Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 30875 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 30875 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 03/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8126/2017 R.G. proposto da : RAGIONE_SOCIALE domiciliata ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro PERFETTO ANGELINA, PERFETTO ANGELINA, AGENZIA ENTRATEDIREZIONE PROVINCIALE DI NAPOLIAGENZIA ENTRATEDIREZIONE PROVINCIALE DI NAPOLI -intimati-
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende
-resistente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. DELLA CAMPANIA n. 10093/2016 depositata il 15/11/2016.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 09/10/2024 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
La CTP di Napoli, con sentenza depositata il 14 ottobre 2014, rigettava il ricorso promosso da NOME COGNOME avverso la cartella di pagamento con la quale, avuto riguardo ad un avviso di accertamento relativo all’anno d’imposta 2005, l’Agenzia delle Entrate procedeva al recupero nei suoi confronti, quale coobligata, di una somma di euro 22.300,12. L’avviso concerneva l’omesso versamento Iva da parte di RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME, società di persone di cui la Perfetto era socia accomandante. La CTR della Campania ha accolto l’appello della contribuente e ha annullato la cartella. Il ricorso per cassazione di RAGIONE_SOCIALE è affidato ora a due motivi. L’Agenzia si è costituita al solo fine di partecipare all’eventuale udienza di discussione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione, ex art. 360, n. 3, c.p.c., dell’art. 2304 c.c. e degli artt. 12, 24, 25,45 e 50 del d.P.R. n.602/1973, per avere il giudice del merito accolto la doglianza di NOME COGNOME in punto di mancata limitazione dell’importo preteso in cartella entro i limiti della quota sociale conferita all’atto di costituzione della s.a.s.
Con il secondo motivo si contesta la violazione e falsa applicazione, ex art. 360, n. 3, c.p.c. dell’art. 91 c.p.c., per avere il giudice d’appello, in ordine alla disposta condanna delle spese di lite,
adoperato ‘ una formula meramente tautologica, del tutto avulsa dal contesto procedimentale e dalla specifica indicazione di comprovate ragioni a sostegno del principio generale della soccombenza ‘.
Il primo motivo è infondato e va rigettato.
La CTR ha motivato l’accoglimento dell’appello di NOME COGNOME come segue: ‘ Va osservato che non è in contestazione che la appellante sia socio accomandante della società RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME e che il debito tributario afferisce ad un avviso di accertamento relativo alla società da essa partecipata ‘; ‘ il socio accomandante risponde … entro i limiti della sua quota ‘; ‘ la doglianza con cui l’odierna appellante, pacificamente socio accomandante della società debitrice d’imposta, ha lamentato la mancata limitazione dell’importo preteso con la cartella entro i limiti della quota sociale da lui conferita, secondo il disposto dell’art. 2313 c.c., appare fondata ‘; sussiste un ‘ vizio proprio della cartella’.
Osserva questa Corte che a tenore dell’art. 2313 c.c. nella società per accomandita semplice il socio accomandante risponde verso i terzi solo nei limiti della quota conferita, salva l’ipotesi di ingerenza nell’amministrazione, che qui non è dedotta e, quindi, non ricorre.
La CTR ha correttamente ritenuto la responsabilità dell’accomandante per l’obbligazione tributaria della società perimetrata dalla quota. D’altronde, il principio posto dalla disposizione giuscivilistica citata vale, e non può non valere, anche per le obbligazioni di natura tributaria (Cass. n. 7016 del 2003).
L’art. 2313 c.c., nello stabilire la responsabilità illimitata e solidale dei soci accomandatari per le obbligazioni sociali, e nel circoscrivere quella dell’accomandante alla quota conferita, non autorizza i creditori sociali, incluso l’erario, a pretendere una somma superiore a quella delimitata dalla quota in parola.
Tale interpretazione è confermata dalle deroghe alla regola racchiusa nell’art. 2313, esplicitate dal Codice: l’art. 2314 c.c., che prevede la responsabilità illimitata di fronte ai terzi del socio accomandante che consenta all’inserimento del proprio nome nella ragione sociale; l’art. 2320 c.c., che tale illimitata e solidale responsabilità fa derivare dalla violazione del divieto di immistione da parte dell’accomandante; l’art. 2324 c.c., che consente ai creditori di far valere i propri crediti nei confronti dei soci accomandanti in sede di liquidazione. Nella specie, nessuna di tali circostanze è stata dedotta.
