Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 5421 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 5421 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 01/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 17727/2022 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. della CAMPANIA-NAPOLI n. 145/2022 depositata il 07/01/2022. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 04/12/2024
dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
In via di premessa, par d’uopo rilevare che il giudizio approda in cassazione per la seconda volta.
Nel dettaglio, come evincesi in specie dal controricorso, con la dichiarazione Mod. Unico 2011 per il 2010, RAGIONE_SOCIALE instava per il rimborso IVA di euro 330.000, quale minor credito risultante dalle dichiarazioni dell’ultimo triennio. Il preteso credito nasceva nell’anno 2008 da una fattura di acconto di RAGIONE_SOCIALE di euro 1.665.000,00 pi ù̀ IVA di euro 333.000,00, emessa a seguito della sottoscrizione di un preliminare di compravendita immobiliare registrato ad Arezzo l’8 maggio 2008 al n. 4147/1T. L’oggetto della futura compravendita, il cui prezzo complessivo era stato pattuito in euro 2.000.000, era costituito da un locale commerciale, in corso di costruzione, in Spoleto. Il credito, poi, si incrementava nell’anno 2009 a seguito dell’emissione da parte di RAGIONE_SOCIALE, della fattura a saldo di euro 335.000, pi ù̀ IVA di euro 67.000. Non si addivenne alla stipula dell’atto definitivo di trasferimento, in quanto RAGIONE_SOCIALE fu dichiarata fallita il 29 aprile 2011. La Direzione Provinciale di Napoli II, chiesta ed ottenuta documentazione, rimaneva inerte quanto all’esecuzione del rimborso.
2.1, In data 13 maggio 2016, l’Ufficio Controlli della D.P. Napoli II notificava l’avviso di accertamento n. TF503AC01769/2016, relativo all’anno 2011, inteso a contestare l’omessa rettifica in aumento dell’IVA che aveva gravato le due fatture prima indicate, giusta obbligo discendente dagli artt. 19, 19-bis e 26 DPR n. 633 del 1972, in conseguenza del sopravvenuto venir meno della compravendita immobiliare. Più particolarmente, come leggesi in ricorso, la contestazione aveva ad oggetto ‘la mancata rettifica in
aumento dell’IVA detratta nei precedenti anni 2008 e 2009 in relazione agli acconti versati : l’importo detratto era di € 400.000 tra la fattura di acconto di € 1.665.000,00 con IVA di € 333.000,00 emessa nel 2008 e quella di saldo di € 335.000,00 con IVA per € 67.000,00 emessa nel 2009 l’acquisto ‘ex adverso’ compromesso il 30.4.08 -non veniva mai definitivamente stipulato ed anzi nell’anno accertato si era rivelato definitivamente non realizzabile per il fallimento della promittente venditrice, dichiarato con sentenza del Tribunale di Roma n. 233 del 29.4.11, e non seguito da alcuna iniziativa avversaria per l’esecuzione in forma specifica del preliminare o per la sua risoluzione, né per il risarcimento del danno’. Specifica altresì il ricorso che ‘tali elementi erano emersi dal contraddittorio relativo al rimborso del credito IVA per € 330.000, 00, richiesto nella dichiarazione per il 2010 e non definito dall’Ufficio, che dopo il fallimento in questione aveva ritenuto, con l’accertamento in esame, doversi invece stornare l’IVA già ammessa in detrazione ex art. 26 DPR 633/72, poiché ex art. 19 DPR 633/72 quest’ultima opera solo quando l’imposta diviene esigibile (cioè per le cessioni di beni, ex art. 6/633, quando queste sono effettuate in concreto, il che avviene, per gli immobili come quello in esame, alla stipula del contratto di compravendita definitivo, qui mai intervenuto); veniva meno quindi il presupposto indefettibile per la detrazione dell’IVA, ed il relativo credito andava rettificato in dichiarazione ex art. 19 bis-2 DPR 633/72; anche la detrazione immediatamente riconosciuta per i versamenti degli acconti IVA doveva essere disconosciuta in quanto non confermata dall’effettiva esecuzione dell’acquisizione finale . L’accertamento contestava quindi alla società la mancata rettifica dell’IVA detratta negli anni pregressi in relazione agli acconti versati, recuperando le detrazioni ormai indebite con interessi e sanzioni ex art. 5, co. 4 del D.lgs. n. 471/97, ed avvisando la società che avrebbe proceduto all’iscrizione a ruolo a
titolo straordinario delle somme dovute ex art. 29, lett. c) c. 1 del D.L. n. 78/10 conv. in L. n. 122/10’.
