Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 3792 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 3792 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: PAOLITTO LIBERATO
Data pubblicazione: 12/02/2024
RAGIONE_SOCIALE;
-intimata – avverso la sentenza n. 6866/44/14, depositata il 10 luglio 2014, della Commissione tributaria regionale della Campania;
udita la relazione della causa svolta, nella camera di consiglio del 19 ottobre 2023, dal AVV_NOTAIO.
TARSU TIA TARES Accertamento
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6022/2015 R.G. proposto da RAGIONE_SOCIALE, in persona del suo legale rappresentante p.t. , con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME AVV_NOTAIO, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME ;
-ricorrente – contro
Rilevato che:
-con sentenza n. 6866/44/14, depositata il 10 luglio 2014, la Commissione tributaria regionale della Campania ha rigettato l’appello proposto da RAGIONE_SOCIALE avverso la decisione di prime cure che, a sua volta, aveva disatteso l’impugnazione di un avviso di accertamento emesso ai fini del recupero a tassazione della TARSU dovuta dalla contribuente per l’anno 2012;
1.1 -a fondamento del decisum , il giudice del gravame ha considerato che:
-l’avviso di accertamento risultava compiutamente motivato in quanto esponeva «elementi sufficienti per l’individuazione dei presupposti su cui si fonda la pretesa impositiva»;
il giudice del primo grado aveva rilevato che la soggettività passiva della contribuente si correlava alla disposizione di cui al d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 63, e, dunque, alla sua posizione di gestore dei servizi comuni, gestione che «sino all’anno 2004, … era stata demandata alla società RAGIONE_SOCIALE, per poi passare alla società RAGIONE_SOCIALE, che nei contratti di locazione risultava conservare la disponibilità del centro»;
detta ricostruzione della fattispecie impositiva andava confermata dovendosi rilevare che: a) – dalla prodotta documentazione non emergeva che la contribuente avesse assolto al suo obbligo dichiarativo «ai fini dell’individuazione del soggetto passivo gravato da imposta», con riferimento alle «unità concesse in locazione» oltreché agli spazi dalla stessa tuttora occupati; né una siffatta individuazione rimaneva possibile in ragione dello «accatastamento in un unico cespite dell’intera proprietà, dell’estensione di mq.4.656,80»; b) – nemmeno risultava provato che i locali in questione fossero rimasti chiusi per difetto delle necessarie autorizzazioni, e dalla stessa documentazione prodotta emergeva che, per l’anno di imposizione (2012), « i locali
erano muniti di titolo abilitativo per potere essere destinati a centro commerciale.»; c) -del pari priva di ogni riscontro rimaneva l’allegazione della contribuente in ordine ad avvisi di accertamento emessi nei confronti dei soggetti che occupavano i locali locati, né risultava che la tassa fosse stata corrisposta da detti soggetti;
– RAGIONE_SOCIALE ricorre per la cassazione della sentenza sulla base di quattro motivi, ed ha depositato memoria;
RAGIONE_SOCIALE non ha svolto attività difensiva.
Considerato che:
-il ricorso è articolato sui seguenti motivi:
1.1 -col primo motivo, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la ricorrente denuncia violazione dell’art. 2697 cod. civ., deducendo che l’onere della prova della ricorrenza, nella fattispecie, del presupposto impositivo gravava su controparte (sull’ente impositore) così che non trovava fondamento l’asserzione del gi udice del gravame in ordine ad un (supposto) obbligo di «rappresentazione» al Comune delle unità concesse in locazione, e degli spazi occupati, e atteso che, in corso di giudizio, essa esponente aveva dedotto (e documentato) la concessione in locazione delle superfici del RAGIONE_SOCIALE, oltrechè di non essere il gestore del RAGIONE_SOCIALE e di non detenere locali;
1.2 -il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., espone la denuncia di violazione e falsa applicazione del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 63, comma 3, assumendo la ricorrente che:
nel primo grado di giudizio essa esponente aveva contestato di dover assolvere al tributo in difetto di detenzione delle aree e superfici sopposte a tassazione, queste identificandosi con superfici concesse in locazione;
sulla contestazione di controparte, il giudice del primo grado desumeva in termini apodittici dai contratti di locazione la sua posizione di soggetto gestore del RAGIONE_SOCIALE;
col gravame, poi, si erano ribadite le allegazioni svolte col ricorso introduttivo -quanto alla tassazione di superfici concesse in locazione (non anche di parti comuni) -e controparte aveva «assurdamente» prospettato l’eventualità che sussistessero «p iù gestori dello stesso centro commerciale», senza però dimostrare che «la superficie tassata fosse quella delle ‘parti comuni’»;
