Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 1187 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 5 Num. 1187 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 11/01/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 23025/2017 R.G. proposto da:
ROMA CAPITALE, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO), che la rappresenta e difende,
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. LAZIO n. 828/2017 depositata il 23/02/2017, udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 05/12/2023 dal Consigliere NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Roma capitale (già Comune di Roma) ha impugnato l’avviso di rettifica e liquidazione, con cui l’Agenzia delle Entrate ha preteso la maggiore imposta di registro, ipotecaria e catastale in relazione alla rivalutazione della base imponibile dell’accordo concluso con RAGIONE_SOCIALE ed oggetto di retrocessione in virtù di sentenza del Tribunale di Roma. La ricorrente ha dedotto la carenza assoluta di motivazione, la mancata allegazione dei documenti richiamati e l’infondatezza della pretesa tributaria.
Il ricorso è stato accolto in primo grado per la mancata allegazione delle valutazioni OMI richiamate nell’atto impositivo, ma rigettato, all’esito dell’appello dell’Amministrazione finanziaria, dalla sentenza della Commissione tributaria regionale che ha richiamato la sentenza n. 4301 del 2015, con cui è stata decisa la medesima questione nei confronti della controparte RAGIONE_SOCIALE PiceniRAGIONE_SOCIALE
Avverso tale sentenza Roma Capitale ha proposto ricorso per cassazione ed ha successivamente depositato memoria.
L’Agenzia delle Entrate si è costituita con controricorso, chiedendo il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente per responsabilità aggravata.
La causa, originariamente fissata all’udienza del 3 febbraio 2021, è stata rinviata all’udienza pubblica del 5 dicembre 2023 per essere trattata e decisa unitamente a quella gemella r.g. n. 5241/2016 instaurata da Pio Sodalizio dei Piceni, che, però, è stata definita con la sentenza di questa Corte n. 33286 del 4 ottobre 2022.
La Procura Generale presso la Cassazione ha depositato le conclusioni scritte, con cui ha chiesto accogliersi il ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.Roma Capitale ha dedotto: 1) la violazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., dell’art. 48 del d.P.R. 8 giugno 2021, n. 327 e l’erronea motivazione della sentenza sul punto, atteso che il corrispettivo della retrocessione, se non è concordato tra le parti, è determinato dall’ufficio tecnico erariale o dalla commissione provinciale sulla base dei criteri applicati per la determinazione dell’indennità di esproprio e con riguardo al momento del ritrasferimento e che, pertanto, in caso di accordo tra le parti, la misura dell’indennità pattuita in modo amichevole diviene definitiva e non più contestabile, per cui non può essere rimessa in discussione dall’Amministrazione finanziaria; 2) la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ., per omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti, l’errata valutazione del bene ed il travisamento dei fatti, avendo il giudice di appello omesso ogni valutazione delle questioni proposte dall’appellato (e, cioè, la necessaria applicazione dei criteri legislativi di cui all’art. 48, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001, la carenza di motivazione dell’avviso l’assenza di un adeguato approfondimento nella valutazione dei bene e in particolare l’omessa considerazione dello stato di conservazione dell’immobile).
2.Il primo motivo di ricorso è fondato e deve essere accolto, con assorbimento del secondo.
2.1. L’art. 46, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001 (ora vigente), che ha sostituito l’art. 63 della legge 25 giugno 1865 n. 2359, dispone che: « Se l’opera pubblica o di pubblica utilità non è stata realizzata o cominciata entro il termine di dieci anni, decorrente dalla data in cui è stato eseguito il decreto di esproprio, ovvero se risulta anche in epoca anteriore l’impossibilità della sua
esecuzione, l’espropriato può chiedere che sia accertata la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e che siano disposti la restituzione del bene espropriato e il pagamento di una somma a titolo di indennità ». Parallelamente, l’art. 48, comma 1, del d.P.R. 327 del 2001 prevede che: «Il corrispettivo della retrocessione, se non è concordato dalle parti, è determinato dall’ufficio tecnico erariale o dalla commissione provinciale prevista dall’articolo 41, su istanza di chi vi abbia interesse, sulla base dei criteri applicati per la determinazione dell’indennità di esproprio e con riguardo al momento del ritrasferimento».
