Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 12994 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 12994 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 15/05/2025
Oggetto: accertamento – reverse charge –
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12679/2024 R.G. proposto da RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore e COGNOME che agisce anche in proprio, rappresentati e difesi entrambi giusta procura speciale in atti dall’avv. NOME COGNOMEcon indirizzo PEC: EMAIL ed elettivamente domiciliati presso lo studio del difensore in Messina, INDIRIZZO
-ricorrenti –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del direttore pro tempore rappresentata e difesa come per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato (con indirizzo PEC: EMAILavvocaturastatoEMAIL)
– controricorrente –
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. staccata di Messina, n. 9234/16/2023 depositata in data 16/11/2023;
e
sul ricorso iscritto al n. 15716/2024 R.G. proposto da
COGNOME rappresentato e difeso in forza di procura speciale in atti dall’avv. NOME COGNOME (con indirizzo PEC: avvEMAIL con domicilio eletto presso il ridetto difensore in Messina, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del direttore pro tempore rappresentata e difesa come per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato (con indirizzo PEC: EMAILavvocaturastatoEMAIL)
– controricorrente –
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. staccata di Messina, n. 691/16/2023 depositata in data 23/01/2023;
Rilevato che:
-con riguardo al giudizio iscritto al n. R.G. 16279/2024, rileva la Corte che la società RAGIONE_SOCIALE presentava ricorso per l’annullamento dell’avviso di accertamento n. relativo a imposte Ires, Irap e Iva anno 2011 per un totale di euro 612.866,00 derivante dall’esecuzione di attività di verifica comprensiva di indagini finanziarie;
-la CTP accoglieva il ricorso; appellava l’Ufficio;
-con la sentenza qui impugnata la CTR ha accolto l’impugnazione dell’Agenzia delle Entrate;
-ricorre a questa Corte la società con atto affidato a sei motivi di impugnazione;
-l’Amministrazione Finanziaria resiste con controricorso;
-con riferimento poi al giudizio n. R.G. 15716/2024, NOME impugnava l’avviso di accertamento notificatogli ai fini IRPEF per il medesimo periodo d’imposta 2011, basato sulle risultanze dell’avviso di accertamento notificato alla società RAGIONE_SOCIALE -da questi partecipata al 99% – e in forza della presunzione relativa alla partecipazione del contribuente a società a ‘ristretta base societaria’;
-la CTP accoglieva il ricorso; appellava l’Ufficio;
-con la sentenza qui gravata la CTR ha accolto l’appello e confermato la legittimità dell’atto impugnato;
-ricorre a questa Corte NOME con atto affidato a cinque motivi;
-resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate;
Considerato che:
-preliminarmente, deve procedersi alla riunione del giudizio R.G. 15716/2024 nel giudizio n. R.G. 12679/2024;
-sussiste, infatti, un’evidente connessione tra gli stessi che hanno ad oggetto, con riferimento ai medesimi anni di imposta, l’accertamento di maggiori redditi nei confronti di una società, ritenuta a ristretta base e i conseguenziali accertamenti nei confronti dei tre soci della stessa. Pur non ricorrendo infatti un’ipotesi di litisconsorzio necessario, l’accertamento societario costituisce un indispensabile antecedente logico-giuridico dell’accertamento nei confronti dei soci, in virtù dell’unico atto amministrativo da cui entrambe le rettifiche promanano. Inoltre, la riunione delle impugnazioni -che è obbligatoria, ai sensi dell’art. 335 c.p.c. ove investano lo stesso provvedimento -può essere facoltativamente disposta, anche in sede di legittimità, ove esse siano proposte contro provvedimenti, diversi, ma fra loro connessi, quando la trattazione separata prospetti l’eventualità di soluzioni contrastanti, siano ravvisabili ragioni di economia processuale, appaiano configurabili profili di
Cons. Est. NOME COGNOME
unitarietà sostanziale e processuale delle controversie (Cass. 10/05/2021, n. 12268);
-ciò fatto, può ora procedersi con lo scrutinio delle impugnazioni;
-va esaminato per primo, per ragioni di pregiudizialità logica e giuridica, il ricorso proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE per l’annullamento dell’avviso di accertamento, definito dalla pronuncia resa dalla Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. staccata di Messina, n. 9234/16/2023 depositata in data 16/11/2023 che ha originato il giudizio iscritto al n. R.G. 12679/2024;
-il primo motivo di ricorso censura la sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 36 del d. Lgs. n. 546 del 1992 in relazione all’art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c., per avere il giudice di merito erroneamente ritenuto valida la sottoscrizione dell’atto impugnato;
