Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 10363 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 10363 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 19/04/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 14317/2016 R.G. proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE, COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende
-resistente- avverso la SENTENZA della C.T.R. del LAZIO n. 6558/2015 depositata il 10/12/2015.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/01/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Udito il Procuratore generale che conclude per l’inammissibilità del ricorso
Udito il difensore di parte ricorrente che conclude per l’accoglimento del ricorso
Udito l’Avvocato dello Stato che conclude per il rigetto del ricorso
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME impugna la sentenza della C.T.R. del Lazio, che ha rigettato l’appello avverso la sentenza di reiezione del ricorso per l’annullamento dell’avviso di accertamento, con cui, ai sensi dell’art. 38 d.P.R. 600 del 1973 era rideterminato il reddito del contribuente a fini IRPEF, per l’anno di imposta 2005.
La C.T.R. ha ritenuto inidonee a vincere la presunzione di cui all’art. 38 d.P.R. 600 del 1973, le prove dedotte dal contribuente in ordine alle disponibilità economiche facenti capo al medesimo, con particolare riguardo alla pensione del fratello invalido, con lui convivente ed alle somme rinvenienti dall’eredità materna, essendo la prima destinate a coprire i bisogni del fratello e le seconde, presumibilmente utilizzate, stante il tempo trascorso, per le stesse necessità. In ordine alla sussistenza dell’indice reddituale rappresentato dall’autovettura, nonché della quota parte di proprietà dell’immobile oggetto dell’accertamento, ha rilevato che la valutazione dell’amministrazione fiscale non ha riguardato il prezzo di acquisto dei beni, ma i costi di manutenzione ad essi riferibili, da
considerarsi non sostenibili da un soggetto che non dichiara redditi personali, ciò rendendo irrilevante anche la contestazione sulla mancata ripartizione dei costi di acquisto dell’auto. Con riferimento alla doglianza relativa all’illegittimità del ricorso all’accertamento a mezzo ‘redditometro’ ha affermato che l’inosservanza dell’obbligo di presentazione della dichiarazione reddituale implica la correttezza dell’operato dell’Ufficio. Infine, dato atto della facoltà riconosciuta al contribuente di fornire prova contraria alle presunzioni su cui l’accertamento è fondato, anche in sede endoprocedimentale, ha escluso la sussistenza della contestata violazione dello Statuto del contribuente, sotto il profilo della conoscibilità degli elementi tenuti in considerazione dall’Amministrazione.
L’Agenzia delle Entrate con memoria in data 29 agosto 2016 si costituisce al solo fine di partecipare all’udienza di discussione.
Il Procuratore generale con requisitoria scritta conclude per l’inammissibilità del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
NOME COGNOME formula sei motivi di ricorso.
Con il primo, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3, deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 38 d.P.R. 600 dl 1973, nonché dell’art. 2697 c.c.. Rammenta che, a mente dell’art. 38 d.P.R. 600 del 1973, l’amministrazione, nel determinare con accertamento sintetico il maggior reddito, ha l’onere di indicare elementi e circostanze di fatto certi, consistenti, anche con riferimento agli indici statistici di cui ai dd.mm. 10 settembre 1992 e 19 novembre 1992, in ‘beni indice’, competendo al contribuente la prova sull’insussistenza del maggior reddito. Assume che, nel caso di specie, la sentenza impugnata, da un lato, ha imputato al ricorrente, per l’anno di