La contribuente -presentata istanza di riesame in autotutela rimasta inevasa -presentava ricorso, eccependo l’illegittimità dell’avviso per mancata attivazione del contraddittorio endoprocedimentale; difetto di motivazione e violazione degli artt. 19, 19-bis e 26 DPR n. 633 del 1972; illegittimità della riscossione straordinaria anticipata ed illegittimità della sanzione.
3.1. La CTP d Napoli, con sentenza n. 21367/28/16 emessa il 15 dicembre 2016, depositata il 16 dicembre 2016, rigettava il ricorso.
3.2. Giusta quanto riferisce, segnatamente, il controricorso (p. 7),
in particolare, i giudici di prime cure hanno rilevato quanto segue:
relativamente al primo motivo di ricorso, che «il ricorso è infondato con riferimento alla mancanza del contraddittorio pre-processuale, pur essendo pacifico che esso non è stato espletato, come si desume dalla stessa difesa erariale, che ha ritenuto che tale adempimento non doveroso nel caso di verifiche a tavolino . Nel caso in esame le censure della ricorrente hanno un contenuto meramente formale e non affrontano in alcun modo il merito di una eventuale, sostanziale, strategia difensiva capace di modificare il contenuto dell’atto adottato dall’amministrazione, che per quanto si dirà in prosieguo, è esente dai vizi dedotti in ricorso, con esclusione dell’effetto caducatorio invocato in giudizio ‘;
relativamente al secondo motivo di ricorso, «che la ricorrente avrebbe dovuto effettuare la variazione in modo da non usufruire della detrazione non più dovuta» ;
relativamente al terzo motivo di ricorso: «on rileva neppure l’istanza di rimborso che va indirizzata al cedente e non all’amministrazione finanziaria, che nulla potrebbe pretendere dal cedente stesso, mancando un’operazione imponibile a fini iva. Da tanto consegue pure la legittimità dell’azione di recupero anticipato, che si giustifica alla luce del rilevante importo dovuto e dall’assenza di un diritto al rimborso verso il fisco» ;
relativamente al quarto motivo di ricorso: «orrettamente quindi è stata irrogata anche la sanzione» .
La contribuente proponeva appello, riproponendo, in particolare, la doglianza relativa alla mancata attivazione del contraddittorio endoprocedimentale.
4.1. La CTR della Campania, con sentenza n. 795/25/18 emessa il 22 gennaio 2018, depositata il 29 gennaio 2018 , accoglieva il ricorso, ritenendo fondata detta doglianza.
L’Ufficio proponeva ricorso per cassazione, accolto dalla Sez. 6 -5 di questa Suprema Corte giusta ordinanza resa nella camera di consiglio del 16 gennaio 2020 e depositata il 25 maggio 2020. La SRAGIONE_SOCIALE., infatti, riteneva la sentenza d’appello affetta da motivazione meramente apparente, ragion per cui ne disponeva l’annullamento con rinvio.
La CTR della Campania, con la sentenza in epigrafe, pronunciando in sede di rinvio, accoglieva l’appello e per l’effetto annullava l’avviso di accertamento, così motivando:
è errato.
Basta, infatti, ricordare, a titolo esemplificativo, che , ‘ai fini della detraibilità dell’IVA assolta sull’acquisto di un bene immobile, La stipulazione del contratto preliminare di compravendita, accompagnata dal versamento anticipato del corrispettivo, è sufficiente a realizzare il presupposto dell’imposizione ‘.
Sicché, dato che nella presente vicenda la realtà dell’operazione non risulta contestata, assumono rilievo le circostanze che, avvenuta la stipulazione del contratto preliminare di compravendita immobiliare e prevedendo quest’ultimo l’esecuzione anticipata dell’obbligo di versamento del corrispettivo, la cessionaria RAGIONE_SOCIALE abbia corrisposto ad RAGIONE_SOCIALE le somme da quest’ultimo fatturate, comprensive dell’IVA, e la cedente RAGIONE_SOCIALE abbia dal canto suo versato l’IVA.
Posto, dunque, che l’obbligo della variazione è dall’art. 26 contemplato nel solo caso in cui dopo l’operazione e la sua fatturazione l’ammontare imponibile di essa registri un aumento, nelle diverse ipotesi in cui l’operazione imponibile ‘venga meno’ per una delle ragioni tassativamente previste dal comma 2 o se ne riduca l’ammontare
imponibile ne consegue non l’obbligo ma il mero diritto alla detrazione dell’imposta corrispondente alla variazione, diritto che spetta evidentemente al cedente, essendo egli il soggetto passivo dell’imposta , mentre il cessionario è a sua volta tenuto a registrare la variazione solamente ‘in tal caso’, fermo il suo diritto di ottenere la restituzione di quanto pagato a titolo di rivalsa.