-secondo la prospettazione di parte ricorrente, i giudici di secondo grado avrebbero sia omesso l’esame del documento depositato dall’Ufficio al fine di dar prova dell’esistenza della delega di firma e della qualifica del funzionario sottoscrittore, sia mancato di verificare la motivazione dell’atto di delega a sottoscrivere;
-il motivo è inammissibile sotto un primo profilo;
-invero, la doglianza relativa al mancato esame del documento costituisce in realtà, così come articolata nella sua prima declinazione, denuncia di vizio revocatorio pertanto inammissibile nella sua proposizione di fronte a questa Corte;
-inoltre, dalla lettura della sentenza impugnata si evince come il giudice di appello abbia in realtà puntualmente esaminato l’atto che si assume trascurato, prendendo in esame anche il suo contenuto motivazionale: ciò si evince dal passaggio della sentenza della CTR nel quale si scrive ‘il Collegio osserva che, anche a ritenere tardiva la produzione in primo grado, l’atto
Cons. Est. NOME COGNOME
dispositivo è stato depositato nel giudizio di appello ed è idoneo a provare la legittimit à̀ dell’operato dell’Amministrazione Finanziaria’; e ancora si rileva come ‘la delega del capo dell’Ufficio, riprodotta in questo grado, non è generica e l’atto è stato sottoscritto da un impiegato della carriera direttiva, per cui il vizio dedotto dall’appellante incidentale non sussiste’;
-in ogni caso, quanto al profilo di doglianza relativo alla mancata motivazione della delega, la questione invero non risulta neppure essere stata proposta nei giudizi di merito in questi precisi termini, neppure per quanto risulta in forza della trascrizione dell’eccezione svolta in primo grado come riportata nel ricorso per cassazione alle pagine 7 e 8 dell’atto; da ciò si evince, infatti, come parte ricorrente abbia eccepito il difetto di delega inteso come mancanza assoluta in actis dell’atto di delega – profilo in ordine al quale la CTR ha debitamente verificato la sussistenza della delega stessa, rigettando l’eccezione -ma non abbia fatto eccepito il vizio motivazionale della delega stessa;
-ne consegue che la preposizione di tale eccezione in questa sede di legittimità costituisce questione nuova che, come tale, va dichiarata inammissibile;
-comunque, la sentenza impugnata ha chiaramente ritenuto legittima dal punto di vista della motivazione, oltre che altrettanto legittimamente prodotta in atti, la delega in argomento, osservando i principi in materia espressi da questa Corte;
-va ricordato che la delega in oggetto può prodursi anche in sede di appello, non ostandovi alcuna preclusione processuale (in termini tra molte, si veda per tutte Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 8313 del 04/04/2018), secondo la quale nel processo tributario, la produzione di nuovi documenti in appello è generalmente ammessa ai sensi dell’art. 58, comma
2, del d. Lgs. n. 546 del 1992: tale principio opera anche nell’ipotesi di deposito in sede di gravame dell’atto impositivo notificato, trattandosi di mera difesa, volta a contrastare le ragioni poste a fondamento del ricorso originario, e non di eccezione in senso stretto, per la quale opera la preclusione di cui all’art. 57 del detto decreto (conf. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 27774 del 22/11/2017; ma si veda anche Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 22776 del 06/11/2015);
-il secondo motivo si incentra in relazione all’art. 360 c.p.c., 1 comma, n. 3 c.p.c. – sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. per avere la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado omesso di verificare se l’Agenzia delle Entrate controparte avesse fornito la prova della legittimità e della fondatezza della pretesa erariale contenuta nell’avviso di accertamento prima di richiedere all’istante la prova del contrario e per avere del tutto ignorato le argomentazioni di parte privata;
-sotto un primo profilo il motivo risulta inammissibile;
-invero l’articolazione dello stesso ripropone, nel concreto, doglianze di merito il cui scrutinio è evidentemente precluso a questo giudice di Legittimità;
-sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge in la parte ricorrente realtà svolge in concreto censure di merito, finalizzate a sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti ed una differente valutazione del materiale probatorio rispetto a quella operata dalla sentenza di appello, operazione che non è consentita in sede di Legittimità se non nei ristretti limiti cui l’art. 360 n. 5 c.p.c. – come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 8053/2014 -riconduce attualmente il vizio di motivazione;