imposta 2005, un bene indice, costituto dell’autovettura immatricolata nel 1987, acquistato solo il 22 febbraio 2006, come si evince dalla carta di circolazione; dall’altro, non ha tenuto conto delle prove offerte dal ricorrente, certamente idonee a confutare l’accertamento redditometrico. Ricorda che secondo la giurisprudenza di legittimità, in tema di accertamento sintetico, non è possibile considerare fatto-indice un bene acquistato in periodo di imposta successivo a quello considerato. Rileva che il ‘bene indice’ costituito dall’autovettura, rappresenta quello che ha inciso nella misura più rilevante nella determinazione del reddito (per euro 24.467 su complessivi euro 33.314,77) e che nell’originario avviso di accertamento era stato contestato al contribuente anche l’importo del prezzo di acquisto, senza, peraltro, che fossero ripartite in quinti, come previsto dalla legge, le spese relative all’autovettura, essendo invece stati applicati dall’Ufficio i coefficienti redditometrici per l’intero anno. Sostiene che il ricorrente ha provato in giudizio l’entità entità e durata delle risorse economiche nella sua disponibilità, idonee a giustificare le spese attribuitegli con il redditometro. In particolare dalla produzione degli estratti dei conti correnti si potevano evincere: i saldi dal 30 settembre 2004 al 1^ gennaio 2007; le movimentazioni; le somme ricevute mortis causa dalla madre; le somme derivanti dalla liquidazione di un fondo pensioni; le somme derivanti dalla cessione di quote di proprietà di un immobile sito nel Comune di Sant’Elia; le somme impiegate per l’acquisto della quota del 50% dell’immobile sito in Porto Azzurro; le somme impiegate per l’acquisto dell’autovettura, pari ad euro 9000,00, pagate con tre assegni; le somme provenienti dai versamenti delle rate di pensione del fratello NOME COGNOME, convivente e di cui il ricorrente è tutore legale dal 2003 (queste ultime non imponibili per essere tassate alla fonte). Sostiene che siffatte prove, atte a
disarticolare la presunzione reddituale, sono state ignorate dal giudice di appello. Mentre del tutto fuorviante è l’affermazione, contenuta in sentenza, secondo la quale correttamente l’amministrazione motiva la mancata valutazione del reddito come prodotto dal nucleo familiare, stante la residenza del contribuente e del fratello in luoghi diversi, posto che i due appartamenti in cui egli ed il fratello risiedono, oltre che essere nello stesso stabile, sono attigui. Il contribuente, dunque, pur non essendovi tenuto, ha dimostrato mediante la prova delle movimentazioni bancaria, anche la correlazione tra la sua disponibilità finanziaria e l’acquisto del bene indice costituito dall’autovettura. Osserva che, essendo stati provati i fatti dedotti dal contribuente, l’onere di provarne l’inefficacia, incombeva, ex art. 2697, comma 2, c.c., sull’Ufficio, diversamente da quanto emerge dalla decisione impugnata.
Con il secondo motivo fa valere, ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 38, comma 4 e segg., in relazione all’art. 4 del d.m. 10 settembre 1992, nonché dell’art. 42 del d.P.R. 600 del 1973. Sottolinea l’erroneità della sentenza nella parte in cui, nonostante gli elementi probatori forniti dal contribuente, anche in sede amministrativa, ha ritenuto legittimo il ricorso all’accertamento sintetico, in assenza di motivazione della scelta da parte dell’amministrazione, stante la palese incongruità -per eccessodel reddito determinato con quello determinabile sulla base degli altri elementi in suo possesso, in violazione dell’art. 4 del d.m. 10 settembre 1992.
Con il terzo motivo lamenta, ex art. 360 comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c.. Rileva l’incoerenza del ragionamento probatorio posto a base della decisione, che da un fatto noto -giacenza sul conto corrente delle somme relative all’eredità ricevuta dalla madre ed alla
pensione del fratello- ha desunto la presunzione, ritenuta dotata dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, della fatto ignoto devoluzione di tutte le somme all’assistenza del fratello invalido-, nonostante la non univocità delle conseguenze ricavabili dal primo. Ed invero, non solo è verosimile, ma è assai più probabile che le dette somme siano state utilizzate, stante la loro consistenza e perduranza sul conto corrente, anche per coprire e giustificare quelle spese relative ai beni posseduti. Sicché, a fronte dell’assenza del requisito dell’univocità il ragionamento dell’Ufficio prima, e del giudice di appello poi, finisce per coincidere con una mera illazione.