Nel caso in esame non risulta che prima della dichiarazione di fallimento il contratto preliminare fosse stato risolto per mutuo consenso o ne fosse stata giudizialmente dichiarata la risoluzione per inadempimento; né risulta che, intervenuta la dichiarazione del fallimento senza che le parti avessero proceduto alla stipula del definitivo, il curatore del suo fallimento abbia esercitato il diritto di variazione previsto dall’art. 26, comma 2, d.P.R. 633 del 1972.
L’erario ha, inoltre, già incassato l’IVA dal promittente venditore.
L’effetto dell’accertamento emesso nei confronti di RAGIONE_SOCIALE consisterebbe, pertanto, nell’incasso della medesima imposta per la seconda volta, con imputazione dirett della stessa nei confronti del promissario acquirente.
Il quale, tuttavia, non soltanto risulta averla già corrisposta al promittente venditore, ma soprattutto non ne ha ottenuto il rimborso (né potrebbe conseguirlo, per le ragioni appena evidenziate).
Ne conseguirebbe, pertanto, la violazione del principio di neutralità dell’imposta, dal momento che è pacifico che il promittente venditore, cui l’IVA era stata corrisposta e che l’aveva a sua volta versata all’erario, non ha esercitato il diritto di portare in detrazione l’IVA relativa all’operazione ex art. 26, comma 2. D.P.R. 633/1972.
Propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate con un motivo, cui resiste la contribuente con articolato controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo di ricorso si denuncia: ‘ Violazione degli artt. 6, 19, 19 bis e 26, comma 2 del DPR n. 633/1972 (in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.)’.
1.1. ‘il Collegio di seconde cure illegittimamente sorvolato sulla circostanza di fatto (rilevante sotto il profilo di diritto) per cui la compravendita oggetto del preliminare non si era conclusa, restando l’immobile nella disponibilità della cedente/alienante, mentre la cessionaria/acquirente aveva
comunque chiesto, mediante l’insinuazione al passivo fallimentare, la restituzione del prezzo versato’. Inoltre, ‘la CTR giudicante, palesemente errando nell’interpretazione e nell’applicazione della normativa di riferimento (art. 26 cit.), ritenuto che in capo alla Contribuente non vi fosse alcun obbligo di emissione della nota di variazione dell’IVA’. In caso di preliminare, ‘seppure è possibile che sorga il diritto alla detrazione anticipata dell’imposta sul valore aggiunto versata in relazione all’acconto sul prezzo finale, il momento rilevante ai fini dell’imposizione fiscale è e resta sempre quello del perfezionamento del contratto definitivo’. ‘In deroga al criterio generale per cui il fatto generatore dell’IVA e l’esigibilità del tributo si realizzano nel momento in cui è effettuata la cessione o prestazione, l’art. 65 della Direttiva 2006/112/CE stabilisce che ‘In caso di pagamento di acconti anteriore alla cessione di beni o alla prestazione di servizi, l’imposta diventa esigibile al momento dell’incasso, sino a concorrenza dell’importo incassato”. ‘l versamento di un acconto sul prezzo con emissione della relativa fattura, in relazione a un contratto preliminare in ambito immobiliare, è soggetto a IVA ai sensi dell’art. 6 comma 4 del DPR 633/72 alla data in cui è emessa la relativa fattura o in cui è effettuato il pagamento (anche parziale) del corrispettivo, limitatamente all’importo fatturato o pagato; l’esigibilità del tributo in capo al cedente/prestatore è condizione sostanziale ai fini dell’esercizio alla detrazione da parte del cessionario/committente, alla quale si aggiunge l’ulteriore condizione, di carattere formale, del possesso di una valida fattura da parte di quest’ultimo (cfr. Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 1/2018); il soggetto passivo che ha versato l’acconto può esercitare il diritto alla detrazione nel momento in cui l’acconto è stato incassato dalla controparte, “senza che occorra tener conto di altri elementi di fatto, conosciuti successivamente, che renderebbero incerta la realizzazione della cessione o della prestazione di cui trattasi”; tuttavia, sebbene la