Cons. Est. NOME COGNOMEinoltre e comunque, nel prosieguo del suo articolarsi la censura risulta infondata alla luce delle affermazioni svolte dalla
pronuncia gravata specialmente quando afferma che la sentenza di primo grado ‘…inoltre, ha correttamente evidenziato come la ricorrente non abbia fornito alcun elemento di prova specifico che potesse contrastare e censurare le conclusioni cui era pervenuto l’Ufficio anche in relazione alla movimentazione bancaria, e non sia riuscita a giustificare talune operazioni rispetto alla contabilit à̀ tenuta’;
-orbene, in tali passaggi argomentativi e motivazionali il giudice del merito, in primo luogo, fa applicazione dell’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, osservando puntualmente i principi espressi da questa Corte secondo i quali ‘in tema di accertamenti bancari, gli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevedono una presunzione legale in favore dell’erario che, in quanto tale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c. per le presunzioni semplici, e che può essere superata dal contribuente attraverso una prova analitica, con specifica indicazione della riferibilità di ogni versamento bancario, idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non attengono ad operazioni imponibili, cui consegue l’obbligo del giudice di merito di verificare con rigore l’efficacia dimostrativa delle prove offerte dal contribuente per ciascuna operazione e di dar conto espressamente in sentenza delle relative risultanze’ (cfr., ad es., Cass. Sez. 5, n. 13112 del 30/06/2020). In ragione di quanto precede, la presunzione ‘consente all’Amministrazione finanziaria di riferire ‘de plano’ ad operazioni imponibili i dati raccolti in sede di accesso ai conti correnti bancari del contribuente’ (Cass. Sez. 5, n. 10249 del 26/04/2017). Ciò significa che, ‘qualora l’accertamento effettuato dall’Ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo l’art. 32
Cons. Est. NOME COGNOME
del d.P.R. n. 600 del 1973, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova, non generica, ma analitica, per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili’ (in termini, da ultimo, Cass. Sez. 5, n. 15857 del 29/07/2016). Ne deriva che ‘poiché il contribuente ha l’onere di superare la presunzione posta dagli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, dimostrando in modo analitico l’estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili, il Giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all’efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso, rispetto ad ogni singola movimentazione, dandone compiutamente conto in motivazione’ (così Cass. Sez. 6-5, n. 10480 del 03/05/2018);
-orbene, a quanto sopra affermato ha dimostrato di aver puntualmente aderito la sentenza gravata, la quale scrive, dopo aver richiamato proprio l’art. 2729 c.c., che ‘… i versamenti ed i prelevamenti effettuati su conti correnti bancari riferibili all’impresa vanno imputati a ricavi conseguiti dal contribuente nella propria attività imprenditoriale, salvo che questi non dimostri di averne tenuto conto nella determinazione della base imponibile, oppure la loro estraneità la produzione del reddito’; e ancora ‘… è onere del contribuente, a carico del quale si determina una inversione dell’onere della prova, dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non siano riferibili ad operazioni imponibili, mentre l’onere probatorio dell’amministrazione è soddisfatto per legge attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti…’
-pertanto, non è dato rilevare alcuna violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. posto che la violazione dell’art. 115 c.p.c.,
Cons. Est. NOME COGNOME
presuppone che il giudice abbia fondato la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte (Cass. civ., 12 aprile 2017, n. 9356) mentre la violazione dell’art. 116 c.p.c. – norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale – presuppone che il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. civ., 10 giugno 2016, n. 11892);
-nessuna delle due circostanze viene qui ad esistenza per le ragioni sopra illustrate;
-il terzo motivo è dedotto in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.: secondo parte ricorrente la sentenza impugnata avrebbe omesso di esaminare e decidere sulla eccezione di parte privata che denunciava la carenza di motivazione dell’avviso di accertamento; la censura in argomento può esaminarsi unitamente al quarto motivo, formulato in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, con il quale si deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 56 del d.P.R. n. 633 del 72, che si duole della omessa motivazione dell’avviso di accertamento.