Il corrispettivo della retrocessione è stato significativamente riqualificato dal T.U. del 2001 con la specifica locuzione di «indennità» (in luogo di «prezzo»), a riprova della netta opzione del legislatore per una qualificazione di tale istituto incompatibile con i caratteri tipici del contratto di compravendita diritto privato. In tale direzione, la dottrina tende a ricostruire la retrocessione come una fase «eventuale » del procedimento di espropriazione per pubblica utilità, potendosi instaurare su iniziativa dell’espropriato, nell’ipotesi in cui l’opera pubblica o di pubblica utilità, dopo l’espropriazione (o la cessione volontaria) del bene a ciò destinato, non sia in concreto realizzata (retrocessione totale) o in cui non tutto il bene espropriato venga utilizzato (retrocessione parziale), al fine di recuperarne (in tutto o in parte) la proprietà.
L’istituto vale a soddisfare diverse esigenze: la prima è indubbiamente quella di evitare il sacrificio inutile (nel caso della retrocessione totale) o eccessivo (nel caso della retrocessione parziale). Non secondariamente, però, la retrocessione è ritenuta dal legislatore utile ad evitare l’eccessivo frazionamento della proprietà: un’utilità per il proprietario -quella a ripristinare l’unitarietà del proprio fondo – che si riverbera in un’utilità per la collettività, dato che l’interesse del proprietario fa presumere che
egli ne avrà cura, mentre, ove il bene rimanesse inutilizzato, rischierebbe con ogni probabilità di deperire.
Sia sotto il vigore della legge n. 2359 del 1865, che sotto il vigore del d.P.R. n. 327 del 2001, la costante giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto che la retrocessione dei beni espropriati attua, nel concorso delle condizioni previste dalla legge, un nuovo trasferimento di proprietà, con efficacia ex nun c, del bene espropriato e non utilizzato dall’espropriante, in conseguenza dell’esercizio del diritto potestativo dell’espropriato di ottenere il ritrasferimento mediante una sentenza costitutiva che modifichi la situazione giuridica posta in essere dal provvedimento espropriativo; ne consegue che il prezzo di retrocessione va determinato con riferimento al momento della pronuncia di retrocessione, costituendo essa il titolo di trasferimento del bene espropriato (tra le tante: Cass., Sez. Un., 8 giugno 1998, n. 5619; da ultimo, Cass., Sez. 1, 13 ottobre 2020, n. 22056).
2.2 Dunque, nella specifica ricostruzione della retrocessione totale offerta dalla giurisprudenza di legittimità costituiscono punti fermi: a) che la relativa azione, diretta ad ottenere la retrocessione del bene espropriato o del relitto di esso, pur avendo natura reale, non costituisce una rivendica, in quanto il soggetto espropriato non conserva neppure una proprietà latente sul bene e fa valere uno ius ad rem ; b) la retrocessione viene, quindi, pronunciata dal giudice con sentenza avente carattere costitutivo, che opera un nuovo trasferimento coattivo dell’immobile con effetto ex nunc , anche qualora la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità sia dichiarata dalla stessa amministrazione (così pure la sentenza della Corte Costituzionale n. 245 del 1987); c) il diritto di proprietà è riacquistato dall’espropriato soltanto dopo la determinazione ed il pagamento del prezzo di retrocessione, che va calcolato al momento in cui detta pronuncia viene emessa, dato che è proprio
la sentenza a costituire il titolo di trasferimento (in termini: Cass., Sez. 1, 24 maggio 2004, n. 9899).