1.3 -il terzo motivo espone la denuncia di violazione dell’art. 111 Cost. sull’assunto che il giudice del gravame aveva definito il giudizio sulla base di ragioni «apodittiche ed insufficienti» – siccome dalla motivazione della sentenza non emergeva «se la Commissione intendesse riferirsi, o meno, all’imposta relativa agli spazi comuni» – e, comunque, su di una «superficiale lettura dei contratti di fitto depositati», alla cui stregua avrebbe dovuto rilevare che oggetto di tassazione erano le superfici concesse in locazione;
soggiunge la ricorrente che la gravata sentenza aveva omesso di esaminare un fatto decisivo da correlare al presupposto impositivo delineato dal d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 63, comma 3, ossia se detto presupposto debba identificarsi con le superfici in proprietà della contribuente ovvero diversamente da riferire agli «spazi comuni»;
1.4 -il quarto motivo, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., espone la denuncia di violazione della l. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, e , ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., dell’art. 2909 cod. civ. , deducendo la ricorrente che l’avviso di accertamento in contestazione difettava di motivazione in quanto non specificava «a quali superfici (spazi comuni od altro) si riferisca la superficie tassata; … gli estremi catastali dell’immobile tassato né gli estremi delle delibere comunali di approvazione delle tariffe», profili
della motivazione, questi, che controparte (solo) in giudizio aveva specificato;
-il ricorso -che pur prospetta profili di inammissibilità – è, nel suo complesso, destituito di fondamento, e va senz’altro disatteso;
-occorre premettere che la gravata sentenza ha recepito, nella sostanza, l’accertamento in fatto operato dal giudice del primo grado, e la conseguente qualificazione della fattispecie impositiva, rilevando che la situazione giuridica soggettiva della contribuente, quale gestore dei servizi comuni, poteva desumersi dai prodotti contratti di locazione dal cui esame risultava che la stessa aveva conservato «la disponibilità del centro» commerciale, così che detta gestione «sino all’anno 2004, … era stata demandata alla società RAGIONE_SOCIALE, per poi passare alla società RAGIONE_SOCIALE»; ed ha soggiunto, per un verso, che non era stato assolto l’obbligo dichiarativo e, per il restante, che la tassa non era stata corrisposta dai (né per vero azionata in avviso di accertamento nei confronti dei) detentori dei locali oggetto di locazione;
la fattispecie in contestazione, così, è stata ricondotta alla disposizione di cui al d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 63, comma 3, alla cui stregua «Nel caso di locali in multiproprietà e di centri commerciali integrati il soggetto che gestisce i servizi comuni è responsabile del versamento della tassa dovuta per i locali ed aree scoperte di uso comune e per i locali ed aree scoperte in uso esclusivo ai singoli occupanti o detentori, fermi restando nei confronti di questi ultimi gli altri obblighi o diritti derivanti dal rapporto tributario riguardante i locali e le aree in uso esclusivo.»;
-tanto premesso, non sussiste la violazione dell’art. 2697 cod. civ., oggetto di censura col primo motivo, atteso che detta violazione si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto
gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni;
– come appena rilevato, difatti, il giudice del gravame – senza alterare l’ordine degli oneri probatori gravanti sulle parti del giudizio, -ha tratto elementi di riscontro della pretesa impositiva dalla stessa fonte probatoria offerta al giudizio dai contribuenti (contratti di locazione); e, come la Corte ha ripetutamente rilevato, in forza del principio di acquisizione processuale le risultanze istruttorie, comunque ottenute, e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale sono formate, concorrono tutte, indistintamente, alla formazione del convincimento del giudice, senza che la diversa provenienza possa condizionare tale formazione in un senso o nell’altro. (v., ex plurimis , Cass., 27 ottobre 2020, n. 23490; Cass., 25 febbraio 2019, n. 5409; con riferimento al rito tributario v., altresì, Cass., 15 settembre 2022, n. 27241; Cass., 30 ottobre 2006, n. 23353; Cass., 29 settembre 2005, n. 19077);
