Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 21656 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 21656 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 01/08/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 19586/2023 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE IFIS SPA, elettivamente domiciliati in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALECODICE_FISCALE che li rappresenta e difende
ricorrenti- contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (P_IVAP_IVA che la rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM. TRIBUTARIA II GRADO della CAMPANIA-NAPOLI n. 3037/2023 depositata il 09/05/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 04/07/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
Considerato che:
1. Dalla sentenza in epigrafe si apprende, in punto di fatto, che:
la RAGIONE_SOCIALE IFIS S.p.A. quale cessionaria del credito IVA e il RAGIONE_SOCIALE (“TLT”) quale cedente il credito IVA, proponevano alla CTP di Napoli ricorso avverso il provvedimento di diniego del rimborso IVA n. NUMERO_DOCUMENTO notificato il 31 maggio 2021 per l’importo di 96.660,00 euro, relativo alla dichiarazione IVA del 2020 per l’anno 2019, e ne chiedevano l’annullamento per decadenza del potere accertativo dell’RAGIONE_SOCIALE, trattandosi di crediti relativi agli anni dal 2005 al 2008, per violazione degli articoli 19, 30 e 38-bis D.P.R. n. 633/1972 e per infondatezza del diniego. Si costituiva l’RAGIONE_SOCIALE chiedendo il rigetto del ricorso, in quanto, sulla base degli elementi raccolti, l’Ufficio aveva riscontrato l’inattendibilità della contabilità e RAGIONE_SOCIALE dichiarazioni IVA, per cui non era ricavabile alcuna eccedenza d’imposta da rimborsare.
La CTP di Napoli, con sentenza n. 2424/2/2022, rigettava il ricorso applicando il principio oramai consolidato in giurisprudenza per il quale la decadenza dal potere di accertamento riguarda le sole imposte dovute e non anche i crediti vantati dal contribuente . Superata la questione della pretesa decadenza del potere accertativo, la CTP riteneva nel merito corretta la decisione dell’Ufficio di denegare il rimborso, non avendo il contribuente fornito idonea documentazione a provare i crediti vantati, né tale da giustificare diverse incongruenze relative a pagamenti non dimostrati e/o dichiarazioni IVA omesse.
Proponevano appello i contribuenti, rigettato dalla CGT II della Campania con la sentenza in epigrafe sulla base della seguente motivazione:
Preliminarmente, in relazione alla pretesa decadenza del potere impositivo per “avvenuta cristallizzazione del credito”, questa Corte non ritiene sussistenti i presupporti per sollevare la questione di legittimità costituzionale e per un rinvio pregiudiziale alla CGUE, alla luce del costante orientamento di legittimità (cfr: Cass. SS. UU. n. 8500/2021; Cass. SS.UU. 21765/2021; Cass. n. 9559/2022) . L’inerzia
dell’Amministrazione non può legittimamente valere come riconoscimento implicito della spettanza di un credito mai esistito, configurandosi altrimenti un’aperta violazione dei principi di riserva di legge (art. 23 Cost.), capacità contributiva (art. 53 Cast.) e di imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.). Per l’effetto, il contribuente che richiede il rimborso del credito dopo anni dalla sua maturazione, come nel caso oggetto RAGIONE_SOCIALE pronunce in oggetto, ha l’onere di conservare i documenti giustificativi dello stesso, assumendosene la responsabilità in termini probatori .
Al riguardo, risulta anche destituita di fondamento l’interpretazione prospettata dal contribuente, di una “terza via” tale per cui le Sezioni Unite, in presenza di un credito chiesto a rimborso, distinguerebbero I’IVA a debito sulle operazioni attive in ipotesi evasa da quella a credito sulle operazioni passive detratta, per giungere alla conclusione che l’Ufficio, in presenza di un credito chiesto a rimborso, deve comunque accertare I’IVA sulle operazioni “attive” nei limiti temporali previsti dall’art. 57, co. 1, d.p.r. n. 633/1972. In altri termini, a parere del contribuente, la Corte di Cassazione limiterebbe la portata preclusiva dell’azione di accertamento dell’amministrazione finanziaria alla sola componente “a debito” (IVA sulle vendite) dell’eccedenza chiesta a rimborso e non anche alla componente “a credito” (IVA sugli acquisti). Tale interpretazione, tuttavia, non trova riscontro dalla lettura della sentenza Cass. SS.UU. 21765/2021 .
Tanto precisato, risulta corretta, e condivisa da questa Corte, la decisione dei giudici di prime cure di ritenere che il credito IVA chiesto a rimborso dalla contribuente non fosse “cristallizzato” e che non fossero decorsi i termini decadenziali invocati dalla ricorrente e che pertanto, superata l’eccezione della decadenza del potere accertativo, fosse necessario verificare la sussistenza dei presupposti per il rimborso, seguendo le regole ordinarie per le quali il contribuente che intenda far valere la propria pretesa al rimborso deve assumersene l’onere probatorio (cfr: Cass. n. 1906/2020 e n. 23862/2020).
Al riguardo, risulta acclarato che per quanto attiene agli anni di imposta 2005 e 2006, la curatela ha consegnato i registri IVA di acquisto e vendite, ma non ha consegnato le fatture di acquisto, neanche a campione, le quali sono titolo per la detrazione dell’imposta. Di conseguenza l’eccedenza d’imposta paria ad € 21.221,00 (6.972,00 + 14.249,00) – non può essere riconosciuta perché non è suffragata dagli elementi costitutivi (cfr. Cass. SS.UU. n. 5069/2016; Cass. n.12291/2018; Cass. n. 23042/2015).
In relazione all’anno di imposta 2007, il modello IVA presentato indica IVA a debito pari ad € 371.432,00 ed IVA detraibile pari ad € 432.669,00; la differenza è pari ad € 61.237,00 (432.669,00 -371.432,00), ed è l’imposta a credito dichiarata nel periodo. L’Ufficio ha provato che i dati dichiarati non trovano alcun riscontro con quelli indicati sulle liquidazioni IVA presentate, ed in particolare che la liquidazione IVA annuale indica che al termine del periodo d’imposta 2007 la Società ha registrato un debito IVA pari ad € 2.586,23. Di conseguenza, il credito del periodo 2007, benché sia stato dichiarato nel modello IVA, non è suffragato da alcuna evidenza contabile, la quale dimostra al contrario un debito IVA. Di conseguenza, il credito indicato dalla Società nella dichiarazione IVA dell’anno d’imposta 2007 pari ad € 61.237,00 – non può essere riconosciuto in quanto non sussiste.