-i ridetti motivi sono infondati;
-con riguardo all’omessa pronuncia in relazione al difetto di motivazione, non ricorre il vizio di omessa pronuncia quando la decisione adottata, in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, non occorrendo specifica argomentazione in proposito; nel qual caso è sufficiente quella motivazione che fornisca una spiegazione logica ed adeguata della decisione adottata, evidenziando le prove ritenute idonee a suffragarla, ovvero la carenza di esse, senza che sia necessaria l’analitica confutazione delle tesi non
accolte o la disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi (Cass., Sez. V, 2 aprile 2020, n. 7662; Cass., Sez. V, 6 dicembre 2017, n. 29191). L’accoglimento nel merito della pretesa dell’Ufficio comporta, nella specie, rigetto implicito delle questioni pregiudiziali, tra cui quella indicata nel motivo in argomento;
-in ogni caso, poi, l’aver il contribuente spiegato ampie difese anche nei gradi di merito fa concludere per l’idoneità della motivazione dell’avviso di accertamento (per tutte, Cass. 2955/2025); peraltro, dall’esame dell’atto impugnato si evince la sussistenza in esso di un corredo motivazionale sufficiente per far comprendere alla contribuente le ragioni della ripresa fiscale e per consentire la difesa in giudizio;
-il quinto motivo si incentra, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., sulla violazione e/o falsa applicazione dell’art. 17, comma 5, del d.P.R. n. 600 del 1973 per avere la pronuncia impugnata erroneamente escluso l’applicabilità del regime del c.d. ‘reverse charge’ valorizzando il dato, invero irrilevante, della natura dei beni oggetto di cessione, qualificati come ‘beni usati’ anziché ‘rottami auriferi’ ed omettendo di rilevare che fosse rimasta incontestata la non immediata destinazione al consumo dei beni preziosi commercializzati;
-il motivo è inammissibile;
-va ricordato che la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel ritenere (per tutte si veda in argomento Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 26760 del 12/09/2022) che in tema di IVA sulle cessioni di oro e relativi prodotti semilavorati, il regime dell’inversione contabile (c.d. “reverse charge”), previsto dall’art. 17, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972, che, in deroga a quanto previsto dal comma 1, pone in capo al cessionario, anziché al cedente, l’obbligo di assolvere l’imposta, non richiede che il cessionario esegua direttamente l’attività di
Cons. Est. NOME COGNOME
trasformazione del materiale aurifero ceduto o del semilavorato, costituendo requisiti fondamentali per la sua applicazione la purezza dell’oro e la non immediata destinazione al consumo del bene ceduto, in quanto deputato ad essere trasformato in un altro oggetto e a conoscere un nuovo ciclo produttivo. In definitiva, in funzione del ‘reverse charge’, non rileva, dunque, che l’attività di trasformazione del materiale d’oro o del semilavorato sia eseguita direttamente dal cessionario dell’operazione, costituendo requisiti fondamentali per la sua applicazione sia la purezza del prodotto d’oro -quale condizione prioritaria emergente, con tutta evidenza, dalla nozione di “materiale d’oro” e di “prodotto semilavorato”, la quale si presta di per sé soltanto ad escludere dal proprio ambito i prodotti finiti e i prodotti che non siano mai stati oggetto di lavorazione o di trasformazione -sia la non immediata destinazione al consumo del bene ceduto, in quanto deputato ad essere trasformato in un altro oggetto e a conoscere un nuovo ciclo economico (Cass. n. 11109 del 2022), a differenza di quanto previsto per il diverso regime del margine ex art. 311 della Direttiva Iva, riferito, viceversa, a prodotti di occasione e, dunque, a beni suscettibili di reimpiego (Cass. n. 11927 del 2021). Tale interpretazione, non solo è in linea con la lettera delle norme sopra riportate (art. 198, paragrafo 2, della direttiva 2006/112/CE, e 17, quinto comma, d.P.R. n. 633 del 1972), ma è altresì coerente con l’obiettivo di prevenire frodi fiscali, perseguito dal legislatore unionale con il regime in esame (v. Cass. n. 11927 cit., che richiama Corte giust. 26 maggio 2016, causa C-550/14, Envirotec Denmark ApS, punto 30), il quale, come si è visto, costituisce, a sua volta, criterio utilizzabile a fini ermeneutici. Infatti, ciò che aumenta il rischio di frodi fiscali e giustifica, pertanto, l’applicazione del meccanismo di inversione contabile per la
Cons. Est. NOME COGNOME