Quanto ai criteri cui commisurarne l’importo, in relazione al quale gli artt. 60 e 63 della legge n. 2359 del 1865 stabiliscono soltanto che ove non sia pattuito amichevolmente tra le parti «deve essere determinato giudizialmente», la giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. Un., 8 giugno 1998, n. 5619; Cass., Sez. 1, 24 maggio 2004, n. 9899;Cass., Sez. 1, 8 marzo 2018, n. 5574) ha affermato il condivisibile principio secondo cui il corrispettivo della retrocessione va, bensì, determinato sulla base degli stessi criteri legali applicati per il calcolo dell’indennità di espropriazione a suo tempo quantificata (in tesi, mediante applicazione dei criteri diversi e riduttivi rispetto a quello del valore venale), ma con riferimento al valore del bene al momento della pronuncia di retrocessione che attua il nuovo passaggio di proprietà (così l’art. 48 del d.P.R. n. 327 del 2021) ed attraverso una ricognizione ed una valutazione della sua attuale destinazione: esso deve essere, insomma, omologo alla pregressa indennità di espropriazione e non anche identico anche alla stregua della sentenza della Corte Costituzionale n. 245 del 1987, che ha sottolineato al riguardo l’autonomia dell’atto di retrocessione rispetto a quello espropriativo e l’intervenuta abrogazione – ad opera dell’art. 1 del d.l. 11 marzo 1923 n. 691, convertito in legge 17 aprile 1925 n. 473 – del comma 3 dell’art. 60 della legge n. 2359 del 1865, secondo cui il prezzo di retrocessione non poteva eccedere l’ammontare dell’indennità ricevuta dall’originario proprietario (Cass., Sez. Un., 27 gennaio 2014, n. 1520; Cass., Sez. 1, 14 novembre 2018, n. 29355). Pertanto, l’eventuale accordo tra espropriante ed espropriato per la determinazione dell’indennità di retrocessione (a fronte della restituzione della proprietà del bene acquistato all’esito di espropriazione per pubblica utilità) si inserisce nel quadro generale del fenomeno denominato dalla dottrina con la variegata
terminologia di « amministrazione consensuale, contrattualizzazione dell’azione amministrativa, contratto di diritto pubblico», trattandosi di una figura tipica di strumento convenzionale per l’esercizio di un potere autoritativo della pubblica amministrazione, la cui funzione preminente rimane il perseguimento di un interesse pubblico.
Con specifico riguardo all’imposta di registro, in relazione all’espropriazione per pubblica utilità ed ai trasferimenti coattivi in genere, l’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 131 del 1986 (sulla falsariga del previgente art. 42, comma 2, del d.P.R. n. 634 del 1972) ha previsto che: «Per l’espropriazione per pubblica utilità e per ogni altro atto della pubblica autorità traslativo o costitutivo della proprietà di beni mobili o immobili o di aziende e di diritti reali sugli stessi la base imponibile è costituita dall’ammontare definitivo dell’indennizzo. In caso di trasferimento volontario all’espropriante nell’ambito della procedura espropriativa la base imponibile è costituita dal prezzo».
Dunque, è evidente che nulla è stato espressamente disposto dalla disciplina vigente per l’ipotesi di retrocessione (totale o parziale) dei beni espropriati. Ciò non di meno, ferma restando la natura eccezionale della disposizione succitata, che la rende insuscettibile di interpretazione analogica o estensiva, per la speciale deroga ai normali criteri di determinazione del valore ai fini dell’imposizione (in termini: Cass., Sez. 5, 8 marzo 2002, n. 3420; Cass., Sez. 6-5, 21 giugno 2013, n. 15743; Cass., Sez. 5, 12 ottobre 2018, n. 25526), è convinzione del collegio che la lata formulazione della disposizione succitata abbia portata tendenzialmente onnicomprensiva, in coerenza con la ratio legis di garantire unicità di trattamento fiscale alle varie fattispecie di trasferimenti posti in essere nell’ambito del complesso fenomeno dell’«espropriazione per pubblica utilità», senza che assuma alcun rilievo la circostanza che beneficiario dell’acquisto sia
