale, all’art. 6, comma 1, lettera c), al dichiarato fine di ‘attribuire alle regioni a statuto ordinario una più ampia autonomia impositiva in adempimento del precetto di cui al secondo comma dell’art. 119
della Costituzione’, aveva consentito a dette regioni di introdurre, con proprie leggi, un’imposta sulla benzina per autotrazione erogata dagli impianti di distribuzione ubicati nei rispettivi territori» e che « L’IRBA si configura come un tributo regionale proprio derivato, avente struttura analoga a quella dell’accisa, in quanto, al pari di questa, colpisce la vendita della benzina per autotrazione in base alla quantità, e non al valore, e diviene esigibile nel momento e nel luogo in cui avviene l’immissione al consumo del prodotto energetico » (Corte cost., 4 giugno 2024, n. 100).
Dunque, l’IRBA rientra tra i cosiddetti ‘tributi propri derivati’ delle regioni, cioè quei tributi che, come precisa l’art. 7, comma 1, lett. b), n. 1, della legge n. 42 del 2009 (legge delega sul federalismo fiscale) sono « istituiti e regolati da leggi statali, il cui gettito è attribuito alle Regioni ».
Detta definizione ha trovato adeguata sede nel decreto legislativo n. 68 del 2011, che all’art. 8 ha elencato i tributi delle regioni a statuto ordinario, distinguendo: al comma 1, i tributi propri autonomi « ceduti », che possono, cioè, essere istituiti e interamente disciplinati o anche soppressi con legge regionale, tra i quali non è previsto il tributo in questione; al comma 2, la tassa automobilistica, che si configura come un tertium genus , vale a dire un tributo proprio derivato particolare, parzialmente « ceduto » alle regioni; al comma 3 i « tributi propri derivati », cioè gli altri tributi riconosciuti alle regioni a statuto ordinario dalla legislazione vigente alla data di entrata in vigore del decreto stesso.
Come in numerose occasioni ha affermato la Corte costituzionale, questi tributi, che sono quindi individuati dalla norma in via residuale, conservano inalterata la loro natura di tributi erariali (Corte cost., 26 marzo 2010, n. 123; Corte cost., 14 luglio 2009, n. 216; Corte cost., 25 ottobre 2005, n. 397; Corte cost., 26 gennaio 2004, n. 37; Corte cost., 26 settembre 2003, n. 296).
Nel descritto contesto normativo, con specifico riferimento all’IRBA istituita dalla regione Lazio con l’art. 3 della corrispondente legge regionale n. 19 del 2011, e dunque ad una disciplina del tutto omogenea a quella qui in esame, siccome rinveniente dal medesimo fondamento normativo offerto dalla legislazione nazionale e connotata da medesimi contenuti di regolazione, si innesta la considerazione che è intervenuta a sancirne la contrarietà al diritto unionale la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, giusta ordinanza del 9 novembre 2021 resa in causa C255/20, su rinvio pregiudiziale riguardante l’interpretazione dell’art. 3, paragrafo 2, della direttiva 92/12 alla luce dell’art. 1, paragrafi 1 e 2, della direttiva 118/08, che dispone nei seguenti termini: « Gli Stati membri possono applicare ai prodotti sottoposti ad accisa altre imposte indirette aventi finalità specifiche, purché tali imposte siano conformi alle norme fiscali comunitarie applicabili per le accise o per l’imposta sul valore aggiunto in materia di determinazione della base imponibile, calcolo, esigibilità e controllo dell’imposta; sono escluse da tali norme le disposizioni relative alle esenzioni ».
Ai sensi di detta disposizione, che sostanzialmente riproduce le previgenti disposizioni di cui all’art. 3, paragrafo 2, della direttiva 92/12 (cfr. CGUE, 9 novembre 2021, causa C-255/20, punto 27; CGUE, 5 marzo 2015, causa C-553/13, punto 34), gli Stati membri possono applicare ai prodotti sottoposti ad accisa altre imposte indirette a condizione che dette imposte rispondano a finalità specifiche e che siano conformi alle norme fiscali dell’Unione applicabili ai fini delle accise o dell’imposta sul valore aggiunto sia per la determinazione della base imponibile sia per il calcolo, l’esigibilità ed il controllo. Le due condizioni, che mirano ad evitare che le imposizioni indirette supplementari ostacolino indebitamente gli scambi, hanno carattere cumulativo e, per quanto attiene alla prima, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia emerge che una
finalità specifica, per essere tale, non deve essere puramente di bilancio (cfr. CGUE, 7 febbraio 2022, causa C-460/21, punti 19 e ss.; CGUE, 9 novembre 2021, causa C-255/20, punti 27 e ss.; CGUE, 25 luglio 2018, causa C-103/17, punti 34 e ss.).
Con riferimento alla nozione di finalità specifica, la Corte di Giustizia, nell’ordinanza richiamata, ha rilevato che l’IRBA istituita dalla regione Lazio « persegue solo una finalità generica di supporto al bilancio degli enti territoriali» (punto 38), per poi concludere che « l’art. 1, paragrafo 2, della direttiva 2008/118/CE deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale, come quella italiana istitutiva di un’imposta regionale sulle vendite di benzina per autotrazione, dal momento che «non si può ritenere che tale imposta abbia una ‘finalità specifica’ ai sensi di tale disposizione, il suo gettito essendo inteso solo a contribuire genericamente al bilancio degli enti locali ».