Per quanto attiene all’anno di imposta 2008, la RAGIONE_SOCIALE ha presentato il modello del periodo d’imposta 2008 che espone l’importo di € 112.455,00 quale IVA a debito (sulle vendite) e l’importo di € 230.774,00 quale IVA detratta (sugli acquisti). La differenza è pari ad € 118.319,00 (230.774,00 -112.455,00), ed è l’imposta a credito dichiarata nel periodo. Nel corso del controllo sull’esistenza del credito, è emersa l’inattendibilità della contabilità e della dichiarazione IVA sulla base RAGIONE_SOCIALE seguenti evidenze: le prestazioni svolte a favore del cliente RAGIONE_SOCIALE (c. f. P_IVA) sono state fatturate con il meccanismo del reverse charge in assenza di documentazione giustificativa (contratto tra le parti) del trattamento fiscale speciale invocato. L’applicazione del regime del reverse charge ha comportato che l’IVA sulle prestazioni effettuate (IVA sulle vendite) non è stata computata (c.d. IVA a debito) nella contabilità dell’emittente le fatture (RAGIONE_SOCIALE). Al fine di riscontrare la legittimità del trattamento fiscale adottato, è stata chiesta copia del contratto, il quale non è stato consegnato, “in quanto la procedura fallimentare non ne è mai entrata in possesso essendo documentazione risalente al 2007 o prima”. Dal registro IVA è emerso che il totale RAGIONE_SOCIALE fatture emesse nei confronti di RAGIONE_SOCIALE nel 2008 è pari ad € 188.458,71: di conseguenza, non sono state indicate nella dichiarazione IVA maggiori operazioni imponibili ex articolo 21 del Dpr 633/72 per € 188.458,71 scaturenti dalla documentazione contabile e riconducibili all’attività d’impresa. L’IVA a debito illegittimamente estromessa dalla liquidazione dell’anno è pari ad € 37.691,74 (188.458,7120%). La fattura di acquisto n. 4 del 15.01.2008 emessa da RAGIONE_SOCIALE (P_IVA.F. P_IVA*) per €
25.273,24 oltre Iva di € 5.054,65 non è stata pagata dalla Società (non v’è quietanza di pagamento), e l’emittente ha omesso la dichiarazione IVA. L’imposta, pertanto, non è mai stata pagata dalla Società, né è mai pervenuta all’erario, né sussiste il diritto al rimborso. Le fatture di acquisto emesse dal fornitore RAGIONE_SOCIALE (c.f. 01661271203) sono state registrate sul registro degli acquisti per € 28.863,98 oltre IVA di €. 5.772,79. È emerso che il fornitore non è stato pagato dalla Società (non v’è quietanza di pagamento), ed ha omesso la dichiarazione IVA. Anche in questo caso, l’imposta non è mai stata pagata dalla Società, né è mai pervenuta all’erario, né sussiste il diritto al rimborso. Gli acquisti che sono stati svolti in regime di reverse charge andrebbero registrati sia sul registro degli acquisti (per detrarre l’IVA) che su quello RAGIONE_SOCIALE vendite (per contabilizzare l’IVA a debito). La correttezza della procedura seguita dall’Ufficio, a parere della Corte, è provata dal riconoscimento della doglianza del contribuente già in sede di richiesta di annullamento in autotutela del diniego in relazione alla fattura n. 81 del 31/10/2008 emessa da RAGIONE_SOCIALE pari ad € 20.000,00 oltre IVA di € 4.000,00 (emessa anch’essa in regime di reverse charge), registrata sia sul registro degli acquisti che su quello RAGIONE_SOCIALE vendite (e non solo su quello degli acquisti, come sostenuto nel provvedimento). Di conseguenza, l’IVA a debito (meccanismo reverse charge) risulta correttamente liquidata da RAGIONE_SOCIALE, da cui il venire meno della contestazione dell’ufficio (€ 4.000,00). Tali prospettazioni della parte appellata, già dedotte e provate nel corso del primo grado di giudizio, sono state correttamente scrutinate dai primi giudici, i quali hanno correttamente valutato gli elementi probatori per cui in questa sede non emergono nuovi elementi tali da controvertere la decisione di primo grado.
Propongono ricorso per cassazione i contribuenti con quattro motivi; resiste l’RAGIONE_SOCIALE con controricorso. In data 17 giugno 2024, i contribuenti depositano estesa memoria telematica, mediante la quale ulteriormente illustrano le proprie ragioni, anche in chiave confutatoria RAGIONE_SOCIALE tesi sostenute dall’RAGIONE_SOCIALE in controricorso.
Rilevato che:
Il terzo motivo assume valenza prioritaria per il carattere processuale della censura.
Con tale motivo si denuncia: ‘Nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., ‘sub specie’ di vizio di extrapetizione e/o ultrapetizione, in ordine alla contestazione del credito IVA per l’anno 2007 (art. 360, c. I, n. 4 c.p.c.). Nullità della sentenza per omessa pronuncia (art. 360, c. I, n. 4 c.p.c.). Nullità della sentenza per motivazione apparente (art. 360, c. I, n. 4 c.p.c.)’.
2.1. Il motivo è così sintetizzato in ricorso:
I giudici di appello, affermando, in relazione al credito IVA 2007, che «l’Ufficio ha provato che i dati dichiarati non trovano alcun riscontro con quelli indicati sulle liquidazioni IVA presentate», si sono pronunciati su un tema del tutto estraneo al ‘thema decidedum’ per l’anno 2007, come determinatosi a seguito RAGIONE_SOCIALE deduzioni RAGIONE_SOCIALE parti, in particolare l’appello della Società e le controdeduzioni in appello dell’Ufficio, con le quali quest’ultimo aveva riconosciuto la riconciliazione esposta dalla TLT nel ricorso di primo grado, dalla quale risulta un credito IVA 2007 di € «58.651,02» (che invece il Provvedimento di Diniego disconosceva tout court per mancanza di riscontro tra la dichiarazione IVA e le liquidazioni periodiche), salvo poi contestare talune analitiche ‘riduzioni’ dello stesso, che comunque non lo azzeravano, avendo l’Ufficio riconosciuto un credito residuo di «€ 18.779,84».
I giudici di appello sono altresì incorsi nel vizio di omessa pronuncia sul vero ‘thema decidendum’ della controversia in appello, che riguardava non già la correttezza della riconciliazione tra dichiarazione e liquidazione illustrata dalla TLT in corso di giudizio, dalla quale scaturiva un credito IVA di € «58.651,02» che è stato riconosciuto dall’Ufficio, quanto piuttosto la detraibilità dell’IVA su talune fatture passive non pagate e il decorso del termine di accertamento della maggiore IVA su alcune fatture attive.