l’amministrazione pubblica o il privato. In altri termini, l’ampiezza della previsione normativa si attaglia, proprio per la sua genericità, sia all’ipotesi diretta di trasferimenti immobiliari dall’espropriato all’espropriante, che all’ipotesi inversa di trasferimenti immobiliari dall’espropriante all’espropriato, avendosi comunque riguardo all’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità, sia che la vicenda traslativa si realizzi con l’acquisto della proprietà del bene al patrimonio dell’espropriante, sia che la vicenda traslativa si risolva con il ripristino della proprietà del bene nel patrimonio dell’espropriato. Ne discende che la retrocessione (totale o parziale) rientra a pieno titolo tra gli eventi tipici dell’«espropriazione per pubblica utilità», trattandosi del ritrasferimento del bene (o di una sua parte) dall’espropriante all’espropriato – per effetto di un contrarius actus rispetto al provvedimento ablativo -in conseguenza della decadenza della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera (per la retrocessione totale) ovvero della dichiarazione di inutilizzabilità di una parte del bene (per la retrocessione parziale) e della mancata realizzazione dell’opera secondo la programmazione originaria (opera non iniziata o non realizzata, per la retrocessione totale; opera iniziata o completata, ma in difformità dal progetto iniziale, per la retrocessione parziale) (Cass., Sez. Un., 13 aprile 2000, n. 134; Cass., Sez. Un., 8 marzo 2006, n. 4894; Cass., Sez. Un., 16 maggio 2014, n. 10824; Cass., Sez. 1, 7 settembre 2020, n. 18580), che postula una rinnovata valutazione (ancorché tacita) dell’espropriante circa la sopravvenienza di nuovi motivi di interesse pubblico, i mutamenti delle circostanze di fatto o la perduranza dell’interesse pubblico originario in relazione alla realizzazione dell’opera. In virtù della previsione dell’art. l’art. 48, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001, la determinazione della base imponibile per l’applicazione dell’imposta di registro deve essere rapportata all’importo dell’«indennità» convenuta (bilateralmente)
tra espropriante ed espropriato ovvero fissata (unilateralmente) dagli organi pubblici a tanto deputati (in particolare, dall’U.T.E. poi, dall’Agenzia del Territorio e, ora, dall’Agenzia delle Entrate – o dalla commissione provinciale ex art. 41 del d.P.R. n. 327 del 2001) «sulla base dei criteri applicati per la determinazione dell’indennità di esproprio e con riguardo al momento del ritrasferiinento». Pertanto, trattandosi sostanzialmente di una somma liquidata sulla base di parametri corrispondenti all’indennità di espropriazione (con la conseguente garanzia di commisurazione presuntiva in prossimità al valore venale corrente all’epoca del ritrasferimento, stante il coinvolgimento di organi pubblici) e destinata a ristorare (in senso opposto ed inverso all’espropriazione) il pregiudizio patrimoniale subito dall’espropriante per la perdita del bene ritrasferito all’espropriato, l’ammontare pecuniario dell’indennità di retrocessione costituisce la base imponibile per l’applicazione dell’imposta di registro ai sensi dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 131 del 1986 ed è insuscettibile di rettifica ai sensi degli art. 51, comma 3, e 52, comma 5-bis, del d.P.R. n. 131 del 1986.
In buona sostanza, la fissazione ex lege di modalità procedurali e criteri estimativi per la rideterminazione dell’indennità di retrocessione ne assicura a monte la tendenziale commisurazione al valore venale del bene retrocesso all’epoca del ritrasferimento, esonerando, per conseguenza, l’Amministrazione finanziaria dal successivo controllo di congruità. Difatti, all’indomani dell’approvazione del T.U. sull’imposta di registro, la circolare emanata dal Ministero delle Finanze il 10 giugno 1986 n. 37 (“Tasse e imposte indirette sugli affari”), in relazione alla previsione dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 131 del 1986, aveva perentoriamente prescritto che, «in tali casi, gli uffici devono astenersi dal compiere atti di accertamento».