Il quadro d’insieme che si va delineando si completa considerando che, in conformità a quanto stabilito da questa Corte, se è vero che oggetto del presente giudizio è la realizzazione di una pretesa impositiva insorta prima della soppressione del tributo, pretesa impositiva che, stante la su riportata clausola legale, dovrebbe rimanere « salva » nei suoi effetti obbligatori, tuttavia l’accertata incompatibilità dell’imposta con il diritto dell’UE esclude che la clausola di salvezza in sé e per sé possa sopravvivere alla radicale espunzione del tributo, proprio per le prevalenti considerazioni di incompatibilità rispetto all’ordinamento unionale.
Sicché, per le stesse ragioni ostative già evidenziate dalla CGUE nell’esaminata ordinanza, il giudice nazionale deve disapplicare la norma interna che vorrebbe mantenere al tributo soppresso una residuale efficacia impositiva per il passato, in rapporto alle obbligazioni insorte prima della soppressione stessa. Conclusione, questa, che impone di ritenere non dovuta l’imposta anche per le annualità antecedenti al 2021, con ciò parimenti disapplicandosi la
previsione di limiti temporali (espliciti od impliciti) di (residua) validità ed efficacia di un’imposta che si pone in già affermato totale contrasto con il diritto dell’UE e, in particolare, con l’articolo 1, par. 2, della direttiva 118/08 (cfr. fra le tante Cass., 6 marzo 2023, n. 6687; Cass., 7 marzo 2023, n. 6858; Cass., 8 marzo 2023, n. 6966; Cass., 19 giugno 2023, n. 17436; Cass., 19 giugno 2023, n. 17529).
Fermo quanto precede, anche rispetto alla nozione di finalità specifica in relazione alla legge regionale campana n. 28 del 2003, deve rilevarsi che l’art. 1, comma 3, della stessa esula dalla finalità specifica per come individuata dalla direttiva testé citata, alla luce dell’ordinanza della Corte di Giustizia del 9 novembre 2021, rivelando una pura e semplice finalità di gettito o di bilancio. L’art. 1, comma 3, cit., infatti ha previsto una destinazione del gettito prodotto dall’IRBA, unitamente al gettito prodotto dalla tassa e dalla sopratassa automobilistica regionale (ex art. 2) ad un fondo « prioritariamente utilizzato per il rafforzamento patrimoniale delle aziende sanitarie locali o per l’incremento del capitale della società di cui all’articolo 6, comma 1 », disponendo, inoltre, che « per il finanziamento del fondo di cui al comma 1 è autorizzata la spesa di 400 milioni di euro per l’anno 2004 e di 200 milioni di euro per l’anno 2005 ».
Alla luce di quanto esposto, dunque, deve ritenersi che, conformemente a quanto affermato dai giudici unionali, la legge regionale campana n. 28 del 2003 non ha previsto una « finalità specifica » ai sensi dell’art. 1, par. 2, della direttiva 118/08, dovendosi considerare che il finanziamento di un fondo del bilancio regionale avente come scopi il rafforzamento patrimoniale delle aziende sanitarie locali e l’incremento del capitale di una società destinata a sviluppare programmi per la gestione del debito sanitario regionale rappresenti una finalità di bilancio, peraltro finanziata anche da altre fonti (quale la sopratassa automobilistica
regionale) e comunque individuata solo in relazione ai periodi 2004 e 2005.
Ed invero, la finalità specifica non può mai esser data dalla finalità di bilancio, perché qualsiasi imposta persegue necessariamente uno scopo di bilancio, mentre, per soddisfare il requisito unionale, è necessario che l’imposta sia diretta di per sé a garantire la tutela della salute e dell’ambiente in tanto in quanto il gettito sia obbligatoriamente utilizzato al fine di ridurre i costi sociali ed ambientali precipuamente connessi al consumo del carburante su cui essa grava, cosicché sussista un nesso diretto tra l’uso del gettito e la finalità dell’imposta; pertanto, deve essere esclusa la finalità specifica nel caso in cui il gettito sia finalizzato (come nel caso di specie) alle spese sanitarie in generale e non a quelle specificamente connesse al consumo del carburante. Ciò conformemente ai principi statuiti dai giudici unionali che, ai fini della configurabilità della finalità specifica, hanno ritenuto necessario che la normativa nazionale preveda meccanismi di assegnazione predeterminata a fini ambientali del gettito dell’imposta e, in mancanza di siffatta assegnazione predeterminata, che l’imposta sia concepita, quanto alla sua struttura, segnatamente riguardo alla materia imponibile o all’aliquota, in modo tale da scoraggiare i contribuenti dall’utilizzare i prodotti i cui effetti sono più nocivi per la salute e per l’ambiente.
Dunque, anche in relazione alla legge regionale campana n. 28 del 2003, deve rilevarsi che l’incasso regionale del tributo è indebito, in quanto l’IRBA non soddisfaceva i requisiti previsti dalla direttiva 118 del 2018, poiché non era individuabile la finalità specifica secondo l’interpretazione vincolante della Corte di Giustizia (cfr., fra le tante, con riferimento a diverse leggi regionali, Cass., 31 luglio 2023, n. 23201; Cass., 19 giugno 2023, nn. 17529 e 17436; Cass., 25 maggio 2023, n. 14606; Cass., 8 marzo 2023,
nn. 6966, 6961, 6956, 6943, 6923 e 6903; Cass., 6 marzo 2023, n. 6687).
Quanto precede per addivenire alla conclusione che, nella vicenda in esame, alla base delle istanze di rimborso si collocano assestati profili di incompatibilità del prelievo con l’art. 1, par. 2, della suddetta direttiva di armonizzazione del sistema delle accise, per l’assenza di una « finalità specifica » qualificante il prelievo.
