Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 21560 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 5 Num. 21560 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 31/07/2024
ha emesso la seguente ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 2513/2022 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, nella persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO, giusta procura rilasciata ex art. 83 cod. proc. civ. ed allegata alla busta di deposito telematico del ricorso per cassazione.
(pec:EMAIL).
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, nella persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i
cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO.
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della CAMPANIA, n. 4874/03/2021, depositata in data 11 giugno 2021, non notificata; udita la relazione della causa udita svolta nella pubblica udienza del 23 aprile 2024, dal Consigliere NOME COGNOME; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. AVV_NOTAIO
COGNOME, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
FATTI DI CAUSA
La società contribuente RAGIONE_SOCIALE aveva impugnato la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Napoli n. 12100/34/19 depositata il 20 novembre 2019, con cui era stato rigettato il ricorso proposto avverso l’avviso n. NUMERO_DOCUMENTO, notificato in data 25 marzo 2019 con il quale era stato accertato, ai sensi dell’art. 39, comma 1, e 41 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, un reddito d’impresa pari ad euro 155.623,00 a fronte di quello dichiarato di euro 51.416,00, derivante dal recupero di costi per euro 24.752,00 e dall’omessa contabilizzazione dei ricavi per euro 79.419,39 e, ai sensi dell’art. 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, era stata recuperata un’Iva per un ammontare di euro 70.934,00, nel periodo d’imposta anno 2015.
La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello della società contribuente, per quanto rileva in questa sede, sulla base RAGIONE_SOCIALE seguenti considerazioni:
-) sul rilievo n. 2 (omessa fatturazione di operazioni imponibili): l’appello era infondato in quanto l’Ufficio, sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, aveva tratto in maniera induttiva il recupero
a tassazione di operazioni imponibili non dichiarate e risultanti da annotazioni operate dalla società stessa che costituivano proprio la circostanza fondante la presunzione; a fronte di ciò, la società contribuente non aveva provato che l’annotazione dei ricavi era stata artificiosamente fatta e, in ogni caso, tala prova era stata superata dalla controdedotta antieconomicità dell’attività aziendale in assenza di quei ricavi;
-) sul rilievo n. 4 (ricavi non dichiarati): l’appello era infondato in quanto, così come per il rilievo n. 2, a fronte della prova fornita dall’Ufficio, la società non aveva assolto l’onere di dimostrare la regolarità RAGIONE_SOCIALE operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità RAGIONE_SOCIALE stesse;
-) sulla violazione dell’art. 1 della legge n. 423 del 1995, che prevedeva la sospensione RAGIONE_SOCIALE soprattasse e RAGIONE_SOCIALE pene pecuniarie in caso di ritardo o di omesso versamento per la condotta imputabile al commercialista, non risultava che la società contribuente avesse dimostrato, in concreto, la condotta fraudolenta del commercialista al di là della denuncia penale operata nei suoi confronti.
La società RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a tre motivi.
L’RAGIONE_SOCIALE resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., error in procedendo e nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.. I giudici di appello avevano omesso di pronunciarsi sul motivo di appello con il quale la società RAGIONE_SOCIALE aveva dedotto la violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. e dell’art. 36, secondo comma, del decreto legislativo n. 546 del 1992 (trascritto, nel
rispetto del principio di autosufficienza, alle pagine 5 e 6 del ricorso per cassazione).
1.1 Il motivo è infondato.
1.2 Osserva il Collegio come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello, così come l’omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio, si risolve nell’inosservanza del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, che comporta il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda di merito (Cass., 13 ottobre 2022, n. 29952).
1.3 In giurisprudenza è stato, in tal senso, più volte affermato che il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo RAGIONE_SOCIALE parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione, attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur mantenendosi nell’ambito del petitum , rilevi d’ufficio un’eccezione in senso stretto che, essendo diretta ad impugnare il diritto fatto valere in giudizio dall’attore, può essere sollevata soltanto dall’interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo una causa petendi nuova e diversa da quella enunciata dalla parte a sostegno della domanda (Cass., 3 luglio 2019, n. 17897; Cass. 24 settembre 2015, n. 18868).