cessione di determinati beni, fra cui l’oro, è l’elevato valore di mercato degli stessi rispetto alle dimensioni, che li rendono facilmente trasportabili e che nel commercio dell’oro, quando non si tratta di un prodotto finito, come un gioiello, è il tenore d’oro del bene in questione a determinarne il valore, con la conseguenza che il rischio di frodi fiscali è tanto maggiore quanto più elevato è il tenore d’oro di tale bene (in tal senso, CGUE, sentenza 26/5/2016, in causa C-550/14, punto 41), sicché limitare l’applicazione di questo regime derogatorio ai soli casi in cui il bene viene trasformato dal cessionario, benché rispondente alle caratteristiche richieste, vanificherebbe la finalità con esso perseguita. Sulla scorta di quanto puntualizzato, deve dunque ritenersi che il regime dell’inversione contabile di cui all’art. 17, quinto comma, d.P.R. n. 633 del 1972, allorché prevede che le cessioni abbiano ad oggetto imponibili d’oro da investimento oppure materiale d’oro oppure prodotti semilavorati di purezza pari o superiore a 325 millesimi, postula che il metallo ceduto si caratterizzi per il suo “tenore” e sia destinato non all’immediato consumo, ma alla sua trasformazione in un altro oggetto che avvii un nuovo ciclo economico, senza che assuma invece rilevanza il fatto che il cessionario debba egli stesso occuparsi direttamente del processo intermedio di lavorazione, stante la funzione da esso assolta di snellire il processo di riscossione al fine di prevenire le condotte di evasione per quei beni e quelle prestazioni che, per le loro caratteristiche, sono a rischio frodi;
-sufficiente si deve quindi ritenere, per l’applicabilità del regime d’inversione contabile, che si tratti di prodotti non immediatamente destinati al consumo che rispondano ai requisiti di purezza stabiliti dalla norma. Altrimenti, si applica il diverso regime del margine. In ultima analisi -in diritto – va quindi data continuità ai principi incisivamente espressi da
Cons. Est. NOME COGNOME
questa Corte, principi che completezza di seguito si riportano: ‘in tema di IVA sulle cessioni di oro e relativi prodotti semilavorati, il regime dell’inversione contabile (c.d. “reverse charge”), previsto dall’art. 17, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972, che, in deroga a quanto previsto dal comma 1, pone in capo al cessionario, anziché al cedente, l’obbligo di assolvere l’imposta, non richiede che il cessionario esegua direttamente l’attività di trasformazione del materiale aurifero ceduto o del semilavorato, costituendo requisiti fondamentali per la sua applicazione la purezza dell’oro e la non immediata destinazione al consumo del bene ceduto, in quanto deputato ad essere trasformato in un altro oggetto e a conoscere un nuovo ciclo produttivo (Cass. n. 26760 del 2022); a ancora ‘in tema di IVA, Il regime dell’inversione contabile previsto dall’art. 17, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972, che, in deroga a quanto previsto dal comma 1, pone in capo al cessionario, anziché al cedente, l’obbligo di assolvere l’imposta, trova fondamento, secondo la disciplina unionale cui quella interna è conformata, nell’esigenza di prevenire il rischio di frodi fiscali, che è tanto maggiore quanto più elevato è il tenore dell’oro che forma oggetto della fornitura; pertanto, ai fini dell’applicabilità del predetto regime, in luogo di quello diverso del margine concernente il commercio degli oggetti di occasione, è sufficiente che si tratti di prodotti non immediatamente destinati al consumo, che rispondano ai requisiti di purezza stabiliti dalla norma’ (Cass. n. 11927 del 2021 cit. e Cass. 11106 del 2022, citate in motivazione dalla recente Cass. 1837 del 2024);
-orbene, ben diversamente, nella fattispecie che ci occupa secondo la sentenza gravata ‘l’attività commerciale aveva ad oggetto prodotti finiti provenienti da privati, preziosi dei quali era gi à̀ stato completato lo specifico processo produttivo. Trattasi, quindi, di un indebito utilizzo del meccanismo
Cons. Est. NOME COGNOME
dell’inversione contabile di cui all’art. 17 comma 5 del DPR n. 633 del 1972 e successive modifiche. Ininfluente e non pertinente al riguardo appare la difesa della contribuente, la quale basa la Legittimit à̀ del proprio operato, pure in assenza di una specifica autorizzazione (che non le era stata rilasciata a tutto l’anno di imposta 2011), sul fatto che l’amministratore della RAGIONE_SOCIALE era stato prosciolto dal reato di esercizio abusivo dell’attività̀ di cui trattasi, lasciando intendere che l’assoluzione penale costituisca, di per sé , una implicita autorizzazione amministrativa. Non essendovi i presupposti per applicare l’art. 17 comma 5 del DPR n. 633 del 1972, il meccanismo del ‘reverse charge’ non era applicabile e l’Iva doveva essere versata dal cedente in base alle aliquote ordinarie all’epoca vigenti’;
-tale accertamento in fatto esclude quindi in radice l’applicabilità alla presente situazione -che è differente -dei principi sopra illustrati, stante la diversa natura dell’attività svolta dalla contribuente, come accertata dal giudice di merito in modo ormai per questa Corte, giudice di Legittimità;
-il sesto motivo, proposto in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. censura la sentenza impugnata per avere omesso di esaminare e decidere sull’eccezione di parte privata che denunciava la illegittima ed erronea irrogazione delle sanzioni.