E tuttavia -così pervenendosi al momento nodale della decisione -il gettito è stato procurato alle regioni da una legge dello Stato che non ha riconosciuto alcuna discrezionalità a livello locale, al punto da elidere ogni margine di autonomia finanziaria periferica, e non è stato nemmeno gestito dalle regioni, che hanno svolto un mero ruolo di servizio all’interno di assetti stabiliti dal legislatore statale.
Prova ne è che le procedure e gli atti necessari a fornire attuazione al prelievo (modelli, dichiarazioni di consumo, canali telematici di trasmissione, ecc.) sono stati definiti dall’Agenzia delle Dogane, che, inoltre, è rimasta per legge titolare delle funzioni di accertamento e riscossione coattiva del tributo.
Nessuna competenza è, dunque, residuata alle regioni in ordine alla definizione dello schema di attuazione del tributo, regolato, da ultimo, dall’art. 3 della legge n. 549 del 1995.
Ancora, la destinazione finale del gettito a favore delle regioni non costituisce un elemento sufficiente ad indurre, da un lato, i titolari delle azioni di rimborso a rivolgere l’istanza direttamente all’ente territoriale e, dall’altro, l’Agenzia fiscale ad eccepire il proprio difetto di legittimazione passiva nelle controversie giudiziarie nate dai dinieghi di rimborso del tributo.
Ritenere diversamente significa superare limiti di carattere operativo, oltreché giuridico, dal momento che agli enti territoriali è preclusa la verifica in concreto del presupposto del diritto al rimborso, non avendo tra l’altro avuto mai evidenza (salva
l’eventuale prova processuale) degli effettivi versamenti eseguiti dai sostituti per ciascun contribuente nelle annualità in questione. In altri termini, le regioni, a differenza dell’erario, non hanno e soprattutto non possono acquisire, mediante procedure di accertamento che competono solo a quest’ultimo, contezza dell’intervenuta unitaria corresponsione del tributo, disponendo di mere comunicazioni in forma aggregata sui volumi dell’imposta che ciascun soggetto tenuto al versamento del tributo ha indirizzato, non a caso, in via prioritaria, secondo quanto previsto dalla normazione statale anche di attuazione (decreto del Ministro delle finanze 30 luglio 1996), all’Agenzia delle Dogane: comunicazioni di per sé inidonee verificare se e quali somme siano state versate da parte di chi abbia successivamente azionato il diritto di rimborso.
Sul piano giuridico, l’affermazione della legittimazione passiva dell’Agenzia delle Dogane, in ragione della natura erariale di prelievi normati dal legislatore statale al fine di sostituire le fonti di finanziamento degli enti periferici, tiene specificamente conto del dato normativo (art. 3, comma 13, della legge n. 549 del 1995, che stabilisce che « gli uffici tecnici di finanza effettuano l’accertamento e la liquidazione dell’imposta regionale sulla base di dichiarazioni annuali presentate, con le modalità stabilite dal Ministero delle finanze, dai soggetti obbligati al versamento dell’imposta, entro il 31 gennaio dell’anno successivo a quello cui si riferiscono, e trasmettono alle regioni i dati relativi alla quantità di benzina erogata nei rispettivi territori e che per la riscossione coattiva, gli interessi di mora, il contenzioso e per quanto non disciplinato dai commi da 12 a 14 del presente articolo, si applicano le disposizioni vigenti in materia di accisa sugli oli minerali, comprese quelle per la individuazione dell’organo amministrativo competente; inoltre, le regioni devono segnalare eventuali infrazioni o irregolarità all’organo competente per l’accertamento »). Tale affermazione è ulteriormente avvalorata dalla finalità specifica del prelievo,
identificata nello scopo esclusivo di creare ‘finanza aggiuntiva’ alle regioni, che ne giustifica la qualificazione in termini di « mero trasferimento di risorse dallo Stato agli enti territoriali », secondo la previsione di cui all’art. 119, secondo comma, ultima parte, della Costituzione.
Da ultimo, va valorizzata la circostanza dell’assoluta marginalità delle regioni nell’attuazione del tributo, che induce a configurarne le funzioni – sempre nell’ambito della qualificazione, strettamente statale, dell’imposta e della relativa competenza attuativa – in termini di ‘mera tesoreria’ nel trasferimento di risorse. E d’altro canto, come già detto, il riferimento del citato art. 3, comma 13, della legge n. 549 del 1995 alla competenza dell’Agenzia delle Dogane in ordine ai servizi del contenzioso non può che evocarne sul piano processuale la legittimazione attiva e passiva.
Mette poi conto rilevare che la vicenda che ne occupa è assai prossima a quella decisa da questa Corte, in sede di rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis cod. proc. civ., con riferimento al rimborso di versamenti dell’addizionale provinciale per le accise sull’energia elettrica (istituita dall’art. 6 del decreto-legge n. 511 del 1988 al fine di sopperire alle esigenze finanziarie degli enti territoriali ed abrogata dall’art. 2, comma 6, del decreto legislativo n. 23 del 2011, con decorrenza dal 1° gennaio 2012, per le regioni a statuto ordinario e dall’art. 4, comma 10, del decreto legge n. 16 del 2012, con decorrenza dal 1° aprile 2012, per le regioni a statuto speciale, a seguito di una procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea per violazione della direttiva 118/08). In tale fattispecie, questa Corte ha statuito il seguente principio di diritto: « Spetta in via esclusiva all’Agenzia delle dogane e dei monopoli la legittimazione passiva nelle liti promosse dal cedente della fonte energetica per il rimborso dell’addizionale provinciale sulle accise, di cui all’ abrogato art. 6, del decreto-legge 511/1988,
per forniture di energia elettrica con potenza disponibile non superiore a 200 kW » (Cass., 2 agosto 2024, n. 21883).