Infine, sotto un ulteriore profilo, l’affermazione dei giudici di appello, secondo cui l’Ufficio avrebbe provato che i dati dichiarati non trovano riscontro con quelli RAGIONE_SOCIALE liquidazioni, costituisce una mera petizione di principio del tutto avulsa dalle risultanze di causa, che ridonda nel vizio di motivazione apparente. Il giudice di appello non ha illustrato in alcun modo il fondamento di tale conclusione. Invero, tale assunto risulta del tutto apodittico e arbitrario avendo l’ARAGIONE_SOCIALE, in sede di controdeduzioni in appello (così come in sede di controdeduzioni in primo grado), abbandonando la contestazione originaria relativa al disconoscimento tout
court del credito IVA dichiarato per l’anno 2007 per asserita mancanza di riscontro tra la dichiarazione Iva e le liquidazioni periodiche, per riconoscere il credito IVA di € «58.651,02», salvo poi contestare analiticamente la deducibilità dell’IVA afferente a talune fatture passive e opporre in ‘compensazione’ una maggiore IVA su determinate operazioni attive assoggettate a IVA con il sistema dell’inversione contabile.
2.2. Il motivo è in parte inammissibile ed in parte manifestamente infondato.
Esso è inammissibile nella parte in cui -di per sé, attraverso la solo parziale riproduzione del ricorso introduttivo del giudizio, reiterando la tesi in fatto (a dispetto della natura di legittimità del giudizio di cassazione) secondo cui ‘il credito indicato nella dichiarazione IVA dell’anno d’imposta 2007 (pari ad euro 61.237,00) troverebbe riscontro quasi integrale (per euro 58.651,02) con i dati indicati nelle liquidazioni IVA presentate’, come sarebbe possibile evincere dal non descritto ‘allegato n. 16’ al ricorso di primo grado in ragione di genericamente asseriti ‘acquisti effettuati in reverse charge nel mese di maggio 2007’ sostiene apoditticamente che ‘con le controdeduzioni in prim cur (doc. 7)’ controdeduzioni non riprodotte quantomeno nella parte rilevante, ciò che è tanto più determinante perché poco oltre (p. 55 ric.), come subito si vedrà, il riferimento cade invece sulle ‘controdeduzioni in appello’ ‘l’Ufficio abbandonato implicitamente ma inequivocabilmente -la contestazione relativa alla originaria asserita mancanza di riscontro tra il credito indicato in dichiarazione e le liquidazioni periodiche, per contestare invece la legittimità della detrazione dell’IVA di specifiche fatture passive nonché la maggiore IVA su talune fatture attive, con la conseguenza che il credito IVA non rimborsabile si riduceva -a suo dire -a € 42.457,18, dagli originari € 61.237,00 richiesti a rimborso ‘.
Ciò detto per le ‘controdeduzioni in prim cur’, non diverso discorso è a farsi per quelle ‘in appello’, rispetto alle quale
il motivo si limita a sostenere che, ‘con le controdeduzioni in appello (doc. 10), l’Ufficio ha ribadito la linea RAGIONE_SOCIALE controdeduzioni in prim cur, vale a dire che il credito IVA disconosciuto per l’anno 2007 ammonta a € 42.457,18 ‘, salvo aggiungere che alla stregua di esse ‘l’Ufficio medesimo ha riconosciuto -implicitamente ma inequivocabilmente -la correttezza della riconciliazione tra il credito indicato in dichiarazione IVA e liquidazioni periodiche illustrata dalla TLT in prim cur, da cui risultava il credito IVA di «58.651,02», con la conseguenza che detta riconciliazione era ormai estranea al ‘thema decidendum’, in quanto pacifica’ (p. 55 cit.).
In tal guisa il motivo pretenderebbe di aver ricostruito il ‘thema decidendum’, senza tuttavia considerare che, come correttamente osservato dall’RAGIONE_SOCIALE nel controricorso, questo si definisce (non tanto in relazione alle motivazioni del diniego di rimborso, ma) in relazione alle domande formulate nel ricorso introduttivo, da ragguagliarsi ai documenti prodotti e di poi da rapportarsi sia alle difese dalla parte avversa esperite, specularmente, in sede di controdeduzioni sia alle rispettive posizioni RAGIONE_SOCIALE parti in grado d’appello: atti tutti di cui, tuttavia, il motivo omette congrue riproduzioni.
Ne consegue che il motivo non restituisce alcuna evidenza del preteso mutamento di prospettiva da parte dell’amministrazione, oltretutto avente caratteristiche tali da aver plasmato il ‘thema decidendum’ in guise non colte, in violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., dalla CGT II.
Quanto precede di per se stesso vota all’inammissibilità, come anticipato, le censure formulate ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ.
Censure che d’altro canto non avrebbero comunque alcun fondamento, giacché la CGT II, avendo ritenuto ‘a monte’, come si vedrà in rapporto al primo ed al secondo motivo, che il mancato esercizio del potere di accertamento in termini da parte
dell’amministrazione non comporta alcuna cristallizzazione dei crediti, incombendo a chi agisce per il rimborso di fornire la prova documentale del credito, e soggiunto ‘a valle’, in rapporto all’anno 2007 di cui ‘funditus’ nel presente motivo si discute, che la liquidazione IVA annuale registra un debito e non un credito IVA, ha fornito adeguata e congrua risposta alla domanda di giustizia avanzata dai contribuenti, riguardante la richiesta di rimborso e con essa la documentata affermazione (nella specie secondo la CGT II insussistente per l’evidenza contraria della dichiarazione IVA annuale) dei relativi presupposti.
Quanto detto sin qui rende conto del travolgimento altresì dell’ultima parte del motivo, volta a denunciare il vizio di apparenza motivazionale.
Premessa l’erronea evocazione del paradigma censorio, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, anziché n. 5, cod. proc. civ., di per se stessa rilevante in funzione dell’inammissibilità della censura per la preclusione derivante, in ordine a denunce ex n. 5, dalla cd. doppia conforme di merito, il motivo pretermette totalmente l’ampia ed esaustiva motivazione della sentenza impugnata, mirando piuttosto a svolgere una critica (oltretutto, come visto, sostanzialmente vertita in fatto) all’effettivo e logico sviluppo motivazionale esibito dalla sentenza impugnata.
Donde è da escludersi la sussistenza di un vizio avente le caratteristiche codificate dalla giurisprudenza di questa S.C. (Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 62983001) per rilevare quale ‘sub specie’ della mera apparenza, e quindi della sostanziale inesistenza della motivazione.
Può ora procedersi alla disamina degli altri motivi di ricorso.
Con il primo motivo si denuncia: ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 57, commi 1 e 3, del d.p.r. n. 633/1972 in combinato disposto con gli artt. 3, 24, 41, 53, 97 e 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 6 della CEDU, oltre che con i
principi di proporzionalità e ragionevolezza (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.)’.
4.1. Il motivo è così sintetizzato in ricorso:
Il presente motivo di ricorso, censurando la sentenza di appello laddove ha negato la ‘cristallizzazione’ dei crediti IVA per decorso del termine di decadenza dell’accertamento, è diretto a criticare l’orientamento RAGIONE_SOCIALE Sezioni Unite (n. 21765 e 21766 del 2021) evidenziandone le lacune, le incongruenze, i profili di illegittimità costituzionale e i profili di incompatibilità con il diritto dell’UE, sostenendo la necessità di riconoscere l’applicazione del termine di decadenza previsto dall’art. 57, commi 1 e 3, del d.p.r. n. 633/1973 anche ai crediti IVA. Per l’ipotesi in cui Codesta ecc.ma Corte non dovesse accogliere l’interpretazione costituzionalmente orientata proposta, si chiede che venga sollevata sia una questione di legittimità costituzionale, sia una questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del TFUE’.