stipulazione del contratto preliminare di vendita sia sufficiente, ai sensi dell’art. 6 comma 4 del DPR 633/72, a realizzare il presupposto dell’imposizione nei limiti dell’importo fatturato o pagato, occorre tenere ben presenti tutte le situazioni in cui l’operazione di cessione del bene non si perfeziona, come accaduto nel caso di specie per il fallimento del venditore. In tali ipotesi, il mancato perfezionamento dell’operazione commerciale per la quale sono stati corrisposti gli acconti, da cui è scaturito il diritto alla detrazione e la richiesta di restituzione di quanto pagato, rende obbligatoria la variazione in aumento da parte della cessionaria/contribuente, atteso che la nota di variazione in commento costituisce lo strumento tecnico atto ad annullare gli effetti impositivi di un’operazione non avveratasi, che, nella presente fattispecie, è venuta meno a causa del fallimento della società cedente l’immobile’. ‘Errate ed illegittime appaiono, poi, anche le considerazioni del Giudice di II grado in ordine al presunto pagamento dell’IVA da parte del cedente ed alla circostanza di un duplice incasso della medesima imposta, atteso che – nel caso in esame -entrambe le parti, promittente/alienante e promissario/acquirente avevano la possibilità di rettificare la precedente operazione di acconto, stante l’intervenuto fallimento, in conseguenza del quale l’imposta sul valore aggiunto non risultava più dovuta da nessuno dei contribuenti essendo venuta meno la prestazione imponibile, ossia la cessione della proprietà dell’immobile ‘. ‘È infine errato sostenere che secondo la tesi sostenuta dall’Ufficio vi sarebbe un ‘bis in idem’ ‘Ufficio non ha richiesto a controparte l’imposta (che ovviamente è dovuta dal solo venditore), bensì la riduzione della detrazione, solo a controparte spettante secondo il meccanismo della neutralità dell’IVA, con facoltà di richiedere al (mancato) venditore la restituzione dell’IVA versata in rivalsa; si tratta insomma di posizioni distinte di soggetti diversi e di titoli differenti ‘.
2. Il motivo è fondato e merita accoglimento.
2.1. Sez. 5, n. 26894 del 22/10/2019, Rv. 655452 -01 ha già avuto modo di affermare che,
in tema di IVA, allorquando l’operazione per la quale sia stata emessa fattura venga meno, successivamente alla sua registrazione, in conseguenza della risoluzione del contratto che ne costituiva il presupposto, il committente (o cessionario) è tenuto, ai sensi dell’art. 26 del d.P.R. n. 633 del 1972, ad annotare la variazione, entro quindici giorni, nel registro delle fatture ai sensi degli artt. 23 e 24 del citato d.P.R. e, correlativamente, a farne indicazione nella successiva liquidazione in data antecedente all’annotazione periodica e comunque entro il termine di presentazione della dichiarazione annuale relativa all’anno di ricezione della fattura e con riferimento al medesimo anno, al fine di rilevare contabilmente il venir meno del diritto alla detrazione che sarebbe spettata al prestatore di servizio (o al cedente) a titolo di rivalsa sull’IVA addebitatagli, essendo egli tenuto a riversare all’erario l’imposta in precedenza detratta .
In motivazione, Sez. 5, n. 26894 del 2019, offre l’esegesi dell’art. 26, comma 2, DPR n. 633 del 1972, nel testo applicabile ‘ratione temporis’, vigente dal 30 maggio 1997 all’1 gennaio 2016. Detto testo -che rileva anche nel caso oggetto del presente giudizio, posto che l’anno d’imposta accertato è il 2011 (dovendosi invece osservare come la contribuente, nello sviluppo argomentativo di cui alle pp. 26 e 27 del controricorso, faccia riferimento al testo successivo), recitava:
Se un’operazione per la quale sia stata emessa fattura, successivamente alla registrazione di cui agli articoli 23 e 24, viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l’ammontare imponibile, in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili o per mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose o in conseguenza dell’applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente, il cedente del bene o prestatore del servizio ha diritto di portare in detrazione ai sensi dell’art. 19 l’imposta corrispondente alla variazione, registrandola a norma dell’art. 25. Il cessionario o committente, che abbia già registrato l’operazione ai sensi di quest’ultimo articolo, deve in tal caso registrare la variazione a norma dell’articolo 23 o
dell’art. 24, salvo il suo diritto alla restituzione dell’importo pagato al cedente o prestatore a titolo di rivalsa.
Sez. 5, n. 26894 del 2019, dunque, afferma:
In primo luogo, va osservato che la previsione normativa in esame dispone in ordine al diritto del prestatore di servizio di potere portare in detrazione l’IVA riportata nella fattura in favore del proprio committente quando viene meno la ragione giustificativa dell’emissione della fattura, in particolare del titolo negoziale.
Non correttamente, quindi, parte ricorrente fa richiamo alla previsione generale di cui all’art. 19, comma 1, d.P.R. 633/1972, che è citata nel comma 2 dell’art. 26, al solo fine di riconoscere al prestatore di servizio, nel caso in cui è venuto meno il titolo negoziale sulla cui base era stata emessa la fatture, il diritto alla detrazione dell’Iva.