Deve, dunque, riconoscersi la legittimazione passiva esclusiva dell’Agenzia delle Dogane nel procedimento amministrativo e di poi nell’azione di rimborso dell’imposta regionale sulla benzina per autotrazione incassata dalle regioni, stante la natura erariale del prelievo, previsto dal legislatore statale al solo fine di sostituire le fonti di finanziamento degli enti territoriali.
In considerazione di quanto esposto, va evidenziata la irrilevanza di eventuali Convenzioni tra regione e Agenzia delle Dogane, in relazione alle quali il Presidente, all’udienza pubblica, ha specificamente richiesto alle parti di interloquire, che, comunque, ove esistenti, non incidono sulla gestione dei rimborsi.
Le suddette argomentazioni superano in radice qualsivoglia questione (introdotta dalla regione Campania) in ordine alla valutazione di ammissibilità dell’istanza di rimborso in riferimento all’obbligo di comunicazione della stessa anche all’Agenzia delle Entrate competente, ex art. 29, comma 4, della legge n. 428 del 1990, dovendosi oltretutto ritenere che nel giudizio di cassazione è precluso rilevare questioni di diritto pur conoscibili d’ufficio implicanti indagini ed accertamenti di fatto non effettuati (come nella specie) dal giudice di merito (Cass., 25 ottobre 2017, n. 25319; Cass., 13 agosto 2018, n. 20712).
In conclusione, pronunciando sul ricorso, la sentenza impugnata va cassata limitatamente alla regione Campania e va dichiarato inammissibile il ricorso originario sempre limitatamente alla regione Campania.
Diversamente, quanto all’Agenzia delle Dogane, risultando agli atti (come visto in apertura) la presentazione dell’istanza di rimborso correttamente (anche) alla medesima, entrambi i motivi di ricorso vanno accolti.
In particolare, rispetto al primo, valgono le considerazioni svolte innanzi, cui per l’effetto è sufficiente ‘tout court’ rinviare.
Rispetto al secondo, in aggiunta a tali considerazioni (con particolare riguardo al riferimento a Corte cost. n. 100 del 2024, cit.), sovviene la neccessità di qualche puntualizzazione.
L’imposta è dovuta al momento della fornitura della benzina al consumatore finale ed il concessionario, il titolare dell’autorizzazione dell’impianto di distribuzione del carburante o, per loro delega, la società petrolifera che sia unica fornitrice dell’impianto, in caso di pagamento indebito, sono gli unici soggetti legittimati a presentare istanza di rimborso all’Amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 29, comma 2, della legge n. 428 del 1990, che recita: « I diritti doganali all’importazione, le imposte di fabbricazione, le imposte di consumo, il sovrapprezzo dello zucchero e i diritti erariali riscossi in applicazione di disposizioni nazionali incompatibili con norme comunitarie sono rimborsati a meno che il relativo onere non sia stato trasferito su altri soggetti, circostanza che non può essere assunta dagli uffici tributari a mezzo di presunzioni ».
Va subito precisato che l’ultimo inciso (« circostanza che non può essere assunta dagli uffici tributari a mezzo di presunzioni ») è stato introdotto, con decorrenza dal 4 marzo 2007, dall’art. 21 della legge n. 13 del 2007. Esso pertanto si applica ‘ratione temporis’ alla presente controversia, anche se, come precisato da questa Corte, la portata innovativa è per vero trascurabile, dovendosi interpretare tale inciso in conformità alla giurisprudenza della Corte di giustizia, che ha indotto il legislatore nazionale ad un intervento di adeguamento (cfr. Cass., 17 dicembre 2024, n. 32982; cfr. anche la relazione della XIV Commissione permanente per le politiche comunitarie).
La Corte di Giustizia ha ripetutamente sottolineato che, in mancanza di una disciplina dell’UE sulle domande di rimborso delle
imposte, spetta a ciascuno Stato membro stabilire i requisiti al ricorrere dei quali tali domande possono essere presentate, purché rispettino i principi di equivalenza e di effettività (CGUE, 27 aprile 2017, causa C-564/15; CGUE, 15 marzo 2007, causa C-35/05; in nome del principio di effettività, ad esempio, se il rimborso risulta impossibile o eccessivamente difficile, l’acquirente del bene è legittimato ad agire per il rimborso direttamente nei confronti delle autorità tributarie, come nel caso di fallimento del venditore: CGUE, 31 maggio 2018, cause C-660 e C-661/16; CGUE, 27 aprile 2017, causa C564/15; in generale, cfr. anche, riguardo all’IVA, CGUE, 15 dicembre 2011, causa C-427/10 e, riguardo alle accise, CGUE, 20 ottobre 2011, causa C-94/10).
Più nel dettaglio, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia:
se esiste una disposizione che prevede una presunzione di traslazione su altri soggetti dei diritti e dei tributi indebitamente riscossi e se la prova contraria di tale presunzione per ottenere il rimborso è a carico del richiedente, la disposizione in questione deve considerarsi contraria al diritto unionale (CGUE 9 febbraio 1999, in causa C-343/96);
un’interpretazione dell’art. 29, comma 2, della legge n. 428 del 1990 che consenta l’utilizzo di presunzioni quale quella per la quale le imposte indirette sono in via di principio trasferite a valle della catena delle vendite da parte degli operatori economici è parimenti contraria al diritto unionale (CGUE 9 dicembre 2003, in causa C-129/00).