4.2. Il motivo è manifestamente infondato.
Non ravvisa il Collegio alcuna ragione per discostarsi dall’insegnamento, ormai consolidato, di Sez. U, n. 21766 del 29/07/2021, Rv. 66222801, secondo cui, ‘i n tema di rimborso dell’eccedenza detraibile dell’IVA, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione, che non derivi dalla sottostima dell’imposta dovuta, anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento o per la rettifica dell’imponibile e dell’imposta dovuta, senza che abbia adottato alcun provvedimento’.
Tale insegnamento è ampiamente ricevuto dalla giurisprudenza successiva (cfr., tra le sole pronunce massimate, Sez. 5, n. 26523 del 14/09/2023, Rv. 668901-01; Sez. 5, n. 11698 del 11/04/2022, Rv. 664354-01).
Esso, già maturato in precedenza (Sez. 5, n. 3096 del 01/02/2019, Rv. 652635-01), porta a compimento il principio un lustro addietro enunciato da Sez. U, n. 5069 del 15/03/2016, Rv. 639014-01 , secondo cui, ‘in tema di rimborso d’imposte, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal
contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio ‘quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum”.
Tutte le critiche dal motivo (e di poi dalla memoria) rivolte a Sez. U, n. 21766 del 2021 -peraltro limitandosi per ampi tratti a richiamare la relativa ordinanza di rimessione -trovano ampio, logico ed esauriente svolgimento nella lucida e coerente motivazione di detta sentenza, alla quale conseguentemente non resta che fare espresso rinvio.
In questa sede, mette soltanto conto di aggiungere, sinteticamente, che dette critiche pretermettono uno dei passaggi cardinali del percorso argomentativo di Sez. U, n. 21766 del 2021, di cui al par. 8.1: ‘Né risulta minato il principio di certezza del diritto sul quale si fa leva a sostegno della tesi contraria. È il contribuente, che decide di chiedere il rimborso di un credito a distanza di anni dalla maturazione del diritto relativo, a scegliere, riportandolo a nuovo, di assegnare ad esso rilevanza, appunto ex novo, in ciascuna RAGIONE_SOCIALE dichiarazioni successive in cui lo espone ‘. È alla luce di tale asserto che si giustifica la progressione logica di cui al par. 8.2, secondo cui ‘il principio di certezza del diritto è allora rispettato, perché la situazione fiscale del contribuente non è posta indefinitamente in discussione: la parte dilaziona nel tempo l’istanza di rimborso, preferendo il riporto a nuovo; la scelta conforma anche l’onere di conservazione RAGIONE_SOCIALE scritture contabili e dei documenti giustificativi del credito (si veda Cass. n. 8500/21, cit.); e comunque il silenzio rifiuto opposto all’istanza è impugnabile e apre all’accertamento giudiziale e alla conseguente definizione del rapporto (quanto alla valenza della giurisprudenza costituzionale su cui parte contribuente insiste,
basti il richiamo alle considerazioni esposte sub § 4.7 di Cass. n. 8500/21, cit.)’.
Ora, alla stregua di una lettura necessariamente unitaria dei due paragrafi, come reso necessario anche graficamente dalla sottopartizione (‘.1’ e ‘.2’), emerge chiaramente che è la scelta del contribuente a necessariamente condizionare la tempistica del procedimento, di guisa che è sul contribuente che gravano i relativi oneri, senza che il medesimo possa pretendere di avvantaggiarsi della scelta di chiedere il rimborso di un credito a distanza di anni dalla maturazione del diritto relativo assumendo, per ciò solo, con conseguenze potenzialmente pregiudizievoli per l’Erario, di veder ‘cristallizzato’ una volta per tutte il suo credito. Invero come spiegato poco prima dalle Sezioni unite -‘che il credito di cui si discute, anche non dovuto, divenga incontrovertibile soltanto perché è indicato in una dichiarazione non più assoggettabile al potere di accertamento o verifica, striderebbe con la matrice costituzionale dell’azione impositiva, presidiata dai precetti della riserva di legge (art. 23 Cost.), del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.), e anche dell’imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost)’ (par. 7).
Fermo quanto innanzi, l’attenzione dei contribuenti nel motivo si sofferma ‘funditus’ sul periodo finale tra parentesi del par. 8.2. di Sez. U, n. 21766 del 2021: ‘quanto alla valenza della giurisprudenza costituzionale su cui parte contribuente insiste, basti il richiamo alle considerazioni esposte sub § 4.7 di Cass. n. 8500/21, cit.’.
Il ragionamento dei contribuenti si articola come in appresso:
Le argomentazioni svolte in ordine alla circostanza secondo cui all’attività amministrativa di imposizione devono essere apposti termini certi e, comunque, circa l’impossibilità di ‘obliterare’ i termini di conservazione RAGIONE_SOCIALE scritture contabili, hanno trovato definitiva consacrazione nella sentenza n. 200 del 2021 della Corte costituzionale.
Tutto muove dalla nota dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 25 del d.p.r. n. 602/1973 nella parte in cui non prevedeva un termine ultimo, fissato a pena di decadenza, per la notifica della cartella di pagamento contenente la maggiore pretesa impositiva derivante da un controllo formale, in cui la Consulta ha affermato che è conforme a Costituzione solo «una ricostruzione del sistema che non lasci il contribuente esposto, senza limiti temporali, all’azione esecutiva del fisco» (Corte cost. n. 280/2005 e, prima ancora, Corte cost. n. 107/2003 e n. 352/2004).
Ebbene, la Corte Costituzionale. con la citata sentenza n. 200/2021, ha elevato tale dictum a principio generale dell’intero procedimento amministrativo tributario, affermando che: «Sebbene tale principio sia stato originariamente formulato con riferimento alla decadenza e all’azione esecutiva, la sua più ampia portata, estesa oltre i limiti dell’iniziale affermazione, trova conferma, sia in dottrina, sia nella giurisprudenza costituzionale», posto che «il diritto di difesa» e l’esigenza di «certezza nei rapporti giuridici» da un lato impediscono «anche un’indeterminata o irragionevolmente ampia soggezione del contribuente all’azione accertativa del fisco (sentenze n. 247 del 2011 e n. 356 del 2008)», e, dall’altro, impongono di «considerare essenziale la previsione di un preciso limite temporale per l’esercizio del potere sanzionatorio dell’amministrazione, in chiave di tutela dell’interesse soggettivo alla definizione della propria situazione giuridica (sentenza n. 151 del 2021)».