1.4 Va da sé che ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto; ciò non si verifica, in particolare, quando la decisione adottata comporti la
reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione (Cass., 4 giugno 2019, n. 15255).
1.5 Inoltre, non ricorre il vizio di omesso esame di un punto decisivo della controversia se l’omissione riguarda una tesi difensiva o un’eccezione che, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto della tesi o dell’eccezione, sicché il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento ( art. 112 cod. proc. civ.), bensì come violazione di legge e come difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto (Cass., 14 marzo 2018, n. 6174; Cass., 6 novembre 2020, n. 24953 e, più di recente, Cass., 8 maggio 2023, n. 12131).
1.6 Tanto premesso, nel caso di specie, appare evidente che la Commissione tributaria regionale, esaminando nel merito i motivi di appello, abbia implicitamente rigettato il primo motivo di appello con il quale la società ricorrente aveva dedotto il difetto di motivazione della sentenza di primo grado.
1.7 Mette conto rilevare, peraltro, che anche nel processo tributario, al pari del rito ordinario, il vizio di omessa pronunzia, come quello di pronuncia «ultra petitum», non rientra fra quelli tassativamente indicati dall’art. 59 del decreto legislativo n. 546 del 1992, come suscettibili di far insorgere i presupposti per la regressione del processo dallo stadio di appello a quello precedente, ma comporta la necessità, per il giudice d’appello che dichiari il vizio, di porvi rimedio, trattenendo la causa e decidendola nel merito, senza che a ciò osti il principio del doppio grado di giurisdizione, che è privo di rilevanza costituzionale (Cass., 30 agosto 2006, n. 18824 e, più di recente, Cass., 12 dicembre
2018, n. 32126) e, dunque, anche sotto questo profilo è inammissibile per carenza di interesse la censura della società ricorrente riferita all’omesso esame della doglianza formulata davanti al giudice di appello, concernente il difetto di motivazione della sentenza resa di primo grado, dovendo comunque il giudice del gravame pronunciare, quando siano stati formulati i relativi motivi, come nel caso che ci occupa, anche sul merito RAGIONE_SOCIALE questioni che siano state ritualmente sottoposte al suo esame.
Il secondo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., in relazione all’art. 2697 c.c. ed all’art. 39 e all’art. 41 bis del d.P.R. n. 600 del 1973. La decisione impugnata non aveva rilevato l’erroneità del rilievo n. 2 (omessa fatturazione di operazioni imponibili per euro 310.000,00 annotate nel conto n. 47.01.03, denominato «vendita merci») e del rilievo n. 4 (ricavi non dichiarati per euro 12.462,55), non sorretto da valide presunzioni e contrario alle norme innanzi richiamate, come dedotto nei motivi del ricorso introduttivo (pagine 4 e 6 per il rilievo n. 2 e pagine 6 e 7 per il rilievo n. 4) e come ribadito nelle pagine 5 e 6 dell’atto di appello per il rilievo n. 2 e nella pagine 6 e 7 dell’atto di appello per il rilievo n. 4 (trascritti , nel rispetto del principio dell’autosufficienza , alle pagine 7 -10 del ricorso per cassazione).
2.1 Il motivo è inammissibile, in quanto si tratta di una doglianza diretta, con evidenza, a censurare una erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione RAGIONE_SOCIALE risultanze probatorie di causa, che non costituiscono vizio di violazione di legge (Cass., 19 agosto 2020, n. 17313).
