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Residente all’estero: rimborso IRPEF legittimo

La Cassazione conferma il diritto al rimborso IRPEF per un lavoratore residente all’estero, tassato sia in Italia che nel Regno Unito. La Corte ha stabilito che la nazionalità del datore di lavoro italiano è irrilevante ai fini della convenzione contro la doppia imposizione, e che la prova della residenza estera può essere fornita con più elementi, inclusi i certificati fiscali stranieri.

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Pubblicato il 19 dicembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Residente all’estero e Tassazione: La Cassazione chiarisce il Diritto al Rimborso

La gestione fiscale per un cittadino italiano residente all’estero che lavora per un’azienda nazionale rappresenta un terreno complesso, spesso al centro di contenziosi con l’Amministrazione Finanziaria. Con la sentenza n. 25424 del 2024, la Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti fondamentali sul diritto al rimborso dell’IRPEF in caso di doppia imposizione, stabilendo principi chiari sulla prova della residenza e sull’irrilevanza della nazionalità del datore di lavoro.

Il Caso: Lavoratore Italiano a Londra e la Doppia Imposizione

La vicenda riguarda un cittadino italiano che nel 2012 svolgeva la sua attività lavorativa a Londra. Nonostante la sua residenza nel Regno Unito, il suo datore di lavoro, una società italiana, aveva operato le trattenute IRPEF sulla sua retribuzione. Ritenendo di subire un’indebita doppia imposizione, dato che aveva già versato le imposte dovute al fisco britannico, il lavoratore ha presentato un’istanza di rimborso all’Agenzia delle Entrate.

L’istanza è stata respinta, dando inizio a un contenzioso. Sia la Commissione Tributaria Provinciale che quella Regionale hanno dato ragione al contribuente, ma l’Agenzia delle Entrate ha portato il caso fino in Cassazione, sollevando quattro motivi di ricorso.

La Prova della Residenza all’Estero e la Valenza dei Certificati

Uno dei punti centrali del ricorso dell’Agenzia delle Entrate riguardava la presunta mancata produzione della documentazione necessaria a dimostrare la residenza fiscale nel Regno Unito, come previsto dalla Convenzione bilaterale contro le doppie imposizioni.

La Suprema Corte ha respinto questa censura, osservando come il contribuente avesse prodotto non uno, ma due certificati dell’autorità fiscale britannica (HMRC). Questi documenti attestavano in modo inequivocabile:

* La sua residenza fiscale nel Regno Unito per l’anno d’imposta in questione.
* Il pieno pagamento delle imposte dovute in quel Paese.
* La sussistenza dei requisiti per richiedere l’esenzione fiscale in Italia.

Inoltre, la Corte ha valorizzato la pluralità di elementi probatori forniti dal lavoratore, tra cui l’acquisto di un immobile a Londra da parte della moglie, i contratti di lavoro localizzati nel Regno Unito e le dichiarazioni dei redditi britanniche. Questo insieme di prove è stato ritenuto più che sufficiente a dimostrare l’effettiva residenza estera.

Lavoratore Residente all’Estero: Irrilevante la Nazionalità del Datore di Lavoro

L’argomento più significativo affrontato dalla Corte è quello relativo alla nazionalità del datore di lavoro. L’Agenzia delle Entrate sosteneva che, essendo la retribuzione corrisposta da un’azienda italiana con sede a Roma, questa dovesse essere tassata in Italia. La Cassazione ha smontato completamente questa tesi, enunciando un principio di diritto di grande importanza.

La Corte ha stabilito che, nell’ambito delle convenzioni contro le doppie imposizioni, la nazionalità del datore di lavoro è del tutto ininfluente. Lo scopo di tali accordi internazionali è proprio quello di evitare che lo stesso reddito sia tassato due volte. Se il lavoratore residente all’estero ha già pagato le imposte nel suo Paese di residenza (il Regno Unito), non può essere soggetto a una seconda imposizione in Italia, suo Paese di cittadinanza, indipendentemente dal fatto che l’azienda che lo paga sia italiana, inglese o di qualsiasi altra nazionalità.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La decisione della Corte si fonda su una valutazione rigorosa delle norme convenzionali e dei principi generali in materia tributaria. I giudici hanno respinto tutti i motivi di ricorso dell’Agenzia delle Entrate, sottolineando che:

1. Prova sufficiente: I certificati fiscali britannici, sebbene non conformi a un modello predefinito, contenevano tutte le informazioni necessarie a soddisfare i requisiti della Convenzione.
2. Doppia imposizione evidente: Era incontestato che il lavoratore avesse subito una ritenuta in Italia e avesse versato le imposte nel Regno Unito, realizzando così una classica ipotesi di doppia imposizione.
3. Residenza provata: La residenza estera era stata ampiamente dimostrata attraverso un solido quadro probatorio che andava oltre il solo certificato fiscale.
4. Principio di irrilevanza del datore di lavoro: La Convenzione mira a regolare la tassazione del reddito in base alla residenza del percipiente, non alla nazionalità di chi lo eroga. La pretesa del Fisco italiano si poneva in contrasto con la finalità stessa dell’accordo internazionale.

Conclusioni: Cosa Significa Questa Sentenza per i Lavoratori all’Estero

Questa pronuncia consolida la tutela per i cittadini italiani che lavorano e risiedono stabilmente all’estero. Le conclusioni pratiche sono significative: primo, chiarisce che la prova della residenza fiscale estera non è legata a formalismi rigidi, ma può essere fornita con un insieme coerente di documenti. Secondo, e più importante, afferma con forza che lavorare per un’azienda italiana non comporta automaticamente la tassazione in Italia se la residenza e il centro degli interessi vitali del lavoratore si trovano in un altro Paese con cui vige una convenzione contro la doppia imposizione. Si tratta di una garanzia fondamentale per la mobilità internazionale dei lavoratori e per la corretta applicazione dei trattati fiscali.

Un lavoratore italiano residente all’estero ha diritto al rimborso dell’IRPEF trattenuta in Italia se lavora per un’azienda italiana?
Sì, la Corte di Cassazione ha stabilito che la nazionalità del datore di lavoro è ininfluente. Se il lavoratore è fiscalmente residente in un altro Stato (in questo caso, il Regno Unito) e lì paga le imposte sul reddito, ha diritto al rimborso per evitare la doppia imposizione, come previsto dalle convenzioni internazionali.

Come si può provare la propria residenza fiscale all’estero?
La residenza fiscale all’estero può essere provata attraverso una pluralità di elementi. La sentenza ha ritenuto validi: il certificato di residenza rilasciato dall’autorità fiscale estera, contratti di lavoro che indicano il luogo di prestazione all’estero, dichiarazioni dei redditi presentate nel Paese estero, l’intestazione di utenze e l’acquisto di un immobile di residenza per il nucleo familiare.

Il certificato di residenza fiscale estero deve avere un formato specifico per essere valido in Italia?
No, la Corte ha chiarito che le normative convenzionali non prevedono formule predeterminate. È sufficiente che il documento, rilasciato dall’autorità competente, attesti la residenza fiscale e la sussistenza delle condizioni richieste dalla convenzione per avere diritto all’esonero dall’imposta italiana o al rimborso.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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