Sicché, in buona sostanza, la Corte di Giustizia richiede che la prova della traslazione dell’imposta sia a carico dell’Amministrazione finanziaria e che, al fine di fornirla, questa non possa fare ricorso ad una prova presuntiva generica, fondata sull’ id quod plerumque accidit , ma debba indicare gli elementi specifici e concreti.
Alla giurisprudenza unionale è allineata quella interna.
Questa Corte, sia pure con riferimento alle imposte addizionali sul consumo di energia elettrica, di cui all’art. 6, comma 3, del decreto legge n. 511 del 1988, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 20 del 1989, ha affermato, che le imposte addizionali sul consumo di energia elettrica, alla medesima stregua delle accise, « sono dovute, al momento della fornitura dell’energia elettrica al consumatore finale, dal fornitore, il quale, pertanto, in caso di pagamento indebito, è l’unico soggetto legittimato a presentare istanza di rimborso all’Amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 504 del 1995 e dell’art. 29, co. 2, della l. n. 428 del 1990 » (Cass., 23 ottobre 2019, n. 27099), mentre il consumatore finale, al quale il fornitore abbia addebitato le suddette imposte, può esercitare nei confronti di quest’ultimo l’ordinaria azione di ripetizione dell’indebito e, soltanto nel caso in cui dimostri l’impossibilità o l’eccessiva difficoltà di tale azione (da riferirsi alla situazione in cui si trova il fornitore e non al fatto che il pagamento indebito dell’imposta deriva dalla contrarietà della norma interna alla direttiva n. 118/08), può in via d’eccezione chiedere direttamente il rimborso all’Amministrazione finanziaria (Cass. 24 maggio 2019, n. 14200; conf., fra le tante, Cass., 19 novembre 2019, n. 29980 e Cass. n. 27099 del 2019, cit.). In tal guisa, in coerenza con i principi unionali, il consumatore non viene privato del proprio diritto al rimborso delle somme indebitamente pagate e non si realizza un’ipotesi di indebito arricchimento dell’Amministrazione finanziaria (Cass., 30 gennaio 2024, n. 2733).
Ancora, con riferimento al gas metano, è stato, affermato che « il rapporto tributario inerente al pagamento dell’imposta si svolge solo tra la Amministrazione finanziaria ed i soggetti che forniscono direttamente il gas metano ai consumatori e ad esso è del tutto estraneo l’utente consumatore » (Cass., Sez. U., 25 maggio 2009, n. 11987) e che « il solo soggetto obbligato verso l’Amministrazione
finanziaria è l’ente comunale che immette in consumo il gas e riscuote l’accisa inglobata nel prezzo (è una peculiarità che non incide sulla natura del tributo che resta distinto dal prezzo del gas) » (Cass., Sez. U., 19 marzo 2009, n. 6589).
Con specifico riferimento alla materia delle accise e delle addizionali, questa Corte ha quindi riepilogativamente concluso che: « 1) obbligato al pagamento delle accise nei confronti dell’Amministrazione doganale è unicamente il fornitore; 2) il fornitore può addebitare integralmente le accise pagate al consumatore finale; 3) i rapporti tra fornitore e Amministrazione doganale e fornitore e consumatore finale sono autonomi e non interferiscono tra loro; 4) in ragione della menzionata autonomia, il consumatore finale, anche in caso di addebito del tributo da parte del fornitore, non ha diritto a chiedere direttamente all’Amministrazione finanziaria il rimborso delle accise indebitamente corrisposte; 5) il diritto al rimborso spetta unicamente al fornitore, che può esercitarlo nei confronti dell’Amministrazione finanziaria: a) nel caso in cui non abbia addebitato l’imposta al consumatore finale, entro due anni dalla data del pagamento; b) nel caso in cui il consumatore finale abbia esercitato vittoriosamente nei suoi confronti azione di ripetizione di indebito, entro novanta giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza; 6) nel caso di addebito delle accise al consumatore finale e delle addizionali, quest’ultimo può esercitare l’azione civilistica di ripetizione di indebito direttamente nei confronti del fornitore, salvo chiedere eccezionalmente il rimborso anche nei confronti dell’Amministrazione finanziaria allorquando alleghi che l’azione esperibile nei confronti del fornitore si riveli oltremodo gravosa (come accade, ad esempio, nell’ipotesi di fallimento del fornitore) (da ultimo, Cass. sez.6-5, n. 35830 del 2022 tra le stesse parti) » (Cass., 30 gennaio 2024, n. 2733).