La Corte smentisce dunque definitivamente la tesi, sostenuta dalla Cassazione a Sezioni Unite n. 8500/2021 a conforto del rigetto dell’argomento di costituzionalità dei contribuenti fondato proprio sulla sentenza n. 280/2005, secondo cui «la Corte Costituzionale si è pronunciata su un contesto normativo del tutto differente, perché relativo non alla fase di accertamento ma a quella della riscossione-esecuzione (iscrizione a ruolo e notificazione della cartella)».
Posizione, questa, che è appunto espressamente richiamata anche dalle sentenze RAGIONE_SOCIALE SS.UU. nn. 21765 e 21766 del 2021 che qui si criticano («quanto alla valenza della giurisprudenza costituzionale su cui parte contribuente insiste, basti il richiamo alle considerazioni esposte sub § 4.7 di Cass. n. 8500/21, cit.)»).
Il ragionamento dei contribuenti muove da una strumentale lettura di Corte cost. n. 200 del 2021.
Rammentasi che la questione vertita innanzi alla Corte costituzionale riguardava (par. 1 del ‘Ritenuto in fatto’) il sospetto di illegittimità costituzionale ‘dell’art. 57, comma 3, secondo periodo, del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504 (Testo unico RAGIONE_SOCIALE disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative), nella parte in cui non prevede una data certa di inizio della decorrenza del termine di prescrizione RAGIONE_SOCIALE obbligazioni tributarie e RAGIONE_SOCIALE sanzioni correlate al loro inadempimento nel caso di comportamenti omissivi del contribuente’; più precisamente, secondo la Corte di cassazione rimettente, ‘la disposizione censurata, laddove stabilisce, con riferimento ai comportamenti omissivi, quali quelli di specie, che «la prescrizione opera dal momento della scoperta del fatto illecito», avrebbe identificato il ‘dies a quo’ di decorrenza della prescrizione nella data di scoperta dell’omissione. Tale termine iniziale, tuttavia, risulterebbe indeterminato e indeterminabile, comportando che il contribuente rimanga esposto per un tempo indefinito all’azione accertatrice e sanzionatoria dell’amministrazione. Ciò diversamente da quanto sarebbe previsto per le principali imposte erariali, la cui disciplina , anche con riferimento ai soggetti passivi che si siano sottratti agli obblighi dichiarativi su di essi gravanti, ancorerebbe ragionevolmente la decorrenza del periodo entro il quale l’amministrazione può far valere le proprie pretese a un termine iniziale certo, coincidente con la data di scadenza dell’obbligo inadempiuto, ossia con la consumazione dell’illecito omissivo, anche nel caso di condotta particolarmente lesiva, quale quella dell’evasore totale’.
L’oggetto della questione, dunque, riguardava pacificamente i termini dell”azione accertatrice e sanzionatoria dell’amministrazione’ e dunque RAGIONE_SOCIALE sue ‘pretese’, non già le eccezioni opponibili dall’amministrazione di fronte a ‘pretese’ non
sue, ma, tutt’al contrario, del contribuente, che insta per il rimborso di un credito.
Il successivo sviluppo della sentenza nel ‘Considerato in diritto’ è perfettamente coerente con il ‘devolutum’ come dianzi ricostruito. Viene segnatamente in linea di conto il par. 3.1, secondo cui:
Occorre rammentare come questa Corte abbia già avuto modo di chiarire (sentenza n. 280 del 2005) e successivamente ribadire (sentenza n. 11 del 2008 e ordinanza n. 178 del 2008) che l’art. 24 Cost. impedisce di lasciare il contribuente assoggettato all’azione del fisco per un tempo indeterminato.
Sebbene tale principio sia stato originariamente formulato con riferimento alla decadenza e all’azione esecutiva, la sua più ampia portata, estesa oltre i limiti dell’iniziale affermazione, trova conferma, sia in dottrina, sia nella giurisprudenza costituzionale.
Da essa si può infatti evincere come il diritto di difesa impedisca anche un’indeterminata o irragionevolmente ampia soggezione del contribuente all’azione accertativa del fisco (sentenze n. 247 del 2011 e n. 356 del 2008), ancorché condizionata dal mancato compimento di una specifica attività posta dalla legge a carico del contribuente medesimo.
Inoltre, questa Corte, a soddisfacimento dell’esigenza di certezza nei rapporti giuridici, ha avuto modo di avallare come costituzionalmente orientata l’interpretazione volta a porre un termine prescrizionale determinato all’esercizio dell’azione di recupero dei tributi doganali (sentenza n. 247 del 2011) e di considerare essenziale la previsione di un preciso limite temporale per l’esercizio del potere sanzionatorio dell’amministrazione, in chiave di tutela dell’interesse soggettivo alla definizione della propria situazione giuridica (sentenza n. 151 del 2021).
Tanto considerato, la norma censurata, identificando nella scoperta dell’illecito il termine di decorrenza della prescrizione del credito tributario -e della decadenza dalla pretesa sanzionatoria, per effetto del rinvio operato dall’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 472 del 1997 non individua in maniera certa il ‘dies a quo’ di inizio del computo, così esponendo a tempo indeterminato il contribuente alle pretese del fisco, potenzialmente avanzabili anche a distanza di decenni dall’insorgenza dell’obbligo rimasto inadempiuto, in violazione dell’art. 24 Cost. Ad aggravare il pregiudizio del diritto di difesa, quantomeno con riferimento al credito dell’imposta, concorrono l’esclusiva previsione di un termine di prescrizione –
suscettibile, a differenza di quello di decadenza, di interruzione e, quindi, eventuale fonte di ulteriore indeterminatezza -nonché la circostanza che l’obbligo di conservazione documentale, funzionale a contraddire le pretese del fisco, sia previsto per un tempo molto più breve (artt. 2220 del codice civile e 8, comma 5, della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante «Disposizioni in materia di statuto del contribuente», nonché, attualmente, art. 15, comma 6, t.u. accise).
Ritenuta la necessità che il contribuente non sia assoggettato al potere del fisco per un tempo indeterminato -principio a cui rispondono i ‘tertia comparationis’ evocati dalla Corte rimettente, ossia l’art. 57, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), l’art. 43, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento RAGIONE_SOCIALE imposte sui redditi), l’art. 76, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico RAGIONE_SOCIALE disposizioni concernenti l’imposta di registro), nonché l’art. 15 (Recupero dell’accisa e prescrizione del diritto all’imposta) t.u. accise, come da ultimo sostituito dall’art. 4 -ter, comma 1, lettera c), del decreto-legge 22 ottobre 2016, n. 193 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e per il finanziamento di esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2016, n. 225 -la disciplina recata dalla disposizione censurata produce, sotto il profilo difensivo, un irragionevole effetto discriminatorio per il contribuente tenuto all’imposta di consumo (ora accisa) sull’energia elettrica.