Nella medesima direzione, è orientamento costante di questa Corte che nei trasferimenti coattivi la base imponibile non è rappresentata dal valore degli immobili per le ragioni di pubblico affidamento che sono garantite dalla previsione di procedure amministrative o giudiziarie per la determinazione dell’indennità di espropriazione o del prezzo di vendita, non trovando applicazione gli artt. 43, comma 1, lett. a (in tema di equiparazione tra base imponibile e valore venale), e 52, comma 1 (in tema di rettifica del valore dichiarato), del d.P.R. n. 131 del 1986 (Cass., Sez. 5, 6 giugno 2007, n. 13217; Cass., Sez. 5, 29 ottobre 2010, n. 22141; Cass., Sez. 5, 4 febbraio 2011, n. 2706; Cass., Sez. 6-5, 21 giugno 2013, n. 15743; Cass., Sez. 5, 11 luglio 2014, n. 15948).
Va pure aggiunto che tale scelta rende evidente la volontà legislativa di non appesantire l’attività di controllo degli uffici finanziari (nonché degli organi giurisdizionali) ove si possa a priori escludere una collusione delle parti in danno dell’Erario, non configurandosi come plausibile un eventuale giudizio di congruità da parte dell’Amministrazione finanziaria. Né rileva, con particolare riguardo alla retrocessione totale, che la restituzione del bene sia disposta con provvedimento dell’espropriante ovvero con sentenza del giudice ordinario (come nel caso di specie), essendo immutata l’efficacia reale del trasferimento coattivo a favore dell’espropriato a prescindere dal titolo (amministrativo o giudiziale) che lo dispone.
2.3. In conclusione, va ribadito il principio di diritto, già enunciato da Cass., Sez. 5, 11/11/2022 n. 33286, per cui, in materia di imposta di registro, l’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 131 del 1986 (a tenore del quale: «Per l’espropriazione per pubblica utilità e per ogni altro atto della pubblica autorità traslativo o costitutivo della proprietà di beni mobili o immobili o di aziende e di diritti reali sugli stessi la base imponibile è costituita dall’ammontare definitivo dell’indennizzo. In caso di trasferimento
volontario all’espropriante nell’ambito della procedura espropriativa la base imponibile è costituita dal prezzo») può trovare applicazione per la determinazione della base imponibile anche per la retrocessione (totale o parziale) degli immobili espropriati ai sensi degli artt. 46 e 47 del d.P.R. n. 327 del 2001, trattandosi di norma speciale destinata ad operare in senso onnicomprensivo per ogni tipo di trasferimento coattivo disposto nell’ambito del complesso fenomeno dell’«espropriazione per pubblica utilità», sia che avvenga dall’espropriato all’espropriante (in fase costitutiva), sia che avvenga dall’espropriante all’espropriato (in fase estintiva), posto che l’indennità di retrocessione deve essere liquidata – su accordo delle parti o con intervento di organi pubblici – sulla base dei criteri fissati per il computo dell’indennità di espropriazione ai sensi dell’art. 48, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001. Ne consegue che l’Amministrazione finanziaria non è abilitata alla rettifica del valore commisurato all’importo definitivo dell’indennità di retrocessione ai sensi degli art. 51, comma 3, e 52, comma 5bis, del d.P.R. n. 131 del 1986».
2.4. Nella specie, quindi, il giudice di appello ha contravvenuto al principio enunciato, avendo ritenuto che l’Amministrazione finanziaria potesse procedere alla rettifica del valore venale, in ragione dell’incongruità dell’indennità di retrocessione rispetto alla stima dell’immobile con riguardo a tale epoca. Pertanto, alla stregua delle suesposte argomentazioni, valutandosi la fondatezza del primo motivo e l’assorbimento del residuo motivo, il ricorso può trovare accoglimento e la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto; non occorrendo ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, primo comma, ultima parte, cod. proc. civ., con l’accoglimento del ricorso originario del contribuente. Stante la novità della questione trattata, rispetto a cui sussiste un unico precedente di legittimità, formatosi in
relazione alla medesima vicenda, devono essere integralmente compensate le spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
La Corte:
in accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, decide la causa nel merito, accogliendo il ricorso originario ed annullando l’atto impugnato;
dichiara integralmente compensate le spese di lite tra le parti.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 5 dicembre