Sempre di recente, questa Corte ha precisato che, « secondo una non recente giurisprudenza di questa Corte, nell’ordinamento non sarebbe dato ravvisare una regola generale secondo cui la traslazione del carico di un tributo costituisca impedimento al rimborso dello stesso, sicché tale impedimento deve essere espressamente previsto dalle singole leggi d’imposta, come è nel caso dei diritti doganali all’importazione, ma non, invece, per l’IVA; ne conseguirebbe che ai fini dell’esercizio del diritto al rimborso da parte del soggetto passivo IVA non assume rilievo l’avvenuta rivalsa dell’imposta sul cessionario, disponendo quest’ultimo, in caso di pagamento di IVA non dovuta in rivalsa, di un’azione di ripetizione nei confronti del cedente »» (Cass., 9 agosto 2023, n. 24220, con richiami di giurisprudenza). Inoltre, questa Corte (nella pronuncia di cui si tratta) ha ricordato che, per costante giurisprudenza, « la prova della traslazione dell’imposta dal contribuente al consumatore finale graverebbe sull’Ufficio quale fatto impeditivo del diritto al rimborso. Tuttavia, questa giurisprudenza si è formata in materia di rimborso di accise, dove la rivalsa sul consumatore non è obbligatoria, ma facoltativa (ex multis Cass., Sez. V, 6 febbraio 2020, n. 2810; Cass., Sez. V, 24 luglio 2019, n. 19975). Le accise sono, difatti, imposte monofase, in cui il tributo è assolto solo dal produttore (Cass., Sez. V, 21 novembre 2008, n. 27627) e colpisce una sola fase del processo produttivo; per queste imposte, la traslazione dell’imposta entra nella componente del corrispettivo civilistico richiesto al consumatore e il suo effettivo esercizio costituisce fatto impeditivo per il diritto al rimborso »: ciò a differenza dell’applicazione della rivalsa nell’IVA, « che, in quanto imposta plurifase, colpisce tutte le fasi del processo produttivo ed è in linea di principio (eccettuati casi specifici, come l’art. 60 e l’art. 18, terzo comma, d.P.R. n. 633/1972) inderogabilmente obbligatoria (art. 18, primo comma, d.P.R. n. 633/1972), con nullità di ogni patto contrario (art. 18,
quarto comma, d.P.R. n. 633/1972). La rivalsa nell’IVA è tendenzialmente estranea alla struttura giuridica del tributo, non concorre a determinare la capacità contributiva del contribuente e opera sul piano civilistico tra prestatore (emittente) e cessionario. L’eventuale mancato esercizio della rivalsa (comportamento anomalo per la struttura dell’imposta) non potrebbe, pertanto, costituire fatto impeditivo al sorgere dell’obbligazione tributaria. Anche nel caso in cui fosse mancato ab origine l’esercizio della rivalsa (in caso di pagamento della prestazione da parte del consumatore finale), ciò sarebbe indifferente per l’ordinamento, rimanendo l’emittente (prestatore) collettore dell’IVA per conto dell’Erario ex art. 193 Dir. 2006/112/CE, salva la riduzione della base imponibile in caso di mancato pagamento (CGUE, 9 febbraio 2023, Euler Hermes, C-482/21, punto 32 )» (Cass., n. 24220 del 2023, cit.).
È stato, dunque, ritenuto conforme al diritto dell’Unione il principio secondo cui, in caso di obbligatorio esercizio della rivalsa sul consumatore finale, il rimborso al prestatore dell’IVA indebitamente applicata si rivelerebbe ingiustificatamente sovracompensativo e comporterebbe esso stesso una violazione della neutralità, alterando la posizione competitiva del contribuente; ma ciò non comporta, peraltro, che il prestatore debba ritenersi indefettibilmente inciso dal costo dell’imposta non dovuta, ben potendo, nel caso in cui abbia restituito l’imposta versatagli in rivalsa, chiedere il rimborso sul presupposto della restituzione della stessa (art. 21, comma 2, del decreto legislativo n. 546 del 1992, art. 30-ter d.P.R. n. 633/1972) (Cass., 9 agosto 2023, n. 24220).
Circa, poi, l’esatta individuazione degli elementi sulla cui base il giudice interno può valutare la sussistenza dell’effettiva traslazione dell’onere economico in favore di terzi, questa Corte ha specificato che occorre conto della pronuncia della Corte di Giustizia 9
dicembre 2003 in causa C-129/00: « In particolare, la Corte di Giustizia ha precisato quali siano i corretti ambiti di applicazione della disciplina nazionale interna di cui all’art. 29 della legge n. 408/1990, al fine di renderla coerente con i principi di equivalenza e di effettività propri dell’ordinamento comunitario. In questo contesto, rilevante è quanto dalla stessa precisato (par. 39 e 40), per quanto riguarda la questione della valenza probatoria della mancata contabilizzazione del tributo come credito all’attivo nel bilancio dell’impresa che ne chiede il rimborso. Sul punto, ha affermato che: riconoscere la suddetta valenza probatoria «porta ad istituire un’ingiustificata presunzione a danno del ricorrente. Tenuto conto delle condizioni alle quali interviene una domanda di rimborso del tributo, infatti, iscrivere l’importo di tale tributo tra le voci attive del bilancio a partire dall’anno del suo versamento presuppone che il soggetto passivo ritenga fin da subito di poter contestare, con buone probabilità di successo, il suo pagamento, mentre, ai sensi dello stesso art. 29, primo comma, della legge n. 428/1990, egli dispone di un termine di diversi anni per proporre tale domanda. Il soggetto passivo, inoltre, anche se contesta il pagamento del tributo, può benissimo ritenere che le sue probabilità di successo non siano tanto certe da fargli assumere il rischio di contabilizzare l’importo corrispondente tra le voci attive del bilancio. A tale riguardo, tenuto conto delle difficoltà nell’ottenere una risposta favorevole ad una domanda di rimborso alle condizioni esposte in questa causa, tale iscrizione potrebbe anche rivelarsi in contrasto con i principi di una contabilità regolare. Per di più, la considerazione che la traslazione del tributo su terzi è dimostrata perché il suo importo non è stato riportato come credito nell’attivo di bilancio si fonda già sulla presunzione che le imposte indirette siano normalmente trasferite a valle della catena delle vendite, presunzione dichiarata in contrasto con il diritto comunitario nell’ambito dell’analisi del primo aspetto