2.2 Ed invero, la Commissione tributaria regionale ha rilevato: 1) sul rilievo n. 2 che l’Ufficio aveva evidenziato che dall’esame del conto «vendita merci», n. 47.01.03, era emersa l’annotazione di ricavi per complessivi euro 310.000,00, senza emissione di fattura ed
identificazioni dei clienti e che la società contribuente, in merito, aveva dedotto che i ricavi derivanti dalla vendita di merci erano il frutto di una artificiosa scrittura contabile, rilevante solo sul piano civilistico e non anche fiscale (era stata riportata unicamente nel libro giornale e nelle schede di mastro e non configurava nel registro RAGIONE_SOCIALE vendite) fatta dal consulente della società al solo scopo di evitare la contabilizzazione di una perdita che avrebbe potuto compromettere l’affidabilità del la società verso il sistema bancario; 2) sul rilievo n. 4 che l’Ufficio aveva rilevato dall’esame della scheda contabile del fornitore «Pellegrini», conto n. 33.03.01, l’annotazione al 31 dicembre 2015 di un credito di euro 12.462,55 e che in assenza di spiegazione da parte della società contribuente lo aveva ritenuto un credito derivante da una cessione in nero e che la società contribuente aveva dedotto che detta somma era stata iscritta in contabilità come posta rettificativa dal consulente contabile per rimediare a precedenti errori; i giudici di secondo grado, dunque, a fronte della prova fornita dall’Ufficio, hanno ritenuto che la società non aveva assolto l’onere di dimostrare, in relazione ad entrambi i rilievi, la regolarità RAGIONE_SOCIALE operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità dell ‘attività aziendale in assenza di quei ricavi (cfr. pagine 2 e 3 della sentenza impugnata).
2.3 Ciò, peraltro, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui « L’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi dell’ art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600/1973 e dell’ art. 54, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 633/1972, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente, utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo sul contribuente
l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza RAGIONE_SOCIALE proprie dichiarazioni. Gli elementi assunti a fonte di presunzione, peraltro, non devono essere necessariamente plurimi, potendosi il convincimento del giudice fondare anche su di un elemento unico, purché preciso e grave, la cui valutazione non è sindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata » (Cass., 22 aprile 2022, n. 12836; Cass., 5 dicembre 2022, n. 35713; Cass., 22 luglio 2021, n. 21128; Cass., 14 maggio 2020, n. 8926; Cass., 30 ottobre 2018, n. 27552).
2.4 Inoltre, è orientamento pacifico di questa Corte che « Nel giudizio tributario, una volta contestata dall’erario l’antieconomicità di un comportamento posto in essere dal contribuente, poiché assolutamente contrario ai canoni dell’economia, incombe sul medesimo l’onere di fornire, al riguardo, le necessarie spiegazioni, essendo – in difetto – pienamente legittimo il ricorso all’accertamento induttivo da parte dell’amministrazione, ai sensi degli artt. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 del d.P.R. n. 633 del 1972 » (Cass., 22 luglio 2021, n. 21128) e che « La tenuta della contabilità in maniera formalmente regolare, in tema di imposte sui redditi, non è di ostacolo alla rettifica RAGIONE_SOCIALE dichiarazioni fiscali e, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento su base presuntiva, ed il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie » (Cass., 14 ottobre 2020, n. 22185).
2.5 E’ utile precisare, in proposito, che questa Corte ha affermato che « l’antieconomicità della gestione di un’impresa non può verificarsi solo quando essa concluda il proprio esercizio annuale con una perdita, ma
anche quando chiuda il bilancio con un utile talmente esiguo, a fronte di ingenti investimenti sostenuti, da far ritenere senz’altro sconveniente il rischio d’impresa sopportato in rapporto al risultato conseguito » (Cass., 5 dicembre 2019, n. 31814, in motivazione) e ciò sul presupposto, condiviso anche dalla dottrina, che l’attività produttiva è condotta con metodo economico quando è diretta al procacciamento di entrate remunerative dei fattori produttivi utilizzati mediante lo svolgimento con modalità tali da consentire, nel lungo periodo, la copertura dei costi con i ricavi, assicurando in tal modo l’autosufficienza economica.