Con il quarto motivo denuncia, ex art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. per non avere la C.T.R. valutato le plurime prove offerte dal contribuente a dimostrazione delle sue cospicue e perduranti disponibilità economiche e della capacità di sostenere le spese ritenute incongruenti dall’Ufficio, ignorando la documentazione prodotta.
Con il quinto motivo si duole, ex art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 36 d.lgs. 546 del 1992. Deduce che il giudice di seconda cura ha ritenuto, in modo incomprensibile e non motivato, a mezzo di mere congetture prive di riscontro, che sia la pensione del fratello, che l’eredità materna, entrambe nella materiale disponibilità del ricorrente, fossero state utilizzate in modo esclusivo per le necessità del familiare invalido, trascurando, tuttavia, che la vettura era stata acquistata nell’anno di imposta successivo a quello oggetto di accertamento. Assume che la sentenza travisa i fatti di causa, ricorrendo ad una ricostruzione palesemente erronea ed ingiusta.
Con il sesto motivo fa valere, ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione al principio di non contestazione. Sottolinea che la veridicità delle prove offerte dal contribuente non è stata contestata dall’Agenzia delle entrate, con la conseguenza che la C.T.R. avrebbe dovuto limitarsi a ritenere sussistenti i fatti provati dal contribuente, avuto riguardo al comportamento processuale tenuto dalla controparte.
Per dare soluzione alla controversia, occorre partire dall’esame del secondo motivo di ricorso, inerente alla legittimità del ricorso all’accertamento ex art. 38 d.P.R. 600 del 1973, asseritamente ritenuta dalla C.T.R., nonostante l’assenza di motivazione dell’avviso di accertamento sul punto e benché il contribuente, sin dalla fase precontenziosa, avesse fornito adeguata prova della coerenza fra disponibilità economica e spese.
Ora, dalla sintesi dei motivi di appello contenuta nel ricorso in esame, emerge che in quella sede era stata formulata doglianza in ordine all’illegittimità del metodo accertativo utilizzato. Si contestava, infatti, che non avendo il ricorrente alcun obbligo di presentazione della dichiarazione (no tax area ex l. 289/2002) non ricorresse la condizione di procedibilità del ricorso al redditometro ex art. 38, comma 4 d.P.R. 600 del 1973, ovverosia lo scostamento biennale pari al 25% fra reddito dichiarato ed accertato. Si contestava, altresì, l’illegittimità dell’art. 38, comma 4 cit. per contrasto con l’art. 23 Cost, nonché ‘illegittimità dell’avviso di accertamento per carenza di motivazione ex art. 42 d.P.R. 600 del 1973’ (passo così ripreso dal ricorso).
La sentenza, a sua volta, riassume i motivi di appello dando atto che il primo riguardava la correlazione fra ricorso al redditometro ed obbligo di dichiarazione, sostenendo il
contribuente che solo qualora si configuri l’obbligo del contribuente di provvedere alla dichiarazione annuale, l’amministrazione potrebbe fare ricorso al redditometro, mentre negli anni 2005 e 2006 il ricorrente non vi era tenuto, con la conseguenza che il primo giudice avrebbe dovuto considerare prescritta l’imposta oggetto di accertamento. E che il secondo atteneva all’obbligo dell’amministrazione, in conformità con le previsioni dello Statuto del contribuente, di mettere quest’ultimo a conoscenza degli elementi che l’Ufficio avrebbe potuto prendere in considerazione per determinare sinteticamente il suo reddito.
Rispetto alle doglianze così rappresentate, la C.T.R. esclude che la configurabilità di un’ipotesi di insussistenza dell’obbligo di dichiarazione per gli anni 2005 e 2006, ritenendo la sua omessa presentazione una libera scelta del ricorrente, stante l’intervenuto accertamento di redditi occultati, conseguentemente non potendo ritenere maturata la prescrizione del credito tributario. Per altro verso, considerata insussistente la violazione dell’art. 23 Cost., per effetto dell’applicazione del redditometro, ritiene che la facoltà del contribuente di offrire in sede endoprocedimentale elementi di prova atti ad escludere la prova presuntiva -ritenuti non prodotti neppure in giudizioconsenta di smentire l’assunto secondo il quale l’amministrazione avrebbe violato lo Statuto del contribuente, non motivando l’avviso di accertamento.