-il motivo è infondato;
-invero, la Corte di secondo grado ha invece preso espressamente posizione in ordine all’eccezione in argomento, disattendendola; essa scrive che ‘…quanto alla non corretta applicazione dell’art. 12 del D. Lgs. n. 546/92 la censura è formulata in modo generico e non vi è una contestazione specifica del calcolo delle sanzioni effettuato dall’Ufficio’;
-e poi, come si evince dalla lettura dell’avviso di accertamento, in particolare a pag. 18, l’Ufficio illustra analiticamente il calcolo
della sanzione e la connessa irrogazione della sanzione più mite derivante dall’applicazione, in luogo del c.d. ‘cumulo materiale’ del ‘cumulo giuridico’, concretamente e correttamente applicato alla fattispecie;
-conclusivamente, il ricorso iscritto al n. R.G. n. R.G. 12679/2024 va rigettato; le spese sono regolate dalla soccombenza e liquidate come in dispositivo;
-venendo ora al ricorso proposto dal contribuente NOME dal quale ha avuto origine il giudizio n. 15716/2024 R.G, la Corte osserva quanto segue;
-il primo motivo, dedotto in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. lamenta la violazione e/o falsa interpretazione dell’art. 295 c.p.c. (sospensione necessaria), per non avere, la Commissione Tributaria Regionale, disposto la sospensione del processo in attesa della sentenza definitiva sull’avviso di accertamento ivi impugnato in cui il Giudice doveva à risolvere un’altra controversia (causa pregiudiziale) dalla cui definizione dipende la decisione della causa stessa (causa pregiudicata);
-parte ricorrente ritiene, in sintesi, che la sentenza impugnata sia illegittima perché il Collegio di secondo grado ha emesso la sentenza n. 691/2023, invece di sospendere il giudizio, nonostante fosse evidente che l’avviso di accertamento in questione era conseguenza diretta di quello emesso nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE e nonostante la pendenza del giudizio per l’annullamento della rettifica formata nei confronti della società;
-il motivo è infondato;
-il Collegio, va premesso, condivide toto corde la giurisprudenza di questa Corte in forza della quale (Cass. S ez. 5, Ordinanza n. 1574 del 26/01/2021) in tema di redditi da partecipazione in società di capitali a base ristretta, ogni qual volta vi sia pendenza separata dei giudizi relativi
Cons. Est. NOME COGNOME
all’accertamento del maggior reddito contestato alla società di capitali e di quello di partecipazione conseguentemente contestato al singolo socio si impone la sospensione ex art. 295 c.p.c. – applicabile al giudizio tributario in forza dell’art. 1 del d.lgs. n. 546 del 1992 – in attesa del passaggio in giudicato della sentenza emessa nei confronti della società, costituente l’antecedente logico-giuridico non solo nelle ipotesi di controversie su contestazioni di utili extracontabili ma in tutti i casi di contestazione rivolti alla compagine sociale relativi ai maggiori redditi derivanti da ricavi non dichiarati o da costi non sostenuti;
-secondo tale orientamento (espresso anche da Cass., 7 marzo 2016, n. 4485; Cass., 16 luglio 2014, n. 16294; Cass., 19 marzo 2015, n. 5581) l’accertamento tributario nei confronti di una società di capitali a base ristretta, nella specie riferito ad utili extracontabili -costituisce infatti un indispensabile antecedente logico-giuridico dell’accertamento nei confronti dei soci, in virtù dell’unico atto amministrativo da cui entrambe le rettifiche promanano, con la conseguenza che, non ricorrendo, com’è per le società di persone, un’ipotesi di litisconsorzio necessario, in ordine ai rapporti tra i rispettivi processi, quello relativo al maggior reddito accertato in capo al socio deve essere sospeso ai sensi dell’art. 295 c.p.c., applicabile nel giudizio tributario in forza del generale richiamo dell’art. 1 del d. Lgs. n. 546 del 1992 (Cass., 31 gennaio 2011, n. 2214; anche Cass., sez. 5, 20 giugno 2018, n. 16210;
-peraltro, la circostanza che l’accertamento degli utili extracontabili di una società a ristretta base sociale sia contenuto in un atto impositivo non definitivo, o in una sentenza non passata in giudicato, incide non sulla operatività della presunzione di distribuzione di tali utili fra i soci, bensì sulla individuazione dell’oggetto di tale distribuzione; cosicché,
Cons. Est. NOME COGNOME
in sostanza, la causa relativa all’accertamento dei redditi non dichiarati della società viene a trovarsi in rapporto di pregiudizialità con le cause relative all’accertamento di maggiori redditi da partecipazione dei singoli soci o al recupero dell’omesso versamento delle ritenute alla fonte sui dividendi derivanti ai soci dalla distribuzione dei suddetti utili extracontabili (Cass. 07/03/2016 n. 4485). Incombe quindi sul socio che impugna l’onere di comprovare la pendenza della lite avente ad oggetto l’avviso di accertamento societario e perciò di fornire la prova negativa a riguardo della intervenuta definitività di quest’ultimo;
