Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 334 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 334 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 08/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7729/2016 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, domiciliata ex lege in Roma INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende -ricorrente- contro
NOME COGNOME, elettivamente domiciliato in Roma INDIRIZZO presso lo studio degli avvocati NOME COGNOME (CODICE_FISCALE e NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresentano e difendono
-controricorrente e ricorrente incidentale- avverso la Sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio n. 5107/2015 depositata il 01/10/2015.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18/12/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME ricorreva contro gli accertamenti per Irpef relativi agli anni 2004 e 2005, con cui era stato imputato al contribuente il maggior reddito derivante dalla partecipazione nella RAGIONE_SOCIALE in conseguenza dell’accertamento effettuato nei confronti della società, divenuto definitivo perché non impugnato.
1.1. Il contribuente eccepiva la tardività degli accertamenti, con decadenza del potere impositivo, non potendosi applicare nei suoi confronti il raddoppio dei termini, in mancanza di responsabilità penale personale.
La Commissione tributaria provinciale di Roma accoglieva il ricorso, ritenendo fondata l’eccezione di tardività della notifica degli avvisi di accertamento.
L’appello dell’Amministrazione veniva rigettato, con la sentenza indicata in epigrafe, dalla CTR del Lazio che, pur ritenendo applicabile anche al socio il raddoppio dei termini per l’accertamento previsto dal terzo comma dell’art. 43 del DPR n. 600/1973, escludeva comunque che l’avviso di accertamento divenuto definitivo nei confronti della società spiegasse effetti nei confronti del socio accomandatario, in mancanza della prova del suo coinvolgimento nei fatti intimi societari.
Avverso la predetta sentenza ricorre, con unico motivo, l’Agenzia delle entrate.
Resiste il contribuente con controricorso e ricorso incidentale sorretto da unico motivo.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo di ricorso principale l’Amministrazione denuncia , in relazione all’art. 360, comma 1. n. 3 c.p.c., la v iolazione dell’art. 5 del DPR n. 917/1986 e dell’art. 2320 c.c.
L’Amministrazione contesta l’affermazione della CTR, posta a base del rigetto dell’appello, secondo cui l’Ufficio avrebbe dovuto fornire prova della effettiva percezione del maggior reddito da parte del socio.
Con il motivo di ricorso incidentale il contribuente lamenta, in relazione all’art. 360, comma 1. n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 43, l. n. 600/1973 », censurando la CTR laddove ha ravvisato un automatismo tra raddoppio dei termini nei confronti della società e raddoppio dei termini nei confronti del
socio accomandante, pur in assenza di prova, in capo a quest’ultimo, di una violazione che comportasse obbligo di denuncia.
Giova premettere all’esame dei motivi che l’unitarietà dell’accertamento comporta che il ricorso tributario proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica, da uno dei soci o dalla società riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci, sicché tutti questi soggetti devono essere parte dello stesso procedimento e la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni soltanto di essi (Cass., Sez. U., 4/06/2008, n. 14815).
La richiamata decisione ebbe anche però a precisare che «naturalmente, non sussiste litisconsorzio necessario tra società e soci quando il contribuente svolga una difesa sulla base di eccezioni personali, come la qualità di socio o la decadenza dal potere di accertamento, o che riguardino la ripartizione del reddito tra i soci», il che è quanto accaduto nel caso di specie, ove si controverte, infatti, della decadenza del potere accertativo nei confronti del singolo socio (in tal senso Cass. 11/06/2018, n. 15116) e della inapplicabilità nei suoi confronti del principio di trasparenza, senza attingere la legittimità della pretesa tributaria nei confronti della società.
Tanto chiarito, il motivo di ricorso principale, con cui l’Agenzia contesta l’affermazione della CTR, posta a base del rigetto dell’appello, secondo cui l’Ufficio avrebbe dovuto fornire prova della effettiva percezione del maggior reddito da parte del socio, è fondato.
4.1. I primi due commi dell’art. 5 del T.u.i.r. dispongono che «i redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili» (comma 1); «le quote di partecipazione agli utili si presumono proporzionate al valore dei
conferimenti dei soci se non risultano determinate diversamente dall’atto pubblico o dalla scrittura privata autenticata di costituzione o da altro atto pubblico o scrittura autenticata di data anteriore all’inizio del periodo d’imposta; se il valore dei conferimenti non risulta determinato, le quote si presumono uguali» (comma 2).
