Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 7714 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 7714 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 23/03/2025
Oggetto: IRPEF, IRAP ed IVA 2006 – Artt. 39 3 d.P.R. 600/1973 e 55 d.P.R. 602/1973 – Onere della prova dei costi
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 273/2017 R.G. proposto da:
NOMECOGNOME rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. NOME COGNOME elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio del difensore;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , domiciliata in Roma alla INDIRIZZO presso l’Avvocatura generale dello Stato dalla quale è rappresentata e difesa ope legis ;
-controricorrente – avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, n. 4422/35/2016, depositata in data 7 luglio 2016.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21 febbraio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Rilevato che:
L’Agenzia delle entrate emetteva nei confronti di NOME COGNOME esercente la professione di avvocato, l’ avviso di
accertamento n. NUMERO_DOCUMENTO, con cui recuperava a tassazione, per l’anno 2006, ai fini IRPEF, IRAP ed IVA, redditi non dichiarati.
L’avviso traeva origine da un PVC redatto il 9.2.2010 dalla Guardia di Finanza, nel quale si evidenzia va l’omessa dichiarazione dei redditi, per gli anni dal 2004 al 2008. L’Ufficio procedeva, quindi, alla ricostruzione induttiva del reddito tramite i compensi desunti dai modelli 770 presentati dai clienti (tenuti ad operare la ritenuta d’acconto) per cias cun anno, rideterminando, ai fini IRAP, un maggiore valore della produzione pari ad Euro 544.569,00, e, ai fini IRPEF, un reddito pari ad Euro 544.569,00.
Il contribuente proponeva ricorso innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma eccependo l’errata determinazione del reddito, operata senza tenere conto dei costi necessari ad ottenere i ricavi e l’inapplicabilità delle sanzioni in quanto la mancata presentazione della dichiarazione era dipesa da fatto del terzo (il commercialista incaricato dal contribuente del relativo adempimento).
I giudici di prossimità accoglievano in parte il ricorso rideterminando il reddito nelle misure indicate dall’Ufficio in occasione di una precedente proposta di adesione non accettata dal contribuente (Euro 443.655,00 ai fini IRPEF, Euro 453.655,00 ai fini IRAP).
Interposto gravame dal contribuente, la Commissione tributaria regionale del Lazio riformava parzialmente la sentenza di primo grado, in particolare riducendo le sanzioni nella misura del 50%, stante la responsabilità del professionista incaricato della gestione della contabilità, il quale aveva ammesso, in sede di interrogatorio nel corso del procedimento penale sorto a seguito della denuncia sporta dal ricorrente, di non aver presentato le dichiarazioni a causa di carenze del suo studio, riconducibili prevalentemente a suoi collaboratori.
Invece, la doglianza volta al riconoscimento di costi ulteriori a quelli già riconosciuti (pari al 20%) veniva rigettata per difetto di prova.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente, affidato a tre motivi. Resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.
21/02/2025.
È stata, quindi, fissata l’adunanza camerale per il Considerato che:
Con il primo motivo il contribuente deduce la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 39 comma 3 del D.P.R. n. 600 del 1973, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3) c.p.c. ».
Con il secondo motivo lamenta la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 55 D.P.R. n. 633 del 1972, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3) c.p.c.».
Lamenta, in particolare, che ai sensi dell’art. 39, comma 3, cit. ‘il contribuente può comunque far leva sul riconoscimento dei costi sostenuti’ (pag. 5 del ricorso) e, nella specie, aveva dovuto ‘sostenere, nel corso dell’anno di imposta 2004 per cui è processo’, gravosi oneri tipici per la professione svolta, imputabili alle collaborazioni, anche se non dirette, ai contributi per le iscrizioni delle cause a ruolo, alla notificazione ed alla registrazione degli atti giudiziari’ (pag. 6) ed a tutti i costi ordinari (cancelleria, iscrizione all’Ordine, aggiornamento professionale, oneri telefonici, ecc.).
Afferma, poi, che secondo la Suprema Corte per presumere l’esistenza di ricavi superiori a quelli contabilizzati occorrono circostanze gravi, precise e concordanti.
Analizza, inoltre, la normativa in tema di studi di settore e richiama una circolare dell’Agenzia delle entrate (n. 32/E/2006), secondo cui in caso di accertamento induttivo cd. puro l’Ufficio non può non tenere conto dell’incidenza dei costi presuntivamente esistenti.