In secondo luogo, il comma 2, dell’art. 26, impone al committente di provvedere alla registrazione della variazione a norma dell’art. 23 e 24, e fa salvo il suo diritto alla restituzione dell’importo pagato al prestatore a titolo di rivalsa.
Il riferimento alla previsione di cui all’art. 23, d.P.R. 633/1972, quindi all’obbligo di registrazione della variazione nel registro delle fatture emesse, ha la funzione di neutralizzare la registrazione dallo stesso compiuta nel registro degli acquisti a norma dell’art. 25, d.P.R. n. 633/1972, con la evidente finalità di rendere contabilmente evidente il venire meno del diritto alla detrazione di cui alla fattura registrata ai sensi dell’art. 25.
Il meccanismo contabile configurato dalla previsione di cui all’art. 26, comma 2, d.P.R. n. 633/1972, mira, tra due soggetti passivi che non soggiacciono con riferimento alla medesima operazione a limitazioni del diritto alla detrazione, ad annullare, da un lato, l’originario debito di imposta del soggetto attivo dell’operazione e, dall’altro, l’originaria detrazione operata dal soggetto passivo. In capo al primo, a seguito dell’emissione della nota di variazione, sorge il diritto a detrarre dall’imposta dovuta, ai sensi dell’art. 19, dPR n. 633/1972, un importo pari a quello a suo tempo annotato a debito nel registro delle fatture di cui all’art. 23 ed oggetto della variazione; il secondo, al quale spettava il diritto alla detrazione per avere annotato a suo tempo nel registro degli acquisti l’Iva addebitatagli a titolo di rivalsa, è tenuto a compiere l’operazione inversa.
In buona sostanza -secondo la superiore esegesi, da cui il Collegio non ravvisa ragione di discostarsi -l’art. 26, comma 2, DPR n. 633 del 1972 (nel ‘ratione temporis’ vigente) dispone che, quando viene meno la ragione giustificativa dell’emissione della fattura, da un lato, con riferimento al cedente/prestatore, in tanto questi ha il diritto di detrarsi l’IVA esposta nella fattura emessa al cessionario/committente in quanto la detrazione costituisce una modalità di annullamento del debito d’imposta da cui era, ma non è più, gravato quale soggetto passivo; dall’altro lato, però, con riferimento al cessionario/committente, questi, non avendo più titolo, ora, per godere della detrazione di cui, in allora, ha goduto, è tenuto a neutralizzarla.
Ciò equivale a dire che l’art. 26, comma 2, DPR n. 633 del 1972 si rivolge contemporaneamente, ma separatamente, ai due soggetti dell’operazione, disciplinando quel che il cedente/prestatore può ed il cessionario/committente deve fare per adeguare la realtà contabile e quindi fiscale alla mutata realtà contrattuale, in ragione del venir meno della ragione giustificativa dell’operazione e quindi della fattura in origine (pur) legittimamente omessa .
2.2. Ora, l’insegnamento di Sez. 5, n. 26894 del 2019, è stato recentemente portato a sistema da Sez. 5, n. 1609 del 19/01/2023, Rv. 666739 -01, cui si deve il principio di diritto a termini del quale, in tema di IVA, il versamento di un acconto sul prezzo in relazione ad un contratto preliminare di compravendita immobiliare costituisce operazione imponibile ex art. 6, comma 4, del d.P.R. n. 633 del 1972, con conseguente obbligo del promittente venditore di emettere la relativa fattura con esposizione dell’imposta dovuta; se, in conseguenza della risoluzione del contratto preliminare, detta operazione viene meno successivamente alla registrazione della fattura, il promissario acquirente è tenuto alla necessaria rettifica, ai sensi dell’art. 26 d.P.R. n. 633 del 1972, e ad emettere fattura di restituzione in suo favore della somma già versata (in quanto di operazione imponibile di segno contrario rispetto
alla prima); qualora, tuttavia, l’originario versamento dell’acconto sul prezzo non sia stato assoggettato ad imposta per errore, né l’Ufficio abbia avviato le necessarie iniziative al riguardo, la restituzione della somma dal promittente venditore al promissario acquirente assume natura meramente finanziaria e non può essere assoggettata ad imposizione IVA.