2.6 Così questa Corte ha qualificato come condotte antieconomiche, con la conseguente possibilità di rideterminazione del reddito imponibile del contribuente sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, il sostenimento di spese per opuscoli informativi, per un ammontare pari a circa il 13% dell’intero ammontare dei ricavi annui, ad un costo unitario altrettanto elevato e senza produrre alcuno studio o un piano industriale da cui potesse emergere l’utilità in futuro dell’acquist o degli opuscoli (Cass., 2 febbraio 2022, n. 2224); la presenza di perdite rilevanti per quattro esercizi consecutivi, senza che la contribuente avesse fornito le ragioni incidenti negativamente sulla propria attività, limitandosi, invece, ad elencare i costi sostenuti (Cass., 22 gennaio 2021, n. 1282); l’uso di percentuali di ricarico inferiori alla media del settore unita ad una persistente perdita di esercizio negli anni di riferimento, da un reddito di esercizio negativo e non idoneo a remunerare il lavoro dei soci, da un elevatissimo costo del lavoro, peraltro progressivamente aumentato in modo inversamente proporzionale al trend degli utili, tendente al ribasso (Cass., 14 ottobre 2020, n. 22185); l ‘ abnormità della percentuale di ricarico e lo spropositato divario esistente tra la percentuale di ricarico applicata dalla società contribuente (3.3%) e quella applicata dall’Ufficio (Cass. , 24 settembre 2020, n. 20068); la
presenza di utili di esercizio irrisori per cinque annualità consecutive accompagnati ad un ricarico sulle vendite pari ad un quinto di quello normalmente applicato, con contestuale apertura di numerosi punti vendita in zone prestigiose della città di Roma (Cass., 27 maggio 2020, n. 9901); una evidente sproporzione tra risultato economico dell’impresa e costo dei fattori produttivi e specificamente del costo del lavoro dipendente (Cass., 14 maggio 2020, n. 8925).
2.7 Correttamente, dunque, i giudici di secondo grado hanno ritenuto, con un accertamento in fatto non censurabile in sede di legittimità, che la società ricorrente, aveva posto in essere un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia e che la società ricorrente non aveva adempiuto l’onere probatorio alla stessa spettante circa la regolarità dell’operazione effettuata , limitandosi ad affermare che la somma di euro 310.000,00 « era il frutto di una artificiosa scrittura contabile », che si trattava di ricavi fittizi iscritti in contabilità al fine di non allarmare gli istituti di credito e che il credito di euro 12.462,55 derivava da una posta rettificativa fatta dal precedente professionista allo scopo di rimediare a precedenti errori.
3. Il terzo motivo deduce in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione dell’art. 1 della legge n. 423 del 1995 e dell’art. 6 del decreto legislativo n. 472 del 1997. La pronuncia impugnata violava le norme in epigrafe per i motivi già proposti nelle fasi di merito (riprodotti alle pagine 11 e 12 del ricorso per cassazione) alla luce dei quali la decisione della Commissione tributaria regionale sul punto meritava di essere cassata, con l’ulteriore precisazio ne che l’amministratore della società RAGIONE_SOCIALE, con sentenza del Tribunale di Nola, n. 1360/2021, depositata il 17 giugno 2021, divenuta irrevocabile in data 8 luglio 2021, era stato assolto dal delitto di cui all’art 10 quater del decreto legislativo n. 74 del 2000 (indebite compensazioni con crediti inesistenti) per non avere commesso il fatto, risultando dagli elementi posti a fondamento del
processo e, per quanto qui interessa, dalla versione difensiva e dagli elementi di riscontro forniti dalla società, che sarebbe stato il COGNOME, commercialista fin dal 2005 della società RAGIONE_SOCIALE, tenutario RAGIONE_SOCIALE scritture contabili ed investito della gestione fiscale della società ad aver indotto quest’ultima in errore circa la sussistenza di crediti in compensazione.