A fronte del tenore letterale di tale paragrafo, è indiscutibile che i relativi enunciati si riferiscono solo ed esclusivamente ‘all’azione accertativa del fisco’ e, più particolarmente, tenuto presente il settore impositivo, ‘all’esercizio dell’azione di recupero dei tributi doganali’. In altri termini, il ragionamento della Corte costituzionale si contiene sempre e solo entro i binari dell’azione accertativorecuperatoria dell’amministrazione, in ragione dell’espletamento di una pretesa volta alla formazione di un titolo eseguibile nei confronti del contribuente inadempiente. Più nel dettaglio, esclusivamente entro siffatti binari deve essere letto il sottoparagrafo in cui la Corte afferma che, ‘sebbene tale principio
sia stato originariamente formulato con riferimento alla decadenza e all’azione esecutiva, la sua più ampia portata, estesa oltre i limiti dell’iniziale affermazione, trova conferma, sia in dottrina, sia nella giurisprudenza costituzionale’. La ‘più ampia portata’ di cui opina la Corte è volta ad estendere un insegnamento, maturatosi in sede di riscossione, unicamente alla fase dell’accertamento.
Ciò si evince inequivocabilmente dal tenore letterale della questione devoluta e dal tenore letterale di tutti i singoli passaggi motivazionali in cui la sentenza si articola.
Ma, in questa sede, ‘ad abundantiam’, si può completare il ragionamento anche da un punto di vista sistematico: la fase riscossiva altro non è che un susseguente logico e procedimentale della fase accertativa, con la quale condivide in effetti la direzione di fondo, essendo volta al materiale realizzo di una pretesa dell’amministrazione consolidatasi nel titolo venuto ad esistenza nella fase accertativo-recuperatoria. Pertanto, accertamento e riscossione condividono il sostrato pretensivo dell”agere publicum’, inteso, per definizione, ad incidere negativamente sulla sfera patrimoniale del contribuente assoggettatovi . Ed è per tale motivo -assume in linea di principio la Corte costituzionale -che il contribuente non può restare esposto all’iniziativa dell’amministrazione oltre un termine ragionevole. Del tutto diversa, ed anzi opposta, è la vicenda giuridica del rimborso, atteso che, rispetto a questo, ad assumere l’iniziativa dapprima procedimentale e di poi processuale -non è affatto l’amministrazione, ma il contribuente, giacché a monte (dal punto di vista del diritto sostanziale) la pretesa fatta valere -e di poi azionata in giudizio, dove il contribuente non a caso assume la posizione di attore in senso sostanziale (cfr., ad es., Sez. 5, n.
23862, del 29/10/2020) -pertiene ad una posizione soggettiva di vantaggio non affatto dell’una, ma dell’altro, che per di più ne sceglie tempi e (sia consentito di aggiungere) modi: talché, quanto al rimborso, rifugge alcuna soggezione del contribuente all’amministrazione che imponga di arginare temporalmente l’esercizio del potere accertativo di quest’ultima; quanto al rimborso, cioè, l’esercizio di un siffatto potere non entra minimamente in gioco, perché, quando l’amministrazione disconosce il preteso diritto del contribuente, non ‘ agisce ‘, ma ‘ reagisce ‘, limitandosi ad opporgli, come magistralmente sottolineato già da Sez. U, n. 5069 del 2016, una pura e semplice eccezione, con conseguente applicazione del principio generale, valido per tutti i soggetti di diritto, amministrazione, evidentemente, compresa, per cui “quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum” .
Sicché , in definitiva, tornando al motivo, l’invocato fattore di novità, rispetto a Sez. U, n. 21766 del 2021, costituito da Corte cost. n. 200 del 2021, tale non è, ragion per cui non risultano in alcun modo superati argomenti e conclusioni RAGIONE_SOCIALE Sezioni unite .
Ne consegue che non sussistono i presupposti né per sollevare incidente di costituzionalità né, men che meno, per disporre rinvio pregudizale alla Corte di giustizia, tutte le relative questioni essendo già state risolte dalle Sezioni unite.
Con il secondo motivo si denuncia: ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 57, commi 1 e 3, del d.p.r. n. 633/1972, come interpretato dalle Sezioni Unite con le sentenze n. 21765/2021 e n. 21766/2021 (art. 360, c. I, n. 3 c.p.c.)’.
5.1. Il motivo è così sintetizzato in ricorso:
In subordine, per l’ipotesi in cui Codesta ecc.ma Corte non dovesse accogliere il precedente motivo di ricorso, la sentenza impugnata è comunque illegittima in quanto la CGT di II grado ha affermato, in
contrasto con l’interpretazione RAGIONE_SOCIALE Sezioni Unite dell’art. 57, comma 1 e 3 del d.p.r. n. 633/1972, che, in presenza di un credito IVA chiesto a rimborso, l’Ufficio non decade neppure dal potere di accertare la maggiore IVA sulle operazioni attive, da opporre in tal modo -riducendolo in misura corrispondente -al credito IVA, nonostante il decorso del termine di decadenza di cui al citato art. 57 e, per l’effetto, non ha affrontato la relativa questione per l’anno 2007 e ha illegittimamente confermato la maggiore IVA pretesa dall’Ufficio in relazione all’anno 2008 (per asserita erronea applicazione del meccanismo dell’inversione contabile).
5.2. Il motivo è manifestamente infondato.
Già la CGT II ha rilevato, con chiara motivazione, come Sez. U, n. 21766 del 2021, viepiù se doverosamente letta in linea di continuità con Sez. U, n. 5069 del 2016, non lasci alcuno spazio ad una terza via interpretativa nei termini proposti dai contribuenti, secondo cui, come da efficace sintesi nella sentenza impugnata, ‘ le Sezioni Unite, in presenza di un credito chiesto a rimborso, distinguerebbero l’IVA a debito sulle operazioni attive in ipotesi evasa da quella a credito sulle operazioni passive detratta’. In altre parole, alla stregua di quanto più dettagliatamente puntualizzato in ricorso, la terza consisterebbe in ciò che l’Ufficio, in presenza di un credito chiesto a rimborso, de comunque accertare l’IVA sulle operazioni ‘attive’ nei limiti temporali previsti dall’art. 57, co. 1, d.p.r. n. 633/1972.
Il diritto di credito riguarda, infatti, le sole operazioni passive (rectius, l’IVA oggetto di detrazione), mentre in questo caso l’Ufficio ha contestato la mancata applicazione dell’IVA alle suddette operazioni attive!
Del resto, contrariamente a quanto affermato dal giudice di appello, le stesse Sezioni Unite, nella ben nota sentenza ‘madre’ in materia di imposte sui redditi (Cass., Sez. U., 15 marzo 2016, n. 5069), hanno affermato il principio secondo cui i termini decadenziali di cui all’articolo 57 cit. opererebbero limitatamente al riscontro dei crediti dell’Amministrazione e non dei suoi debiti.