2.2.1. La seconda parte del principio di diritto testé riportato è da porre in correlazione alla particolarità della fattispecie devoluta a Sez. 5, n. 1609 del 2023, così, in sentenza, anticipata:
A seguito di p.v.c. del 29.9.2009, l’Ufficio di Vicenza emise nei confronti di due avvisi di accertamento, per gli anni d’imposta 2005 e 2006, con cui si recuperava a tassazione IVA dovuta e non versata. In particolare, la ripresa aveva ad oggetto la restituzione della somma di € 371.037,00 (su un totale di € 930.000,00), effettuata in due tranches da nel 2005 e nel 2006, a seguito della risoluzione di un contratto preliminare per la compravendita di un immobile ; l’intera somma era stata originariamente versata dalla alla predetta in data 28.2.2002, a dire della prima, a titolo di caparra confirmatoria. L’Agenzia delle Entrate, al contrario, dopo aver qualificato come mero acconto sul prezzo detto complessivo esborso, ritenne che anche la sua restituzione andasse soggetta ad IVA, così procedendo al relativo recupero ,
e poi ulteriormente esplicitata:
fuori discussione che l’originario pagamento di € 930.000,00 effettuato nel 2002 dalla (la cui stessa esistenza è incontestata) abbia riguardato il versamento di un acconto sul prezzo, sicché per esso la promittente venditrice avrebbe dovuto emettere regolare fattura, esponendo l’IVA relativa, ex art. 6, comma 4, d.P.R. n. 633/1972 (v. ex plurimis, Cass. n. 1961/2020), è altrettanto pacifico che ciò non sia però avvenuto , sicché la non ha pagato l’imposta in via di rivalsa alla stessa , che dunque non l’ha neppure versata al fisco, com’è ovvio. Tale violazione, tuttavia, non è stata contestata dall’Ufficio.
2.2.2. In disparte l’evidenziata particolarità della fattispecie devoluta a Sez. 5, n. 1609 del 2023 , quel che viene in rilievo, ai fini del presente giudizio, è la prima parte del principio di cui innanzi, che trova riscontro, in motivazione, nelle seguenti affermazioni:
che – a differenza di quanto pure sostengono i ricorrenti, secondo i quali l’emissione della nota di variazione da parte del cessionario costituirebbe in casi come quello per cui è processo una mera
facoltà, e non un obbligo – qualora l’operazione imponibile sia annullata o risolta, l’art. 26, comma 2, d.P.R. n. 633/1972, impone la rettifica o la neutralizzazione della stessa da parte del committente o cessionario (in tal senso, proprio in relazione all’ipotesi di risoluzione del contratto, si veda Cass. n. 26894/2019), con l’annotazione nel registro IVA, mentre il cedente conserva il diritto alla detrazione dell’IVA conseguente alla rettifica. Ciò, tuttavia, presuppone che una fattura sia stata originariamente emessa e che essa sia stata registrata : il che è quanto, come s’è visto, non s’è verificato nel caso che occupa.
2.3. Pacifico è che lo scioglimento del contratto ai sensi dell’art. 72 l.fall. (che, al comma 3, effettivamente parla di ‘scioglimento’) determina il sopravvenuto difetto di ragione giustificativa dell’emissione della fattura, identicamente che in caso di risoluzione del contratto.
2.4. Di conseguenza, ricomponendo il mosaico, è conclusivamente a rilevarsi che,
in tema di preliminare di vendita immobiliare, in esecuzione del quale il promissario acquirente abbia provveduto al versamento di un acconto sul prezzo per cui il promittente venditore abbia emesso fattura, qualora non si addivenga alla stipula del definitivo per sopravvenuto fallimento di quest’ultimo, il promissario acquirente, venendo meno la causa dell’emissione della fattura, è tenuto alla necessaria neutralizzazione mediante registrazione della variazione nel registro, salvo il suo diritto alla restituzione dell’importo pagato al cedente o prestatore a titolo di rivalsa .
2.5. A fronte di quanto precede, non coglie nel segno l’eccezione della contribuente secondo cui, così opinando, si determinerebbe
una violazione del principio di neutralità, cardine del sistema armonizzato di imposizione sul valore aggiunto, in quanto, a causa del fallimento del promittente venditore, la società contribuente si vedrebbe rettificata a posteriori la detrazione (per un’operazione che -al momento in cui venne effettuata -aveva tutti i requisiti di imponibilità) e
resterebbe, dunque, quasi certamente definitivamente incisa dal tributo in ragione della mancata solvibilità della controparte commerciale (e, quindi, dell’impossibilità di chiedere a rimborso l’Iva pagata in via di rivalsa).
2.5.1. Tutt’affatto, come visto, la lezione di questa S.C. è volta proprio ad assicurare la neutralità dell’imposta, a fronte dell’emissione di una fattura che, nell’attualità dei rapporti, non ha più ragion d’essere. Sotto altro profilo, l’allegazione di una definitiva incisione dal tributo data sostanzialmente per certa è di per sé inammissibilmente generica ed in definitiva locutoria, per non documentare la contribuente alcunché in ordine all’incapienza del patrimonio del fallimento della promittente venditrice Imus; ciò senza contare che essa si risolve essenzialmente nella dubitativa deduzione di un pregiudizio di mero fatto.