criticato dalla Commissione » (Cass., 26 ottobre 2022, n. 31679). In sostanza, come è stato già detto, « la Corte di Giustizia ha escluso che la verifica dell’effettuazione della traslazione dell’onere economico su terzi possa fondarsi unicamente sulla circostanza che la società non ha provveduto a iscrivere in bilancio, come credito, l’avvenuto pagamento dell’imposta, essendo, quindi, necessario che l’assolvimento dell’onere della prova in esame da parte dell’amministrazione doganale si fondi su altri e ulteriori elementi presuntivi, dotati di precisione, gravità e concordanza, come postulati dall’art. 2729 cod. civ. » (Cass., 24 luglio 2019, nn. 19975 e 19976). Tale impostazione, che nega in radice la circostanza che il riferimento ai bilanci possa costituire un sufficiente elemento presuntivo della traslazione dell’imposta, ha peraltro subito un temperamento ad opera di un orientamento (Cass., 6 febbraio 2020, n. 2810) che ammette l’utilizzo presuntivo del bilancio, sia pure a certe condizioni: invero, deve evincersi chiaramente dal documento contabile della società che dei relativi esborsi l’imprenditore abbia tenuto conto nella determinazione del prezzo finale praticato all’utente inciso (o contribuente di fatto); se, quindi, le accise siano inserite nella specifica voce B6 del bilancio civilistico, è verosimile ipotizzare che della imposta si sia tenuto conto nella determinazione del prezzo, trattandosi di costi di produzione. Tale inserimento sarebbe, dunque, idoneo a giustificare l’avvenuta traslazione dell’imposta. Se, da un lato, è vero che l’inserimento delle imposte di consumo (nella specie accise) tra i costi non significa necessariamente che delle stesse si sia tenuto conto ai fini della determinazione del prezzo, dall’altro, negare la valenza indiziaria ad una collocazione a bilancio così specifica e significativa renderebbe la prova demandata all’Agenzia delle Dogane eccessivamente difficile: prova che tuttavia è e resta a carico dell’Agenzia; occorre allora verificare in concreto in quale voce del bilancio il costo sia stato collocato, perché se tale
collocazione è avvenuta tra i costi di produzione, l’elemento indiziario diventa altamente significativo e tale da assurgere a prova ai sensi dell’art. 2729 c.c. (cfr. Cass., 17 dicembre 2024, n. 32982).
Ciò posto, sulla premessa, come più volte ricordato, che l’IRBA è dovuta dai soggetti concessionari al momento della vendita della benzina ai consumatori finali, il che equivale a dire che l’imposta è dovuta dai soggetti che forniscono direttamente il prodotto ai consumatori, di guisa che soggetto passivo dell’imposta è il fornitore del prodotto, mentre l’onere corrispondente all’imposta è traslato sul consumatore in virtù di un fenomeno meramente economico, ne deriva che il rapporto tributario inerente al pagamento dell’imposta si svolge soltanto tra l’Amministrazione finanziaria ed i soggetti che forniscono direttamente i prodotti, essendo ad esso estraneo l’utente o consumatore. Come è stato efficacemente rilevato, « i due rapporti, quello fra fornitore ed Amministrazione finanziaria e quello fra fornitore e consumatore, si pongono quindi su due piani diversi: il primo ha rilievo tributario, il secondo civilistico » (cfr. Cass., 30 gennaio 2024, n. 2733 giurisprudenza ivi richiamata).
Sotto questo aspetto, tornando al caso di specie, la tesi dell’Agenzia delle Dogane (per quanto di residuo interesse) avrebbe potuto trovare riscontro nell’originaria formulazione dell’IRBA, alla luce di una legge delega che, in effetti, configurava il consumatore finale come soggetto passivo; ma, in seguito alla riforma del quadro normativo operata con l’art. 3, comma 13, della legge n. 549 del 1995, i caratteri fondamentali del tributo sotto il profilo soggettivo sono radicalmente mutati: e la regione Campania, come pure visto, si è adeguata alla riforma del 1995 (cfr. Cass., 1 giugno 2023, n. 15522 e già Cass., 19 aprile 2017, n. 9874); con la conseguenza che il concessionario, previsto in sede di delega come un mero riscossore, è diventato egli soggetto passivo, mentre il
consumatore è divenuto soggetto sui cui l’imposta viene traslata solo economicamente.
Inoltre, in applicazione dell’art. 29, comma 2, della legge n. 428 del 1990, è l’Amministrazione finanziaria che deve provare l’avvenuta traslazione del tributo, conformemente ai principi suesposti, secondo cui l’avvenuta traslazione dell’imposta integra un fatto impeditivo del diritto al rimborso, in un quadro, quale quello dell’IRBA, in cui non sussiste un obbligo legale di rivalsa (come invece nell’IVA): donde il corollario che il rigetto della richiesta di rimborso dell’IRBA tributo ritenuto incompatibile con il diritto dell’UE presuppone il concreto accertamento dell’avvenuta traslazione ad altri soggetti ‘a valle’, oltreché, per vero, dell’esistenza di un effettivo arricchimento che l’operatore conseguirebbe per effetto del rimborso stesso (cfr. Cass., 26 ottobre 2022, n. 31679; Cass. 24 luglio 2019, n. 19976; Cass., 1° ottobre 2015, n. 19681): ciò che, per quanto detto, non scalfisce il principio, pure affermato e condiviso da questa Corte, secondo cui « nelle liti di rimborso, sia in tema di imposte dirette, che in tema di IVA, il contribuente che impugni il rigetto dell’istanza riveste la qualità di attore in senso sostanziale, con la conseguenza che grava su di lui l’onere di allegare e provare gli elementi costitutivi della pretesa » (cfr. per tutte Cass.,14 dicembre 2023, n. 35042).