Rispetto alle due rationes decidendi , dunque, il ricorrente sembra attaccare solo la seconda, peraltro senza confrontarsi compiutamente con la pronuncia, posto che la contestazione sulla legittimità dell’accertamento sintetico appare qui formulata non per difetto di conoscibilità, da parte del contribuente, degli elementi che l’amministrazione porrà a base della presunzione di maggior reddito, con conseguente difetto di motivazione
dell’atto, sul quale la decisione ha pronunciato, ma per difetto di considerazione della sproporzione fra il reddito come determinato dall’accertamento e gli ‘altri elementi’ in possesso dell’amministrazione fiscale. Siffatto aspetto non è stato affrontato in questi termini dalla sentenza impugnata. Nondimeno, con la censura qui in esame non si fa valere il vizio dell’omessa motivazione su uno dei motivi proposti con l’appello, ma si sottomette a questa Corte una doglianza che non trova corrispondenza con la decisione impugnata e che, inoltre, non è neppure perfettamente coincidente con quella proposta con il gravame avverso la decisione del primo giudice.
Il motivo è, pertanto, inammissibile. Ma esso è comunque anche manifestamente infondato.
Sul punto, va osservato che l’obbligo motivazione dell’avviso di accertamento, si risolve nell’ipotesi di accertamento sintetico, nella formulazione della presunzione relativa che autorizza a ricavare da determinate spese affrontate dal contribuente il suo reddito complessivo in un determinato periodo di imposta, non risultante dalla dichiarazione reddituale. Il ricorso all’accertamento a mezzo di indici reddituali è consentito anche nel caso di omessa presentazione della dichiarazione reddituale, ai sensi dell’art. 41 d.P.R. 600 del 1973, che regolando l’accertamento di ufficio consente di fare ricorso alle c.d. presunzioni supersemplici, prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza stabiliti dall’art. 38 del medesimo d.P.R. per la rettifica della dichiarazione reddituale.
Non è chiaro, perché non è precisato né dalla C.T.R., né dal ricorrente, se, al di là dei redditi presuntivamente accertati dall’Ufficio e non dichiarati, vi fossero altri redditi non dichiarati essendo affermato tanto dalla sentenza, che dal contribuente con l’atto di appello (nella parte riprodotta nel ricorso per cassazione) che la dichiarazione reddituale per l’anno di imposta
2005, non fu presentata (secondo la decisione per deliberata scelta del contribuente, secondo il ricorrente essendo l’obbligo escluso dalla l. 289/2002).
Resta, comunque, a fronte dell’assenza di dichiarazione annuale -omessa o non dovutal’amministrazione ha diritto di percorrere la strada dell’accertamento sintetico, non essendo neppure pensabile che la non presentazione, anche qualora giustificata dal contribuente con il difetto dell’obbligo, possa implicare il divieto di verificare l’effettività e la consistenza dei redditi. Né può sostenersi, come ha preteso il ricorrente in appello, che l’amministrazione debba, in assenza della presentazione della dichiarazione, dimostrare, al fine di ricorrere all’accertamento sintetico, il discostamento biennale di cui all’art. 38, comma 6 d.P.R. cit., posto che siffatto requisito procedimentale è previsto solo in caso di rettifica di una dichiarazione presentata e non vale per il caso diverso di dichiarazione non presentata, non potendo l’Ufficio dimostrare il discostamento da un dato sconosciuto, che il contribuente non chiarifichi neppure in sede di contraddittorio endoprocedimentale.
Ne consegue che il dovere di motivazione, in sede di accertamento sintetico, coincide con la formulazione della presunzione di maggior reddito sulla base di dati certi (fattiindice), potendo nel caso di omissione della dichiarazione ricorrere anche a presunzioni supersemplici.