Lamenta, infine, la violazione dell’art. 2729 cod. civ. perché la sentenza si fonda su una presunzione ‘che non risulta grave, precisa e concordante’ (pag. 12).
I due motivi possono essere esaminati congiuntamente, vertendo sulla medesima questione giuridica, ovvero sulla legittimità dell’accertamento induttivo puro e sulla rilevanza dei costi sostenuti dal contribuente.
3.1. Vanno necessariamente fatte alcune precisazioni in via preliminare.
L’anno d’imposta per cui è l’odierno giudizio è il 200 6, non il 2004 come indicato dal contribuente, evidentemente per un lapsus calami , a pagina 6 del ricorso.
Il richiamo agli studi di settore è inconferente nella specie, non vertendosi in tema di accertamento fondato sugli studi di settore.
Infine, il ricorso sconta una insanabile contraddizione circa la necessità che l’accertamento dell’Ufficio sia fondato o meno su presunzioni gravi, precise e concordanti: mentre a pagina 5 si afferma che l’art. 39, comma 3, d.P.R. n. 600/1973 prevede la possibilità , per l’Ufficio, di avvalersi di presunzioni anche non gravi, precise e concordanti, a pagina 7 si afferma l’esatto contrario sulla scorta di plurime pronunce di questa Corte (‘occorrono circostante gravi, precise e concordanti’) .
3.2. Ciò posto, i motivi sono infondati.
Nella specie, a fronte della mancata presentazione della dichiarazione dei redditi, l’Ufficio ha proceduto all’accertamento con il metodo induttivo puro; quindi, le doglianze confusamente, recte , contraddittoriamente espresse nel ricorso circa la necessità di fondare l’accertamento su presunzioni semplici, dotate cioè di gravità precisione e concordanza, non hanno pregio alcuno. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, infatti, in ipotesi di omessa dichiarazione dei redditi, il ricorso da parte dell’Amministrazione finanziaria all’accertamento induttivo ‘puro’, ovvero fondato su presunzioni supersemplici (non dotate dei requisiti
di gravità, precisione e concordanza), è pienamente legittimo, fermo il diritto del contribuente di allegare documentazione contabile a prova contraria (Cass. 15/11/2018, n. 29479 e Cass. 17/10/2019 n. 26369).
Sotto il profilo dei costi sostenuti dal contribuente ed asseritamente non valutati dall’Ufficio è, invece, sufficiente osservare che, come già bene evidenziato dalla CTR, il contribuente non ha fornito alcuna prova documentale di costi ulteriori rispetto a quelli già riconosciuti dall’Agenzia in sede di accertamento con adesione, né ha indicato la percentuale (diversa e maggiore) d’incidenza di tali costi ulteriori.
4. Con il terzo motivo il contribuente deduce la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 6, comma 3 del decreto legislativo n. 472/1997, ai sensi dell’a rt. 360 comma 1 n. 3) c.p.c.» dolendosi del mancato riconoscimento della responsabilità esclusiva del commercialista incaricato della gestione della contabilità. Richiama la giurisprudenza di questa Corte, a mente della quale non è punibile il contribuente che sia incorso in una violazione imputabile al professionista delegato, pur in assenza di una sentenza penale definitiva di condanna di quest’ultimo. In definitiva, quando l’inadempienza tributaria è addebitabile alla responsabilità del professionista infedele, le sanzioni non sono applicabili, ai sensi dell’art. 6, comma 3, d.lgs. n. 472/1997.
Il motivo è infondato.
Va, al riguardo, ricordato che «in tema di sanzioni per le violazioni di disposizioni tributarie, la prova dell’assenza di colpa grava, secondo le regole generali dell’illecito amministrativo, sul contribuente, il quale, dunque, risponde per l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi da parte del professionista incaricato della relativa trasmissione telematica ove non dimostri di aver vigilato sullo stesso, nonché il comportamento fraudolento del medesimo professionista, finalizzato a mascherare il proprio inadempimento, mediante la falsificazione di modelli F24 ovvero di
altre modalità di difficile riconoscibilità da parte del mandante» (Cass. 20/07/2018, n. 19422; nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto che il contribuente non avesse assolto a tale onere probatorio, essendosi limitato a presentare una denuncia nei confronti del commercialista, senza neppure allegare le modalità con le quali avrebbe celato il proprio comportamento fraudolento).