2.6. Un tanto toglie altresì consistenza all’evocazione, in controricorso (p. 34) di CGUE, 23 novembre 2017, in causa C246/16, COGNOME
2.6.1. Questa sentenza, infatti, attiene ad un ‘thema’ diverso da quello oggetto di causa, essendo la Corte di giustizia chiamata a stabilire ‘se l’articolo 11, parte C, paragrafo 1, secondo comma, della sesta direttiva debba essere interpretato nel senso che uno Stato membro può subordinare la riduzione della base imponibile dell’IVA in caso di non pagamento totale o parziale all’infruttuosità di una procedura concorsuale qualora una simile procedura possa durare più di dieci anni’ (punto 11). Invero, la fattispecie da cui era scaturito il rinvio pregiudiziale consisteva in ciò che uno dei clienti del contribuente ‘era stato dichiarato fallito senza aver pagato una fattura di EUR 35 000’, ragion per cui egli aveva ‘ridotto a concorrenza di tale debito la sua base imponibile IVA, credendo di essere autorizzato a farlo in applicazione ‘, ma ‘L’Agenzia delle Entrate non ha approvato tale rettifica, argomentando che la stessa poteva essere effettuata solo dopo l’esperimento infruttuoso di una procedura concorsuale o di una procedura esecutiva individuale, vale a dire
una volta acquisita la certezza che il credito non sarebbe stato onorato, e non a seguito di una semplice sentenza dichiarativa di fallimento come quella di cui è stato oggetto il debitore del sig. COGNOME (punti 6 e 7).
2.6.2. Ora, è bensì vero, come eccepito in controricorso, che la Corte di giustizia perviene alla conclusione secondo cui ‘l’articolo 11, parte C, paragrafo 1, secondo comma, della sesta direttiva deve essere interpretato nel senso che uno Stato membro non può subordinare la riduzione della base imponibile dell’IVA all’infruttuosità di una procedura concorsuale qualora una tale procedura possa durare più di dieci anni’ (punto 29).
2.6.3. Tuttavia, siffatta conclusione rifugge da generalizzazioni, necessitando di essere contestualizzata alla luce di tutti gli elementi di giudizio dalla medesima considerati, rimarcanti chiare differenze con la fattispecie che presentemente ne occupa.
2.6.3.1. La prima e fondamentale è, come già visto, che il contribuente nel caso in cui è intervenuta la sentenza della Corte di giustizia, era il debitore d’imposta, mentre nel caso che ne occupa Beca non lo è, essendolo Imus.
2.6.3.2. La seconda, direttamente conseguente alla prima, è che, nel caso della sentenza della Corte di giustizia, il contribuente pretendeva di ridurre il suo debito per effetto del mancato pagamento da parte di un suo cliente dichiarato fallito, mentre, nel caso che ne occupa, si fa questione della possibilità per Beca di mantener ferma la contabilizzazione della fattura (senza cioè neutralizzarla) con l’effetto di seguitare a giovarsi della detrazione.
2.6.3.3. La terza è infine che il presupposto invocato dal contribuente nel caso della sentenza della Corte di giustizia riguarda il ‘non pagamento totale o parziale’, non già, come nel caso che ne occupa, il venir meno della causa giustificativa del contratto.
2.6.3.3.1. La questione, di spiccato interesse sistematico, merita di essere evidenziata, in quanto suscettiva di distinguere, nel panorama unitario di ipotesi eterogenee, quelle in cui il contratto in sé vien meno da quelle in cui il contratto permane ma il pagamento è totalmente o parzialmente impedito.
La Corte di giustizia, nella sentenza che si va analizzando, è chiarissima nello stabilire che v’è una regola, che vale per tutte e due le ridette ipotesi, ed un’eccezione, che vale solo per la seconda.
Infatti, vi si legge:
14 ‘articolo 11, parte C, paragrafo 1, primo comma, della sesta direttiva, che riguarda i casi di annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale e riduzione di prezzo dopo che l’operazione è stata effettuata, obbliga gli Stati membri a procedere alla riduzione della base imponibile e, quindi, dell’importo dell’IVA dovuta dal soggetto passivo ogniqualvolta, successivamente alla conclusione di un’operazione, il corrispettivo non venga totalmente o parzialmente percepito dal soggetto passivo (v., in tal senso, sentenza del 3 luglio 1997, RAGIONE_SOCIALE, C -330/95, EU:C:1997:339, punto 16).