In definitiva, l’Amministrazione finanziaria, per escludere il diritto al rimborso, ha l’onere di dimostrare sia la traslazione su altri (nella specie, il consumatore finale) dell’onere economico costituito dal tributo, sia l’arricchimento determinato dal rimborso in capo al richiedente: elementi che costituiscono entrambi, non già fatti costitutivi dello stesso diritto al rimborso, bensì fatti impeditivi al suo riconoscimento, così da dover essere provati, in positivo, dall’ente impositore.
Né vale opporre che la traslazione economica dell’imposta si è verificata per via della struttura normativa dell’IRBA, comportante
una traslazione automatica sul consumatore finale, sicché l’imposta era inclusa nel prezzo di vendita al dettaglio della benzina: ciò stante, da un lato, l’assenza di un meccanismo di rivalsa obbligatorio e, dall’altro, il fatto che comunque la traslazione dell’imposta non comporta automaticamente l’arricchimento del soggetto che chiede e ottiene il rimborso.
In proposito, la Corte di Giustizia ha affermato che « anche quando è provato che l’onere dell’imposta indebitamente riscossa è stato parzialmente o totalmente ripercosso sui terzi, il rimborso di questa all’operatore non gli procura necessariamente un arricchimento senza causa (v. sentenze Comateb e a., cit., punto 29, e 21 settembre 2000, cause riunite C-441/98 e C-442/98, Michailidis, Racc. pag. 1-7145, punto 34). Infatti, anche qualora l’imposta sia completamente inserita nel prezzo praticato, il soggetto passivo potrebbe subire un danno dovuto ad una diminuzione di volume delle sue vendite (v. cit. sentenze Comateb e a., punto 29, e Michailidis, punto 35). Pertanto, l’esistenza e la misura dell’arricchimento senza causa che il rimborso di un tributo indebitamente riscosso con riguardo al diritto comunitario causerebbe per un soggetto passivo potranno essere stabiliti soltanto al termine di un’analisi economica che tenga conto di tutte le circostanze pertinenti. Di conseguenza, il diritto comunitario osta a che uno Stato membro neghi di rimborsare a un operatore un’imposta riscossa in violazione del diritto comunitario solo perché questa è stata inserita nel prezzo di vendita al dettaglio praticato da detto operatore e, pertanto, trasferita su terzi, il che implicherebbe necessariamente che il rimborso dell’imposta causerebbe un arricchimento senza causa dell’operatore» e ha concluso che affermando che «le norme del diritto comunitario relative alla ripetizione dell’indebito devono essere interpretate nel senso che esse ostano a una normativa nazionale che rifiuti – il che tocca al giudice nazionale verificare – il rimborso di un’imposta
incompatibile con il diritto comunitario solo perché questa è stata trasferita sui terzi, senza esigere che sia stabilita la misura dell’arricchimento senza causa che causerebbe per l’operatore il rimborso di detta imposta » (Corte Giustizia UE, 2 ottobre 2003, causa C-147/2001 ). Recentemente, (persino) in tema di IVA, la Corte di Giustizia ha ribadito che l’assenza di perdita o di svantaggio finanziari non è necessariamente il corollario della traslazione integrale dell’IVA sul consumatore finale in quanto, anche in tale ipotesi, l’operatore economico può aver subito una perdita economica connessa alla diminuzione del volume delle sue vendite (CGUE, 21 marzo 2024, causa C-606/22, che richiama CGUE, del 10 aprile 2008, causa C-309/06).
La sentenza impugnata, palesemente, a fronte dei pacifici (perché in sé non contestati) versamenti dell’IRBA da parte della contribuente, non si attiene ai superiori principi.
Ne consegue che, quanto -ripretesi -all’Agenzia delle Dogane, la sentenza impugnata va cassata.
Peraltro, non si rendono necessari ulteriori accertamenti di merito, posto che né l’Agenzia delle Dogane né, per quanto occorrer possa, la regione Campania offrono, e dimostrano di aver offerto nei gradi di merito, la prova incombente sull’Amministrazione finanziaria ai sensi delle fonti unionali, siccome ossequiate dalla giurisprudenza di questa Corte.
La quale, pertanto, è abilitata a decidere la causa nel merito, con accoglimento del ricorso originario della contribuente.
Infine, sussistono i presupposti, in considerazione dell’evoluzione normativa ed interpretativa di cui si è dato conto, nonché della complessità della materia trattata, per integralmente compensare tra tutte le parti le spese sia dei giudizi di merito che del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte,
-quanto alla posizione relativa alla regione Campania, pronunciando sul ricorso, cassa senza rinvio la sentenza impugnata e dichiara inammissibile il ricorso introduttivo della lite;
-quanto alla posizione dell’Agenzia delle Dogane, accoglie il ricorso; per l’effetto, cassa la sentenza impugnata e, decidendo la causa nel merito, accoglie l’originario ricorso della contribuente.
Compensa integralmente tra tutte le parti le spese di tutti i gradi di giudizio.
Così deciso a Roma, lì 14 gennaio 2025.