-sul punto questa Corte ha già evidenziato che ove si assumesse insussistente qualsivoglia presunzione sostanziale fino al momento della definitività dell’accertamento pregiudicante si finirebbe per precludere all’Amministrazione l’emissione dell’avviso pregiudicato relativo al socio in quanto farebbe difetto il presupposto stesso di quest’ultimo accertamento (Cass. 07/03/2016 n. 4485);
-alla luce di ciò, l’impugnazione dell’accertamento «pregiudicante» finisce per costituire, allora, condizione sospensiva -che resta esistente solo fino al passaggio in giudicato della pronuncia che lo riguarda – per la valorizzazione della presunzione medesima ai fini della decisione della lite sull’accertamento «pregiudicato»;
-e venendo ora all’esame della sorte del giudizio pregiudicante, si rileva che a quel giudizio è riunito il giudizio qui in esame, giudizio pregiudicato, e pertanto al momento della decisione non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità tra i giudizi in argomento;
-da ciò deriva che presente controversia può essere allora decisa;
-proseguendo quindi nell’esame delle doglianze, rileva il Collegio che il secondo motivo deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 36 del d. Lgs. n. 546 del 1992 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., per avere la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado illegittimamente ritenuto valido e legittimamente (tempestivamente) prodotto il documento depositato dall’agenzia delle entrate per dimostrare la sussistenza del potere sostitutivo in capo al funzionario che ha sottoscritto l’avviso di accertamento;
-il motivo è infondato;
-invero, la CTR ha ritenuto ‘incontrovertibilmente provato che il sottoscrittore dell’atto impugnato aveva i poteri di delegato di firma’; tale motivazione, per quanto sintetica raggiunge il c.d. ‘minimo costituzionale’;
-se è vero, infatti, che secondo la giurisprudenza di questa Corte la delega di firma non deve necessariamente indicare le cause che ne hanno resa necessaria l’ad ozione, il termine di validità e il nominativo del soggetto delegato (tra molte Cass. 9298/2021), è altrettanto vero che nell’esporre l’iter logico giuridico seguito per addivenire alla decisione il giudice del merito è tenuto a rendere manifesto l’esame compiuto dei fatti di causa e le ragioni per le quali ha reso la propria sentenza;
-nella fattispecie, a fronte dell’eccezione del contribuente riguardante l’assenza della delega in argomento, la CTR ha motivatamente risposto positivamente, disattendendo l’eccezione, accertandone la presenza; ciò satis est ai fini di rendere motivazione rispettosa del c.d. ‘minimo costituzionale’ (Cass. Sez. Un. Sent. N. 8053/2014), poiché per quanto riguarda il profilo relativo all’esistenza della delega la sentenza impugnata ha correttamente motivato limitandosi, come doveva, a rilevarne la produzione in causa da parte dell’Ufficio;
-inoltre, quanto alla ulteriore denuncia proposta dal contribuente nel medesimo motivo in ordine al profilo relativo alla mancata motivazione della delega/atto dispositivo che, pur non costituendo la sostituzione nelle funzioni, ma solo nella firma, avrebbe dovuto operare in forza di una concreta necessità, il motivo è inammissibile;
-infatti, dall’esame del ricorso di primo grado si rileva come tale vizio non sia stato, in questi termini, proposto nei gradi di merito e pertanto la questione non può ora formare oggetto del presente giudizio di Legittimità poiché nuova;
-il terzo motivo di ricorso lamenta la violazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. per avere la sentenza impugnata mancato di verificare se l’ufficio aveva fornito la prova della legittimità e della fondatezza della pretesa erariale azionata con l’atto impugnato prima di richiedere all’istante la prova del contrario e per avere del tutto ignorato le argomentazioni del contribuente;
-sotto un primo profilo, il motivo risulta inammissibile;
-invero l’articolazione dello stesso ripropone, nel concreto, doglianze di merito il cui scrutinio è evidentemente precluso a questo giudice di Legittimità;
-inoltre, la censura risulta infondata alla luce, delle affermazioni svolte dalla pronuncia gravata specialmente nell’ultima pagina della motivazione nella quale scrive: ‘….appare dimostrato che, nella fattispecie, vi siano presunzioni gravi, precise e concordanti in ordine a ingiustificati accreditamenti e versamenti così rilevanti…’;
-in tali passaggi argomentativi e motivazionali il giudice del merito, in primo luogo, fa applicazione dell’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, osservando puntualmente i principi espressi da questa Corte secondo i quali ‘in tema di accertamenti bancari, gli artt. 32 del
Cons. Est. NOME COGNOME