15 L’articolo 11, parte C, paragrafo 1, secondo comma, della sesta direttiva consente agli Stati membri di derogare alla regola di cui al punto precedente in caso di non pagamento totale o parziale.
16 Se il non pagamento totale o parziale del prezzo di acquisto interviene senza che vi sia stata risoluzione o annullamento del contratto, infatti, l’acquirente resta debitore del prezzo convenuto e il venditore, per quanto non più proprietario del bene, dispone sempre – in linea di principio – del suo credito, che può far valere in sede giurisdizionale. Poiché non può essere escluso, tuttavia, che un tale credito divenga di fatto definitivamente irrecuperabile, il legislatore dell’Unione ha inteso lasciare a ciascuno Stato membro la scelta di determinare se la situazione di non pagamento del prezzo di acquisto, la quale, di per sé, contrariamente alla risoluzione o all’annullamento del contratto, non pone nuovamente le parti nella situazione iniziale, attribuisca diritto alla riduzione della base imponibile nell’importo dovuto alle condizioni che esso stabilisce, o se siffatta riduzione non sia ammessa in tale situazione (sentenza del 15 maggio 2014, Almos RAGIONE_SOCIALE, C -337/13, EU:C:2014:328, punto 25).
17 Tuttavia, come la Corte ha già statuito, tale facoltà di deroga, strettamente limitata ai casi di non pagamento totale o parziale, si fonda sull’assunto che, in presenza di determinate circostanze e in considerazione della situazione giuridica esistente nello Stato membro interessato, il non pagamento del corrispettivo può essere difficile da accertare o essere solamente provvisorio (sentenza del 3 luglio 1997, RAGIONE_SOCIALE, C -330/95, EU:C:1997:339, punto 18).
Quel che dunque qui deve essere rimarcato è che ‘l’articolo 11, parte C, paragrafo 1, primo comma, della sesta direttiva, che riguarda’ (tutti i casi possibili, ossia) ‘i casi di annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale e riduzione di prezzo dopo che l’operazione è stata effettuata, obbliga’ – in via generale, senza, cioè, deroghe di sorta – ‘gli Stati membri a procedere alla riduzione della base imponibile e, quindi, dell’importo dell’IVA dovuta dal soggetto passivo’; solo ‘se il non pagamento totale o parziale del prezzo di acquisto interviene senza che vi sia stata risoluzione o annullamento del contratto agli Stati membri’ è consentito – ma in via d’eccezione – ‘di derogare alla regola’ della necessaria riduzione della base imponibile .
Ciò – per la risoluzione o l’annullamento del contratto, in particolare – risponde a logica, sol che si consideri che non può esistere ‘in positivo’ una rappresentazione contabile (cartolare) tale siccome fondata sulla fatturazione, con il corteo dei ben noti effetti tipici – opposta ad una realtà fattuale che restituisce evidenza ‘in negativo’ della sopravvenuta inesistenza dell’operazione economica sottostante: diversamente, in contrasto con i principi cardinali dell’IVA, si legittimerebbe un sistema di fatturazione per operazioni (seppur ‘ex post’ divenute) inesistenti (donde – alla luce della vincolante ermeneusi del diritto unionale promossa dalla Corte di giustizia – deve ritenersi ormai superato il diverso avviso espresso tempo addietro da Sez. 5, n. 12192 del 15/05/2008, Rv. 603783 -01).
Ma, se ‘gli Stati membri’ sono ‘obbliga’ ‘a procedere alla riduzione della base imponibile’ in capo al soggetto passivo (cedente/prestatore), siffatto obbligo investe i medesimi ‘Stati membri’, ‘mutatis mutandis’, anche con riferimento agli effetti scaturiti dalla fatturazione in capo a chi soggetto passivo non è (ossia in capo al cessionario/committente), sotto il faro dell’esigenza trasversale di assicurare la neutralità dell’imposta.
Ed è proprio questa prospettiva eurounitaria che -sia consentito di così dire -offre un’ulteriore copertura alla giurisprudenza di legittimità sopra esaminata.
Conclusivamente, la CTR non ha ossequiato i superiori principi, ragion per cui la sentenza impugnata va cassata con rinvio. Peraltro, avendo la CTR deciso nei veduti termini sulla base del criterio della ragione più liquida, con conseguente assorbimento (improprio) di tutte le altre questioni agitate ‘inter partes’, il giudice di rinvio, sotto il vincolo dei superiori principi, sarà tenuto ad esaminare dette questioni, altresì definitivamente regolando tra le parti le spese di lite, comprese quelle del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
In accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, per esame delle questioni rimaste assorbite e per le spese.
Così deciso a Roma, lì 4 dicembre 2024.