3.1 Il motivo è infondato.
3.2 In disparte, il difetto di autosufficienza della censura, laddove la società contribuente non ha trascritto l’intero contenuto della sentenza del Tribunale di Nola n. 1360 del 17 giugno 2021, deve ricordarsi che le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che « In tema di sanzioni tributarie, l’art. 6, comma 3, del d.lgs n. 472 del 1997, prevede una causa generale di non punibilità dei contribuenti per omesso versamento di tributi addebitabile al fatto del professionista incaricato della redazione della denuncia dei redditi, rispetto alla quale l’art. 1 della legge n. 423 del 1995 introduce una disciplina di carattere speciale in relazione alla sospensione della riscossione RAGIONE_SOCIALE soprattasse e RAGIONE_SOCIALE pene pecuniarie, qualora la violazione consegua alla condotta illecita, penalmente rilevante, del predetto professionista, di talché non solo in fase di riscossione, ma anche in sede contenziosa, il contribuente può andare esente da sanzione ove dimostri di aver fornito al professionista incaricato la provvista di quanto dovuto all’Erario e di avere vigilato sul puntuale adempimento del mandato conferito » (Cass., Sez. U., 18 ottobre 2021, n. 28640).
3.3 Ciò posto e più specificamente, avuto riguardo alla responsabilità del professionista incaricato degli adempimenti tributari, questa Corte, con un orientamento consolidato, ha precisato che « In tema di sanzioni amministrative tributarie, l’esimente di cui all’art. 6, comma 3, del D.Lgs. n. 472 del 1997 si applica in caso di inadempimento al pagamento di un tributo imputabile esclusivamente ad un soggetto terzo, purché il contribuente abbia adempiuto all’obbligo di denuncia
all’autorità giudiziaria e non abbia tenuto una condotta colpevole ai sensi dell’art. 5, comma 1, del detto decreto, nemmeno sotto il profilo della culpa in vigilando. Ne consegue che l’applicabilità di detta esimente deve essere esclusa laddove, pur in presenza di denuncia all’autorità giudiziaria del fatto imputabile al terzo, il contribuente non dia anche prova in ordine all’assolvimento a monte dell’obbligo di vigilanza sul puntuale e corretto adempimento del mandato da parte dell’intermediario » (Cass., 5 dicembre 2022, n. 35612) e che « Il contribuente, in caso di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi attribuibile al professionista “infedele”, deve fornire la prova, non solo dell ‘ attività di vigilanza e controllo in concreto esercitata sull’operato di questi, facendosi anche consegnare le ricevute telematiche dell’avvenuta presentazione della dichiarazione, ma anche del comportamento fraudolento del professionista, finalizzato proprio a mascherare il proprio inadempimento all’incarico ricevuto, quindi anche mediante falsificazione di modelli F 24 di pagamento RAGIONE_SOCIALE imposte o RAGIONE_SOCIALE ricevute di ricezione RAGIONE_SOCIALE dichiarazioni telematiche o attraverso altre modalità di difficile riconoscibilità da parte del mandante » ( Cass. 20 luglio 2018, n. 19422; Cass., 11 aprile 2018, n. 8914; Cass., 17 marzo 2017, n. 6930; Cass., 9 giugno 2016, n. 11832; Cass., 18 dicembre 2015, n. 25580).
3.4 Il contribuente, dunque, non assolve agli obblighi tributari con il mero affidamento ad un commercialista del mandato a trasmettere in via telematica la dichiarazione alla competente RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, essendo egli sempre tenuto a vigilare, affinché tale mandato sia puntualmente adempiuto, sicché la sua responsabilità è esclusa solo se viene provato un comportamento fraudolento del professionista, finalizzato a mascherare il proprio inadempimento (Cass., 9 giugno 2016, n. 11832).
3.5 Ciò posto, la Commissione tributaria regionale si è attenuta ai suindicati principi, in quanto ha accertato, con una verifica in fatto non
censurabile in sede di legittimità, che la società contribuente non aveva dimostrato, in concreto, la condotta fraudolenta del commercialista, al di là della denuncia penale operata nei suoi confronti (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata) e che, dunque, non aveva indicato elementi concreti da cui desumere che il comportamento del professionista fosse stato fraudolento ed idoneo ad impedire alla società contribuente di vigilare sulla corretta esecuzione dell’incarico .
4. Per le ragioni di cui sopra, il ricorso deve essere rigettato e la società ricorrente va condannata al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali, sostenute dalla RAGIONE_SOCIALE controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della RAGIONE_SOCIALE controricorrente, RAGIONE_SOCIALE spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 7.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, in data 23 aprile 2024.