È evidente, infatti, che la mancata applicazione dell’IVA sulle operazioni ‘attive’ configura un credito dell’Amministrazione finanziaria, che verrebbe posto in ‘compensazione’ con il debito dell’Amministrazione finanziaria.
Nessuna RAGIONE_SOCIALE due citate sentenze RAGIONE_SOCIALE Sezioni unite, la più recente compresa, autorizza a distinguere, ai fini del rimborso, l’IVA a debito sulle operazioni attive dall’IVA a credito sulle operazioni passive per concludere che, in rapporto alle prime, a fronte di un credito richiesto a rimborso, l’Ufficio in tanto può contestarlo in quanto abbia accertato l’IVA nel rispetto dei termini di cui all’art. 57, comma 1, decr. IVA.
Ad escludere tale distinzione è anzitutto Sez. U, n. 5069 del 2016, laddove vi si legge che i termini decadenziali in questione sono apposti solo alle attività di accertamento di un credito della Amministrazione e non a quelle con cui la Amministrazione contesti la sussistenza di un suo debito. Ancorché simile soluzione susciti una certa disarmonia nel sistema in quanto, decorso il termine per l’accertamento, alla Amministrazione viene consentito di contestare il contenuto di un atto del contribuente solo nella misura in cui tale contestazione consente alla Amministrazione di evitare un esborso e non invece sotto il profilo in cui la medesima contestazione comporterebbe la affermazione di un credito della Amministrazione.
Pertanto, secondo Sez. U, n. 5069 del 2016, all’amministrazione è sempre consentito di contestare ‘la sussistenza di un suo debito’, giacché i termini di legge scattano solo a misura che essa, invece, pretenda di esercitare un suo credito.
Né la superiore conclusione è minimamente revocata in dubbio, ma anzi confermata, da Sez. U, n. 21766 del 2021.
I contribuenti ritengono di poter diversamente argomentare dal par. 5.1, in cui leggesi:
5.1.- In definitiva, quell’omesso esercizio si riverbera sul debito del contribuente, di modo che l’amministrazione, che sia decaduta dai propri poteri di accertamento e rettifica, non può pretendere un’imposta maggiore di quella liquidata in dichiarazione.
Coerentemente, peraltro, l’amministrazione neanche può contestare il credito che scaturisca dalla sottostima dell’imposta dovuta che in realtà era maggiore e che è stata evasa: e ciò per il rapporto di proporzionalità
inversa tra debito e credito. È a questo credito che si riferisce il secondo periodo del comma 1 dell’art. 57 del d.P.R. n. 633/72: l’eccedenza detraibile oggetto della pretesa di rimborso che va accertata nel termine di decadenza ivi stabilito è appunto quella che deriva dalla sottostima del debito, che deve essere oggetto di rettifica.
In realtà, in tale paragrafo, le Sezioni unite utilizzano il concetto di ‘sottostima dell’imposta dovuta’ agganciandolo all’esito finale dell’operazione determinativa del credito , che di necessità tiene conto anche RAGIONE_SOCIALE operazioni passive portate in detrazione .
La riprova si ha dalla giurisprudenza successiva, che, tornando sul punto, offre con autorevolezza un’interpretazione definitivamente chiarificatrice dell’assunto RAGIONE_SOCIALE Sezioni unite.
Viene segnatamente in linea di conto Sez. 5, n. 16103 del 23/03/2022, nella cui parte motiva (parr. 2.1 ss.), specificasi quanto segue:
2.1 ..
La Corte di giustizia ha difatti chiarito (con la sentenza 14 maggio 2020, causa C-446/18, RAGIONE_SOCIALE) che, sebbene in base alla combinazione degli artt. 179, paragrafo 1, e 183, paragrafo 1, della direttiva iva l’eccedenza di iva risulta da un’operazione aritmetica eseguita globalmente dal soggetto passivo per l’intero periodo d’imposta, cosicché l’eccedenza può apparire, nella dichiarazione, solo sotto forma di un risultato unico, il carattere globale del calcolo non implica che l’eccedenza costituisca un’unità inscindibile, che non renda possibile distinguere operazioni precise. Al contrario: il diritto alla detrazione dell’iva pagata a monte, che forma la posta detraibile destinata a confluire nell’importo richiesto a rimborso, va inteso in relazione a un’operazione precisa (punti 31-34).
2.2.- Coerentemente, allora, le sezioni unite di questa Corte (con le sentenze coeve 29 luglio 2021, nn. 21765 e 21766, seguite, tra le più recenti, da Cass. 15 marzo 2022, n. 8401 e da Cass. 24 marzo 2022, n. 9559) hanno stabilito che, in tema di rimborso dell’eccedenza detraibile dell’imposta sul valore aggiunto, l’amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione, che non derivi dalla sottostima dell’imposta dovuta, anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento o di rettifica
dell’imponibile e dell’imposta dovuta, senza che abbia adottato alcun provvedimento.
3.- Non v’è difatti simmetria tra le poste di iva a debito, ossia dell’iva scaturente dalle operazioni di cessione o di prestazione di servizi, e quelle di iva a credito, ossia dell’iva detraibile derivante dalle operazioni di acquisto di beni o di servizi; e, in particolare, contrasterebbe col diritto unionale dar vita a un credito in realtà inesistente sol perché la dichiarazione fiscale che lo esponga non sia stata oggetto di accertamento. Il contribuente è quindi onerato della prova del fatto costitutivo del credito iva vantato (Cass. 23 gennaio 2019, n. 1822; 18 maggio 2018, n. 12291), che ha ad oggetto l’iva addebitatagli “a monte” da quanti gli abbiano ceduto beni o reso servizi, che sia di importo maggiore di quella da lui addebitata “a valle” a quanti abbiano acquistato i beni da lui ceduti o richiesto i servizi da lui erogati. Rispetto a questo credito, l’amministrazione ha ampi poteri di verifica, quale che sia il tempo passato dal momento in cui i dati (imponibile e imposta) furono dal contribuente indicati in una dichiarazione non oggetto di rettifica. Quanto, invece, alle fatture da cui scaturisce il debito iva, oltre ai controlli di completezza e a quelli relativi ai conteggi, l’amministrazione finanziaria non può far altro, qualora si tratti di annualità in relazione alle quali sono scaduti i termini per l’accertamento: non può, cioè, assumere che, oltre a quelle fatturate, sono state poste in essere anche altre operazioni, che eliderebbero o ridurrebbero il credito chiesto a rimborso.
3.1.- In definitiva, se il contribuente aveva un debito iva maggiore di quello dichiarato, e l’ufficio non ha esercitato nel termine stabilito dall’art. 57 del d.P.R. n. 633/72 il potere per l’accertamento del maggiore imponibile, non può recuperare la decadenza. Allo stesso tempo, però, se la documentazione, che il contribuente deve esibire in giudizio per ottenere il riconoscimento di quel credito che l’amministrazione gli ha negato, non è tale da dimostrarne l’esistenza, o, a maggiore ragione, se nessuna documentazione è esibita, il credito gli va negato, quale che sia il periodo di tempo trascorso dal momento in cui questo fu esposto in dichiarazione .