Nel caso di specie, tuttavia, la C.T.R. non ha ritenuto che l’accertamento fosse inquadrabile nell’art. 41 cit., assumendo, invece, che l’accertamento fosse correttamente motivato con il ricorso alle presunzioni di cui all’art. 38, quarto comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, applicando, quindi, la disciplina di minor rigore, ancorché abbia affermato che una
valida prova contraria non è stata offerta né nella fase endoprocedimentale, né in giudizio.
D’altro canto, seppure è vero che, ai sensi dell’art. 4 del d.m. 10 settembre 1992, ‘l’ufficio può non procedere all’accertamento qualora tale reddito sia stato determinato sulla base di uno soltanto degli indicatori considerati dal presente decreto risulti palesemente incongruente per eccesso con quello determinabile sulla base di altri elementi in suo possesso o successivamente acquisiti’, ciò non significa affatto che l’ufficio non debba procedervi, tanto più se non ritiene le prove fornite dal contribuente in sede endoprocedimentale idonee a dimostrare l’incoerenza fra il reddito come accertato in modo sintetico e gli altri elementi acquisiti.
Allora, appare del tutto coerente la conclusione della sentenza impugnata che giustifica il ricorso al metodo sintetico proprio in relazione alla mancata deduzione, nel corso del procedimento amministrativo, di elementi sufficienti a ‘confutare le conclusioni raggiunte dalla Agenzia delle Entrate’.
Il primo motivo è fondato.
Il ricorrente assume, innanzitutto, l’assenza di ‘elementi e circostanze di fatti certi’ richiesti dall’art. 38, commi 4 e 6 d.P.R. 600 del 1973 per ‘determinare sinteticamente il reddito complessivo del contribuente’. La censura si appunta, in particolare, sul ragionamento del giudice di appello che ha ritenuto integrata la presunzione di cui al quarto comma della disposizione facendo riferimento alla proprietà di un’autovettura, acquistata l’anno successivo (2006) a quello considerato dall’accertamento (2005). Si sostiene che la spesa non possa essere considerata e che comunque non possa che ripartirsi ‘in quinti’, ai sensi del quinto comma della medesima disposizione.
Sul punto va ricordato che l’art. 38, comma 5 del d.P.R. n. 600 del 1973 nel testo applicabile ratione temporis (a
seguito della modifica di cui all’art. 2 comma 14 quater del d.l. 203 del 2005, convertito con modifiche nella l. 248 del 2005), stabilisce che ‘qualora l’Ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la stessa si presume sostenuta, salvo prova contraria, con redditi conseguiti in quote costanti nell’anno in cui è stata effettuata e nei quattro precedenti’. Ciò significa che ‘che la capacità di effettuare una determinata spesa ben può attribuirsi non al reddito prodotto nello stesso anno d’imposta cui l’accertamento si riferisce, bensì alla disponibilità di capitale accumulato negli anni precedenti’ (Sez. 5, Ordinanza n. 31568 del 25/10/2023; cfr. anche Sez. 5 – , Sentenza n. 5414 del 03/03/2017), come è accaduto nel caso di specie, essendo il bene autovettura stato acquistato nel 2006, ma significa anche che per all’anno di imposta 2005, cui l’accertamento si riferisce, non può che attribuirsi un quinto del reddito necessario per effettuare quell’acquisto.
Per vincere la presunzione legale, introdotta con la disposizione, l’amministrazione, in sede di accertamento avrebbe dovuto indicare gli elementi di prova contraria, idonei a dimostrare che l’intero importo della spesa era riconducibile ai redditi percepiti nell’anno di imposta considerato dall’accertamento.
La sentenza impugnata, pur a fronte del motivo di appello, qui riproposto, ha sostenuto che la valutazione effettuata dalla amministrazione ‘non ha riguardato il prezzo di acquisto, ma gli oneri di manutenzione’ insuscettibili di essere sostenuti da soggetto che non dichiarava reddito personale, e che, pertanto, ‘non assume rilevanza l’eventuale illegittima ripartizione del prezzo di acquisto dell’autovettura’.