5. -a riguardo, ora, del secondo motivo, va considerato che -così com’è inequivoco sulla base della (sopra ripercorsa) motivazione della gravata sentenza -l’oggetto della tassazione è stato ricondotto (proprio) alle superfici concesse in locazione, ed alla posizione di gestore dei servizi comuni, così che il decisum si pone in linea con la giurisprudenza della Corte che, per l’appunto, ha statuito che, per i centri commerciali integrati (e i locali in multiproprietà), la soggettività passiva va identificata in coloro che occupano o detengono i locali in uso esclusivo, mentre chi gestisce i servizi comuni è responsabile in solido, come si desume dall’art. 63 del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, il quale contrappone colui dal quale “la tassa è dovuta” (comma 1) a colui che ne “è responsabile” (comma 3), nonché dal soppresso comma 4 del medesimo articolo, che prevedeva l’obbligo del responsabile di presentare al Comune l’elenco dei singoli occupanti,
all’evidente scopo di consentire all’amministrazione di perseguire il debitore principale del tributo (Cass., 28 gennaio 2010, n. 1848 cui adde , ex plurimis , Cass., 18 ottobre 2018, n. 26201; Cass., 23 maggio 2018, n. 12745);
-non sussiste, quindi, il difetto di motivazione della gravata sentenza, dedotto col terzo motivo, in quanto -come reso evidente dai rilievi sin qui svolti -il giudice del gravame ha compiutamente motivato in punto tanto di accertamento del presupposto impositivo quanto di conseguente qualificazione di fattispecie impositiva (ricondotta alla disposizione relativa alla responsabilità di imposta ex art. 63, comma 3, cit.);
come appena rilevato, poi, il decisum pianamente si riferisce alle «unità concesse in locazione» – dunque ai «locali ed aree scoperte in uso esclusivo ai singoli occupanti o detentori» (art. 63, comma 3, cit.) -né parte ricorrente ha articolato una qualche specifica censura in punto di interpretazione del contenuto dei contratti di locazione oggetto di esame da parte dei giudici del merito;
come, difatti, la Corte ha già statuito in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nell’ipotesi di violazione dei canoni legali d’interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e seguenti c.c., così che il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali (Cass., 9 settembre 2022, n. 26557; Cass., 9 aprile 2021, n. 9461; Cass., 25 novembre 2019, n. 30686; Cass., 16 gennaio 2019, n. 873; Cass., 15 novembre 2017, n. 27136);
i rilievi sin qui svolti danno, poi, conto dell’inconferenza del richiamo, operato dalla ricorrente, a precedenti della Corte che hanno cassato, con rinvio, le pronunce (allora) impugnate, venendo in considerazione in quei casi (e non qui) il difetto di una motivazione fondata su «argomenti privi di specifica concludenza (siccome desunti dalle allegazioni di parte resistente, senza che dette allegazioni siano state sottoposte al riscontro delle prove documentali prodotte in atti), sicché concretamente non emerge dal tenore complessivo della motivazione della sentenza quali siano le specifiche ragioni per le quali le censure sono state ritenute infondate» (Cass., 25 novembre 2014, n. 25038; Cass., 20 novembre 2014, n. 24705, n. 24704 e n. 24703);
-il quarto motivo si prospetta come inammissibile innanzitutto perché all’evocazione della violazione dell’art. 2909 cod. civ. non si correla una qualche deduzione in ordine al giudicato che (così) sarebbe stato violato;
-quanto, poi, al difetto di motivazione dell’atto impositivo, ed a fronte dell’accertamento in fatto condotto dal giudice del gravame -secondo il quale l’avviso di accertamento risultava compiutamente motivato perchè esponeva «elementi sufficienti per l’individuazione dei presupposti su cui si fonda la pretesa impositiva» – la censura articolata si risolve in una mera riproposizione di una tesi difensiva connotata da anomia in ordine agli effettivi contenuti dell’atto che, così, non vengono riprodotti, nemmeno in sintesi deduttiva;
-il motivo di ricorso non dà, pertanto, alcun conto dell’effettivo contenuto motivazionale oggetto di contestazione e nemmeno mette la Corte nella condizione di poter verificare il denunciato deficit di motivazione;
come, poi, la Corte ha ripetutamente rimarcato, la censura involgente la congruità della motivazione dell’avviso di accertamento necessariamente richiede che il ricorso per cassazione riporti i passi
della motivazione dell’atto che, per l’appunto, si assumano erroneamente interpretati o pretermessi (v. Cass., 13 agosto 2004, n. 15867 cui adde , ex plurimis , Cass., 19 novembre 2019, n. 29992; Cass., 28 giugno 2017, n. 16147; Cass., 19 aprile 2013, n. 9536; Cass., 4 aprile 2013, n. 8312; Cass., 29 maggio 2006, n. 12786);
9. – le spese del giudizio di legittimità non vanno regolate tra le parti, in difetto di svolgimento di attività difensiva della parte rimasta intimata mentre, nei confronti della ricorrente, sussistono i presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, se dovuto (d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, c. 1quater ).
P.Q.M.
La Corte
-rigetta il ricorso;
-ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 19 ottobre 2023.