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Responsabilità del commercialista e onere della prova

Una società ha impugnato un avviso di accertamento fiscale, adducendo errori del proprio commercialista. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, stabilendo che per escludere la propria responsabilità, il contribuente deve fornire un rigoroso onere della prova, dimostrando non solo la condotta fraudolenta del professionista, ma anche di aver esercitato un’adeguata e costante vigilanza sul suo operato. La sentenza ribadisce che le presunzioni dell’Agenzia delle Entrate, se gravi, precise e concordanti, sono sufficienti a legittimare l’accertamento, specialmente in presenza di comportamenti antieconomici non giustificati.

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Pubblicato il 9 dicembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

La responsabilità del commercialista non è una scusa: la Cassazione delinea l’onere della prova del contribuente

Affidarsi a un professionista per la gestione fiscale è una prassi comune per le imprese, ma cosa succede quando emergono errori che portano a pesanti accertamenti fiscali? È possibile scaricare completamente la colpa sul consulente? Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 21560/2024) fa luce su questo tema delicato, chiarendo i confini della responsabilità del commercialista e, soprattutto, il rigoroso onere della prova che grava sul contribuente per poter essere esentato dalle sanzioni.

I Fatti di Causa

Una società a responsabilità limitata si è vista notificare un avviso di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate per l’anno d’imposta 2015. L’atto contestava un maggior reddito d’impresa di oltre 155.000 euro e un’IVA non versata per circa 71.000 euro. Le contestazioni si basavano principalmente su due rilievi: l’omessa fatturazione di operazioni imponibili per 310.000 euro, annotate nel conto contabile “vendita merci”, e ricavi non dichiarati per oltre 12.000 euro.

La società ha impugnato l’accertamento, sostenendo che le annotazioni contabili fossero “artificiose”, create dal proprio consulente contabile al solo scopo di evitare la contabilizzazione di una perdita e non allarmare il sistema bancario. In sostanza, la difesa si fondava sull’attribuzione della colpa al professionista incaricato. Sia la Commissione Tributaria Provinciale che quella Regionale avevano però respinto le ragioni dell’azienda, portando il caso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso della società, confermando la legittimità dell’accertamento fiscale. La decisione si articola su tre punti fondamentali: la reiezione del vizio procedurale, la validità dell’accertamento basato su presunzioni e, soprattutto, la definizione dei limiti della scusante legata alla condotta del professionista.

Analisi delle motivazioni: accertamento induttivo e comportamento antieconomico

I giudici di legittimità hanno innanzitutto chiarito che l’Agenzia delle Entrate può legittimamente utilizzare l’accertamento induttivo basato su presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti. Questo è possibile anche quando la contabilità è formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile, ad esempio a causa di un comportamento palesemente antieconomico del contribuente.

Nel caso di specie, la società non è riuscita a fornire prove convincenti per superare le presunzioni dell’Ufficio. La giustificazione secondo cui le registrazioni di ricavi fossero fittizie per “rimediare a precedenti errori” o per non allarmare le banche non è stata ritenuta sufficiente a dimostrare la regolarità delle operazioni. La Corte ha ribadito un principio consolidato: di fronte a un’accertata antieconomicità, spetta al contribuente l’onere di fornire spiegazioni valide e documentate.

La vera estensione della responsabilità del commercialista

Il punto cruciale della sentenza riguarda il terzo motivo di ricorso, incentrato sulla violazione di norme che prevedono la non punibilità del contribuente in caso di illecito del professionista. La società aveva anche menzionato l’assoluzione del proprio amministratore in un procedimento penale per un reato fiscale connesso.

La Cassazione ha smontato questa linea difensiva, richiamando l’orientamento consolidato delle Sezioni Unite. Per ottenere l’esimente dalle sanzioni, non è sufficiente denunciare il commercialista o provare la sua condotta negligente o fraudolenta. Il contribuente deve dimostrare due elementi fondamentali:

1. La condotta fraudolenta del professionista, finalizzata a mascherare il proprio inadempimento (ad esempio, falsificando modelli F24 o ricevute telematiche).
2. L’aver esercitato un’adeguata e costante attività di vigilanza sull’operato del professionista. Questo include il controllo sulla corretta e puntuale esecuzione del mandato.

In altre parole, il contribuente non può limitarsi a un mero affidamento passivo. È tenuto a un ruolo attivo di controllo, che non si esaurisce con la semplice delega. La Corte ha concluso che la società non aveva fornito alcun elemento concreto per dimostrare né la specifica condotta fraudolenta del consulente, né di aver vigilato sulla corretta esecuzione dell’incarico.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche per Imprese e Professionisti

Questa sentenza invia un messaggio chiaro a tutte le imprese: la delega degli adempimenti fiscali a un professionista esterno non comporta una delega della responsabilità. Per essere tutelati in caso di errori, è indispensabile adottare un approccio proattivo e diligente.

Le aziende devono implementare procedure di controllo interno per monitorare l’operato dei propri consulenti, richiedendo periodicamente la documentazione che attesti l’avvenuto adempimento degli obblighi fiscali (come le ricevute di presentazione delle dichiarazioni e le quietanze di pagamento). Affermare semplicemente di essere stati ingannati, senza poter provare di aver fatto tutto il possibile per evitarlo, non sarà sufficiente a scagionarsi di fronte al Fisco.

È sufficiente incolpare il proprio commercialista per evitare sanzioni fiscali?
No. Secondo la Cassazione, non è sufficiente. Il contribuente deve fornire una prova rigorosa, dimostrando non solo la condotta fraudolenta del professionista finalizzata a nascondere l’inadempimento, ma anche di aver esercitato un’adeguata e costante vigilanza sul suo operato.

L’Agenzia delle Entrate può basare un accertamento su presunzioni se la contabilità è formalmente corretta?
Sì. Se la contabilità, pur essendo formalmente regolare, è considerata intrinsecamente inattendibile (ad esempio per un comportamento palesemente antieconomico), l’Amministrazione finanziaria può ricostruire il reddito sulla base di presunzioni, purché siano gravi, precise e concordanti. L’onere di provare il contrario spetta al contribuente.

L’assoluzione penale dell’amministratore per un reato fiscale esclude automaticamente le sanzioni amministrative per l’azienda?
No. La sentenza chiarisce che una denuncia penale o persino un’assoluzione in sede penale non sono di per sé sufficienti a escludere le sanzioni amministrative. Ai fini fiscali, il contribuente deve comunque dimostrare di aver adempiuto al proprio obbligo di vigilanza sul professionista incaricato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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