Si tratta di affermazioni prive di fondamento. Se, infatti, la spesa che viene considerata in sede di formulazione
della presunzione sul maggior reddito è quella relativa ai costi di manutenzione, e non quella relativa all’acquisto del bene, allora è chiaro che essa non può essere considerata che per gli anni successivi all’acquisto (dal 2006 in avanti) e non l’anno precedente (2005). Ma anche quando volesse sostenersi che precedentemente all’acquisto si sia consolidata una quota risparmio destinata alla manutenzione del bene da acquistare, non potrebbe certamente imputarsi quella quota all’anno precedente l’acquisto per l’intero, se non in violazione della presunzione di cui all’art. 38, comma 5 d.P.R. 600 del 1973, nella versione ratione temporis vigente, salva la sussistenza di una prova contraria, che dimostri l’accantonamento dell’intero importo destinato alla manutenzione nel corso dell’anno oggetto di accertamento.
D’altro canto, non vi è nessun riferimento probatorio o meglio la sentenza non ne fa cenno alcunoall’ipotesi di un possesso del bene antecedente l’acquisto, tale da giustificare la considerazione di spese per la manutenzione del bene, ancorché non di proprietà del contribuente.
Il vizio dedotto integra un’ipotesi di falsa applicazione del disposto dell’art. 38, commi 4 e 5 d.P.R. 600 del 1973, applicabile ratione temporis , e comporta l’accoglimento della doglianza sul punto.
Non pare, invece, da accogliere la censura, per il vero articolata con più motivi (in particolare il primo ed il terzo ed il quinto), con la quale si contesta il mancato assolvimento dell’onere probatorio, per difettare la presunzione di maggior reddito, desunta dalla disponibilità di somme sul conto corrente nell’anno di imposta 2005, dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c. di gravità, precisione e concordanza.
La C.T.R., investita della valutazione circa la riferibilità degli importi di cui al conto corrente a redditi non dichiarati nell’anno
2005, ha ritenuto, con riferimento ai proventi rinvenienti dall’eredità materna ‘del tutto logica (…) la presunzione che, dato il lasso di tempo trascorso dalla loro percezione sono stati anch’essi utilizzati per i bisogni del fratello’.
Secondo il ricorrente, al contrario, il dato della giacenza di un determinato importo sul conto corrente non significa univocamente che quell’importo sia frutto di un reddito percepito nell’anno di imposta considerato. Ciò, infatti, è sicuramente vero nell’ipotesi in cui un pari importo non sia presente sul conto corrente l’anno antecedente, ma non quando somme similari appaiano accreditate anche negli anni precedenti, in modo perdurante, e sia provata provenienza di pari importi da precisi ed identificati cespiti (eredità materna e liquidazione del fondo pensione). In un simile caso, infatti, non è possibile univocamente affermare che le somme presenti sul conto derivano da redditi non dichiarati, perché tutto quanto ricevuto in precedenza (eredità materna e liquidazione del fondo pensione) è stato destinato ad una spesa specifica (mantenimento del fratello invalido), non essendo inverosimile che tutte o quantomeno parte delle somme giacenti sul conto siano frutto della tesaurizzazione di cespiti ricevuti in passato. Manca, insomma, una massima di esperienza che consenta, a fronte della perduranza nel tempo della consistenza delle giacenze sul conto corrente, di affermare in modo non equivoco -l’univocità connotando il requisito della precisione, e, secondo alcuni autori, anche della gravità della presunzione- che quelle somme sono il prodotto di redditi non dichiarati nell’anno di accertamento e non il frutto di costante risparmio.
Ora, in tema di prova per presunzioni è certamente compito del giudice del merito valutare in concreto l’efficacia sintomatica dei singoli fatti noti, analiticamente e nella loro convergenza globale, accertandone la pregnanza conclusiva, e sebbene
siffatto giudizio pertenga solo al giudice di merito e sia sottratto al vaglio di legittimità, tuttavia, l’inferenza presuntiva deve essere adeguatamente motivata, rendendo esplicito l’argomento logico per cui nel caso oggetto dell’esame da quel fatto noto deriva proprio quel fatto ignoto, qualora il primo possa essere sintomatico di una pluralità di conclusioni (proposizioni conseguenti), ovvero sia del fatto che si intende provare, che di un fatto diverso.