Mette in conto, peraltro, evidenziare che, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 472 del 1997 -disposizione che nella specie pure rileva e alla quale deve farsi riferimento -la colpa del contribuente si presume. È, infatti, consolidato l’orientamento giuris prudenziale secondo cui, «in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, l’art. 5 d.lgs. n. 472 del 1997, applicando alla materia fiscale il principio sancito in generale dall’art. 3 l. n. 689 del 1981, stabilisce che non è sufficiente la mera volontarietà del comportamento sanzionato, essendo richiesta anche la consapevolezza del contribuente, a cui deve potersi rimproverare di aver tenuto un comportamento, se non necessariamente doloso, quantomeno negligente. È comunque sufficiente la coscienza e la volontà della condotta, senza che occorra la dimostrazione del dolo o della colpa, la quale si presume fino alla prova della sua assenza, che deve essere offerta dal contribuente e va distinta dalla prova della buona fede, che rileva, come esimente, solo se l’agente è incorso in un errore inevitabile, per essere incolpevole l’ignoranza dei presupposti dell’illecito e dunque non superabile con l’uso della normale diligenza» (Cass. 26/03/2019, n. 2139; v. anche Cass. n. 34759 del 2023 cit.).
La centralità dell’obbligo del contribuente di dimostrare d’aver puntualmente vigilato è icasticamente evincibile (come sottolineato da Cass. 05/06/2024, n. 15784) anche dal recente arresto delle Sezioni Unite di questa Corte, a tenore del quale «in tema di sanzioni tributarie, l’art. 6, comma 3, del d.lgs. 472 del 1997 prevede una causa generale di non punibilità dei contribuenti per omesso
versamento di tributi addebitabile al fatto del professionista incaricato della redazione della denuncia dei redditi, rispetto alla quale l’art. 1 della legge n. 423 del 1995 introduce una disciplina di carattere speciale in relazione alla sospensione della riscossione delle soprattasse e delle pene pecuniarie, qualora la violazione consegua alla condotta illecita, penalmente rilevante, del predetto professionista, di talché non solo in fase di riscossione, ma anche in sede contenziosa, il contribuente può andare esente da sanzione ove dimostri di aver fornito al professionista incaricato la provvista di quanto dovuto all’Erario e di avere vigilato sul puntuale adempimento del mandato conferito» (Cass., Sez. U., 18/10/2021, n. 28640).
Alla luce della giurisprudenza appena richiamata non può nella specie riconoscersi l’esclusiva responsabilità del commercialista incaricato dal ricorrente degli adempimenti fiscali e, pertanto, escludersi l’applicazione delle sanzioni in capo al contribuen te, essendo mancata, da parte di questi, la prova di aver vigilato sul professionista (avendo, di contro, solo dimostrato di aver proposto nei suoi confronti una denuncia).
In definitiva, a ben vedere, la CTR, con decisione non impugnata dall’Agenzia delle entrate in parte qua , ha benevolmente riconosciuto una corresponsabilità del professionista nella misura del 50%, decurtando in pari misura le sanzioni irrogate al contribuente, per il solo fatto dell’ammissione di colpa fatta dal commercialista in sede di interrogatorio nel procedimento penale, senza indagare minimamente sull’onere di vigilanza del contribuente, anzi espressamente affermando che questi era stato negligente per non aver ‘adempiuto al suo preciso obbligo di assicurarsi in ordine alla regolare e tempestiva spedizione delle dichiarazioni da parte del professionista con la richiesta di ricevuta’ (pag. 3 della sentenza). Detta circostanza, correttamente considerata, avrebbe dovuto condurre al rigetto totale del motivo di gravame del contribuente.
5. Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Sussistono, infine, i presupposti, ai sensi dell’articolo 13 comma 1quater del d.P.R. n. 115/2002, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente a pagare, in favore dell’Agenzia delle entrate, le spese di lite, che liquida in euro 3.500,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Dà atto della sussistenza dei presupposti, ai sensi dell’articolo 13 comma 1quater del d.P.R. n. 115/2002, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21 febbraio 2025.