In ultima analisi, l’amministrazione non può recuperare il maggior debito IVA del contribuente, ma può sempre contestare il credito chiesto a rimborso, che spetta al contribuente dimostrare con idonea documentazione, comprovante ‘an’ e ‘quantum’, in difetto della quale il credito va disconosciuto per l’inconfigurabilità
di alcun effetto di consolidamento derivante dalla mera indicazione in dichiarazione senza aver l’amministrazione proceduto in termini al recupero.
Talché la sentenza più recente RAGIONE_SOCIALE Sezioni unite, attraverso la chiave di volta dell’ onere probatorio incombente al contribuente, si salda con quella meno recente, confermandone l’enunciato circa la generalizzata possibilità di contestazione dell’amministrazione finalizzata ad ‘evitare un esborso’, di contro, invece, ad una contestazione – questa solo temporalmente circoscritta comportante ‘la affermazione di un credito’ .
Quanto precede trova corrispondenza sul piano processuale , nel senso che le ragioni che l’amministrazione adduce a contestazione del credito costituiscono , a questo punto, mere difese , sottratte a preclusioni (Sez. 6-5, n. 1906 del 28/01/2020, Rv. 656784-01).
I superiori insegnamenti, validi in generale, trovano puntuale applicazione anche in caso di rimborso per cessata attività. Invero -come esplicitamente affermato da Sez. 5, n. 1822 del 23/01/2019, Rv. 652366-01 -‘in tema di IVA, anche nell’ipotesi di domanda di rimborso presentata a seguito della cessazione dell’attività, l’Amministrazione finanziaria è tenuta a verificare la sussistenza del credito del contribuente che dovrà assolvere, in caso di contestazione, all’onere probatorio sullo stesso gravante’.
Con il quarto motivo si denuncia: ‘Violazione e falsa applicazione degli artt. 18, 19, 30 e 38-bis del d.p.r. n. 633/1972 con riguardo alle contestazioni afferenti al credito IVA 2008 (art. 360, c. I, n. 3 c.p.c.)’.
6.1. Il motivo è così sintetizzato in ricorso:
Infine, il giudice di appello ha illegittimamente disconosciuto il credito IVA per l’anno 2008 in base alla circostanza che TLT non avrebbe pagato le fatture che lo hanno generato. Tuttavia, come è noto, il cessionariocommittente (i.e., la TLT) può esercitare il diritto alla detrazione dell’IVA
-e così assumere la veste di creditore nei confronti dello Stato -per effetto del mero addebito dell’imposta in fattura, senza che il mancato pagamento del credito del cedente infici il diritto a detrazione. Né la mancata presentazione della dichiarazione fiscale da parte del cedenteprestatore può pregiudicare il diritto alla detrazione dell’IVA, nel caso in cui -come nella fattispecie in esame -non è dedotta, né dimostrata una frode all’IVA di cui il cessionario -committente fosse partecipe (almeno nella forma del ‘doveva sapere’).
6.2. Il motivo, per quanto suggestivo, è infondato.
La richiesta di rimborso dell’eccedenza dell’IVA a credito
-che, in ultima analisi, si sostanzia in una richiesta di restituzione -esige di necessità (ontologicamente) il pagamento del corrispettivo, comprensivo dell’imposta, indicato dal fornitore in fattura: ragion per cui, in difetto della prova del pagamento dell’imposta, il cui onere incombe al contribuente, il rimborso deve essere denegato.
Né in contrario sovviene il principio della generale non ostatività, agli effetti dell’art. 19 decr. IVA, di siffatto mancato pagamento alla detraibilità dell’imposta : principio che -inizialmente predicato dalla giurisprudenza unionale in riferimento all’IVA all’importazione (cfr. CGUE, 29 marzo 20212, in causa C-414/10, RAGIONE_SOCIALE, secondo cui ‘l’articolo 17, paragrafo 2, lettera b), della sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione RAGIONE_SOCIALE legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari-Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, deve essere interpretato nel senso che esso non consente ad uno Stato membro di subordinare il diritto a detrazione dell’imposta sul valore aggiunto all’importazione all’effettivo previo pagamento di detta imposta da parte del soggetto passivo, qualora quest’ultimo sia del pari il titolare del diritto a detrazione’) è ormai ‘tout court’ acquisito anche dalla prassi interna (cfr. la risposta a interpello n. 175 dell’2022 dell’RAGIONE_SOCIALE). Ed invero,
altro è il piano della detrazione dell’IVA ed altro quello della richiesta a rimborso sull’eccedenza del credito IVA detraibile).
Infatti, la detrazione dell’IVA (semplicemente) dovuta ma (effettivamente) non assolta non può essere negata, giusta il tenore letterale dell’art. 17, par. 2, lett. b), della sesta direttiva, in quanto, rispetto ai rapporti che sorgono per effetto dell’assoggettamento di un’operazione all’IVA, quello tr a cedente/prestatore e cessionario/committente ha natura esclusivamente privatistica, di per se stessa estranea all’erario (cfr. ad es. Sez. 2, n. 24794 del 24/11/2005, Rv. 58544101: ‘ In materia di IVA, il rapporto tributario pubblicistico si instaura fra il committente-cedente, che è l’unico soggetto passivo dell’imposta, e l’Amministrazione finanziaria, atteso che l’acquirente-cessionario è tenuto a rivalere il committente-cedente della somma versata all’Erario addebitandola sul prezzo in virtù di un rapporto di natura privatistica, del tutto autonomo ed indipendente da quello tributario’), ragion per cui l’inadempienza del secondo al pagamento di quanto dovuto al primo a titolo di imposta addebitatagli in rivalsa è confinata ai rapporti interni tra loro.
Invece, nel caso, della richiesta di rimborso, ed in tal senso enunciasi espressamente principio di diritto, il richiedente non agisce ‘uti privus’, ma, spendendo ‘ex se’ la qualifica di soggetto rilevante ai fini dell’IVA, formula una pretesa direttamente nei confronti dell’amministrazione, pretendendo da essa la restituzione dell’eccedenza, ossia del ‘surplus’, dell’IVA detraibile, ragion per cui non può esimersi dal dimostrare di aver, a sua volta, assolto all’imposta, da cui s’è generato il ridetto ‘surplus’ (in tesi) da recuperare .
In definitiva, il ricorso va integralmente rigettato, con le statuizioni consequenziali come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna solidalmente i ricorrenti a rifondere all’RAGIONE_SOCIALE le spese di lite, liquidate in euro 5.800, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso stesso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso a Roma, lì 4 luglio 2024.