In questo caso, per affermarsi la precisione del collegamento fra il fatto noto e quello ignorato, cioè l’esclusione di fatti diversi, occorre sempre che il giudice chiarisca quali altri elementi a disposizione rendono, in concreto e cioè per il caso di specie, la presunzione formulata non equivoca e quindi precisa (e grave), perché più attendibile alla luce di tutti gli elementi probatori raccolti, rispetto a quella che dallo stesso fatto noto è possibile trarre su un fatto incompatibile con il fatto ignorato. L’equivocità del fatto noto, in altre parole, esige una motivazione stringente che renda chiara la precisione dell’inferenza sul fatto ignorato, dal punto di vista pratico.
Ora, in questo caso, il ragionamento probatorio della C.T.R. si fonda proprio su una base logica persuasiva. Il giudice di secondo grado, infatti, non nega la perduranza delle somme sul conto corrente del contribuente, né nega che al medesimo siano pertoccati cespiti rinvenienti dall’eredità materna, dalla liquidazione del fondo pensione e dalla vendita di immobili (cui peraltro è seguito l’acquisto della quota del 50% di un immobile sito in Porto Azzurro, come pacificamente ammesso dal ricorrente). Nondimeno osserva che, avuto riguardo al fatto che la pensione percepita dal fratello invalido non potesse che essere destinata al medesimo, proprio la perduranza delle somme sul conto corrente del contribuente, dimostra che egli non solo non ha provveduto al suo mantenimento con quella riserva di
risparmi, ma neppure ha provveduto con quelle somme al mantenimento dei beni posseduti, dovendo necessariamente avere percepito altri redditi non dichiarati. Ed invero, il ricorrente non afferma affatto di avere destinato a siffatti bisogni quanto ricevuto dal fratello a titolo di provvidenza per l’invalidità. Va rilevato, peraltro, che anche la prospettazione del ricorrente della differenza dei saldi di conto corrente (euro 116.943,00 al 30 settembre 2004 ed euro 95,772,00 al 1^ gennaio 2007) appare essere stata tenuta in considerazione dalla C.T.R. a mezzo di una valutazione di fatto, incensurabile in questa sede, che la imputa alla necessità di provvedere ai bisogni del fratello, affermando che la quota di eredità materna, stante il tempo trascorso dalla sua percezione (2001) non può che essere stata a ciò destinata.
Ecco, allora, che il ragionamento si appalesa privo di cadute logiche e finisce per essere incensurabile, in questa sede, conducendo ad elidere qualsivoglia equivocità degli indizi.
Ne consegue che anche le doglianze relative alla pretermissione degli elementi probatori dedotti dal contribuente i rivelano inconferenti, posto che nessuno di essi resta al di fuori della logica probatoria seguita dal giudice del merito.
L’ultimo motivo è inammissibile.
Va, infatti, ricordato che: ‘Nel vigore del novellato art. 115 c.p.c., a mente del quale la mancata contestazione specifica di circostanze di fatto produce l’effetto della “relevatio ad onere probandi”, spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte’ (Cass. Sez. 6, 07/02/2019, n. 3680). E che: ‘In tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito,
insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012. (Cass. Sez. 3, 12/10/2017, n. 23940).
Ebbene, non solo la doglianza è dedotta ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 cod. proc. civ. e non ai sensi del n. 5) della medesima disposizione, ma neppure il ricorrente indica gli elementi da cui desumere la non contestazione dell’Amministrazione, che, al contrario, dalla sentenza impugnata appare avere contestato tutti i fatti dedotti dal contribuente.
La sentenza deve, dunque, essere cassata esclusivamente con riferimento al primo motivo di ricorso nei limiti di cui supra , con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio, cui è demandata anche la liquidazione delle spese di lite di questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.
In accoglimento del primo motivo di ricorso, nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio, cui demanda anche la liquidazione delle spese di lite di questo giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2025