d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevedono una presunzione legale in favore dell’erario che, in quanto tale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c. per le presunzioni semplici, e che può essere superata dal contribuente attraverso una prova analitica, con specifica indicazione della riferibilità di ogni versamento bancario, idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non attengono ad operazioni imponibili, cui consegue l’obbligo del giudice di merito di verificare con rigore l’efficacia dimostrativa delle prove offerte dal contribuente per ciascuna operazione e di dar conto espressamente in sentenza delle relative risultanze’ (cfr., ad es., Cass. Sez. 5, n. 13112 del 30/06/2020, Rv. 65839201). In ragione di quanto precede, la presunzione ‘consente all’Amministrazione finanziaria di riferire ‘de plano’ ad operazioni imponibili i dati raccolti in sede di accesso ai conti correnti bancari del contribuente’ (Cass. Sez. 5, n. 10249 del 26/04/2017, Rv. 64409801). Ciò significa che, ‘qualora l’accertamento effettuato dall’Ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo l’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova, non generica, ma analitica, per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili’ (in termini, da ultimo, Cass. Sez. 5, n. 15857 del 29/07/2016). Donde, ‘poiché il contribuente ha l’onere di superare la presunzione posta dagli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, dimostrando in modo analitico l’estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili, il Giudice di merito è
Cons. Est. NOME COGNOME
tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all’efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso, rispetto ad ogni singola movimentazione, dandone compiutamente conto in motivazione’ (Cass. Sez. 6 -5, n. 10480 del 03/05/2018);
-pertanto, non è dato rilevare alcuna violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. posto che la violazione dell’art. 115 c.p.c. presuppone che il giudice abbia fondato la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte (Cass. civ., 12 aprile 2017, n. 9356) mentre la violazione dell’art. 116 c.p.c. (norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale), presuppone che il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. civ., 10 giugno 2016, n. 11892); nessuna delle due circostanze viene qui ad esistenza per le ragioni sopra illustrate;
-il quarto motivo di ricorso si incentra sulla omessa decisione da parte della CTR in ordine all’eccezione proposta dal contribuente che denunciava la carenza di motivazione dell’avviso di accertamento; il motivo può esaminarsi congiuntamente con il quinto motivo di ricorso che denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 56 del d.P.R. n. 633 del 1972 per omessa motivazione dell’avviso di accertamento;
-entrambi i motivi sono infondati;
-con riguardo all’omessa pronuncia in relazione al difetto di motivazione, non ricorre il vizio di omessa pronuncia quando la decisione adottata, in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, non occorrendo specifica argomentazione in proposito; nel qual caso è sufficiente quella motivazione che fornisca una spiegazione
Cons. Est. NOME COGNOME
logica ed adeguata della decisione adottata, evidenziando le prove ritenute idonee a suffragarla, ovvero la carenza di esse, senza che sia necessaria l’analitica confutazione delle tesi non accolte o la disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi (Cass., Sez. V, 2 aprile 2020, n. 7662; Cass., Sez. V, 6 dicembre 2017, n. 29191). L’accoglimento nel merito della pretesa dell’Ufficio comporta, nella specie, rigetto implicito delle questioni pregiudiziali, tra cui quella indicata nel motivo in argomento;
-in ogni caso, poi, quanto alla ulteriore censura relativa al vizio di motivazione dell’avviso di accertamento, l’aver il contribuente spiegato ampie difese anche nei gradi di merito fa concludere per l’idoneità della motivazione dell’avviso di accertamento (per tutte, Cass. 2955/2025); peraltro, dall’esame dell’atto impugnato si evince la sussistenza in esso di un corredo motivazionale sufficiente per far comprendere alla contribuente le ragioni della ripresa fiscale e per consentire la difesa in giudizio;
-in conclusione, anche il ricorso iscritto al n. R.G. n. 15716/2024 va rigettato;
-le spese processuali sono regolate dalla soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo;
p.q.m.
riunisce il giudizio iscritto al n. R.G. 15716/2024 al giudizio iscritto al n. R.G. 12679/2024; rigetta i ricorsi riuniti; condanna le parti ricorrenti in solido tra di loro al pagamento delle spese processuali in favore di parte controricorrente che liquida in euro 17.500,00, oltre a spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 dei 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, si dà atto della
Cons. Est. NOME COGNOME
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei contribuenti ricorrenti in solido tra loro dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 12 marzo 2025.