Mette punto evidenziare che il legislatore ha stabilito l’esclusione dalla giurisdizione tributaria delle sole controversie riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notificazione della cartella di pagamento (art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 546 del 1992). Il legislatore ha scelto, dunque, di riservare al giudice tributario la soluzione di ogni aspetto di rilievo sostanziale e procedurale correlato alla disciplina tributaria (v. Cass., Sez. Un., n. 8770 del 2016, secondo cui l’attribuzione alle commissioni tributarie della cognizione di tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie, si estende ad ogni questione relativa all’ an o al quantum del tributo, arrestandosi unicamente di fronte agli atti dell’esecuzione tributaria).
Su queste premesse, in caso di ricorso al procedimento di riscossione mediante ruolo, legittimamente il contribuente fa valere la limitazione della propria responsabilità ai limiti espressi dalla quota nella propria titolarità con l’impugnazione della cartella di pagamento. La notificazione della cartella risponde, infatti, da un lato, alla finalità di portare a conoscenza del contribuente l’estratto del ruolo al fine di far decorrere i termini per l’impugnazione, dall’altro a una funzione eminentemente prodromica all’esecuzione forzata.
La cartella non è, in definitiva, un atto dell’esecuzione forzata; per converso, essa è un atto della riscossione, procedura la cui peculiarità sta nella sequenza così articolata: in luogo del titolo esecutivo, il ruolo formato dall’ente impositore (arg. ex art. 49, 1° comma del d.P.R. 602/73); in luogo del precetto, la cartella di pagamento (cfr. Cass. n. 6721 del 2012; Cass. n. 384 del 2016 e Cass. n. 18002 del 2016) o l’avviso di mora o intimazione di pagamento (cfr. Cass. n. 13483 del 2007, Cass. n. 3374 del 2012). Non si può dubitare che, in materia tributaria, sia ammissibile impugnare la cartella per far valere la limitazione della propria responsabilità ai limiti rappresentati dalla quota sociale. In effetti, il controllo della legittimità delle cartelle, configuranti atti di riscossione e non di esecuzione forzata, spetta a quel giudice in base alla previsione degli art. 2, comma 1, e 19, lett. d), D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, quando le cartelle riguardino tributi (Cass., Sez. Un., n. 5994 del 2012). Al giudice tributario è attribuita, in ultima analisi, la cognizione di tutte le questioni relative ad atti che riguardino tributi, inerenti alla fase della riscossione (Cass., Sez. Un., n. 9840 del 2011).
Il secondo motivo, concernente il capo delle spese, è infondato.
Il giudice d’appello si è pronunciato sugli esborsi sostenuti durante il giudizio dalle parti, sufficientemente motivando la relativa statuizione con il riferimento alla regola della soccombenza di cui all’art. 91 c.p.c.
Benché la parte ricorrente adombri la violazione di detta regola, non è dato ravvisare alcun contrasto col relativo paradigma precettivo.
Alla base della regola della soccombenza e della conseguente condanna della parte che ha perso la causa -nella specie l’agente della riscossione -al pagamento delle spese di lite milita il principio di tutela dell’effettività del diritto di difesa (art. 24 Cost.), alla cui stregua la parte vittoriosa non deve essere gravata delle spese
sostenute per la causa; diversamente essa sconterebbe, infatti, un pregiudizio economico per il solo fatto di aver agito in giudizio per il riconoscimento di un proprio diritto.
Né una deroga ai principi della soccombenza, suscettibile di far gravare una parte degli esborsi processuali in capo alla parte vittoriosa, è suscettibile d’essere integrata dalla natura del ruolo esercitato dall’agente della riscossione, dalla declinazione delle sue funzioni, dai suoi rapporti funzionali con l’ente impositore e dagli obblighi nei confronti di quest’ultimo, men che meno dalla peculiarità dell’azione esattiva. Il piano delle regole che sovrintendono al tessuto dei rapporti fra agente della riscossione ed ente impositore e alla dinamica dei relativi obblighi non lambiscono la sfera giuridica della contribuente, né escludono quella difformità tra la decisione del giudice e le richieste ad esso rivolte, che sostanzia, nel caso di specie, la rilevata soccombenza della parte ricorrente.
Il ricorso, pertanto, va rigettato. Le spese sono regolate, anche stavolta, dalla soccombenza e liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio, che liquida in euro 2.400,00, oltre euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese forfettarie e gli accessori di legge .
Così deciso in Roma, il 09/10/2024.