Nel d.P.R. n. 917 del 1986 le società di persone non costituiscono un autonomo soggetto passivo d’imposta, ma sono assunte alla stregua di centri di riferimento per la determinazione del reddito, che viene attribuito direttamente ai soci, indipendentemente dalla sua percezione, al termine dell’esercizio e in base alle rispettive quote di partecipazione agli utili.
4.2. La disposizione ha superato plurimi vagli di legittimità costituzionale (Corte Cost n. 201 del 2020, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 53, primo comma, e 113, secondo comma, della Costituzione; Corte Cost. n. 53 del 2001, in riferimento agli artt. 3, 24 e 53 Cost.; Corte cost. n. 55 del 1998, in riferimento all’art. 24 Cost.), tutti riferiti specificamente alla posizione del socio accomandante in una RAGIONE_SOCIALE
Come evidenziato da Corte Cost. n. 201 del 2020 «tale metodo dell’attribuzione del reddito “per trasparenza” – che non è peculiare del nostro sistema impositivo, costituendo un modello per certi versi conosciuto anche negli ordinamenti di altri Paesi – comporta quindi la tassazione IRPEF direttamente in capo ai soci degli utili societari, con imputazione degli stessi per ciascun periodo d’imposta e indipendentemente dalla percezione: assume, così, rilievo il solo fatto della produzione del reddito (con conseguente irrilevanza fiscale della distribuzione degli utili negli esercizi successivi). In base a tale scelta legislativa il presupposto di imposta si realizza, quindi, in capo ai soci e non alla società che, considerata “trasparente”, diventa uno “schermo” dietro il quale i primi esercitano collettivamente un’attività economica. Infatti, in forza dell’imputazione al socio del reddito di partecipazione pro
quota, indipendentemente dall’effettiva percezione, il socio medesimo diventa l’unico soggetto passivo dell’imposta personale, avendo in realtà dichiarato un reddito proprio ancorché il presupposto dell’imposizione si verifichi unitariamente presso l’ente collettivo che lo produce e lo dichiara. Questa diretta imputazione del reddito è la conseguenza logica immediata del principio accolto dal legislatore tributario di “immedesimazione” esistente tra società a base personale e singoli soci che la compongono, per cui non è configurabile una soggettività distinta, separata o disgiunta della società rispetto ai soci. Tale principio costituisce espressione della giuridica irrilevanza della soggettività delle società di persone in campo tributario, considerando il Fisco le società di persone come uno schermo dietro il quale operano i soci con i particolari poteri di direzione, di controllo e di gestione anche se non sono amministratori». Ancora, «i suddetti soci, dunque, sul piano tributario, sono chiamati a contribuire alle pubbliche spese in relazione a un incremento patrimoniale realizzato per effetto dell’attività sociale, rispetto alla quale hanno un onere e un potere di controllo (artt. 2261 e 2320 del codice civile) che, da un lato, li pone giuridicamente in grado di avere piena conoscenza dell’indicato incremento patrimoniale e, dall’altro, rende irrilevante, a questi fini, la distinzione tra soci amministratori e non amministratori. L’imputazione reddituale “per trasparenza” delle società di persone, anche avuto riguardo al caso di soci non amministratori (e, in particolare, anche nel caso dell’accomandante), si riconnette quindi alla disciplina civilistica che attribuisce ad essi puntuali poteri di controllo. Tale aspetto concorre così a giustificare – dal punto di vista fiscale – la diretta imputazione del risultato economico prodotto dalla società al socio indipendentemente dalla sua percezione dell’utile. Infatti, anche a prescindere dall’approvazione del rendiconto e dalla previsione statutaria di eventuali riserve di utili (o dalla decisione unanime dei
soci in tal senso), il socio già si trova in una relazione con il reddito societario prodotto che appare idonea a integrare la peculiare nozione di “possesso”, indicato quale presupposto dell’IRPEF dall’art. 1 del TUIR e che costituisce l’indice di capacità contributiva assunto dal legislatore».
La Corte ha altresì escluso che si possa parlare di presunzione di distribuzione degli utili in quanto «la previsione del comma 1 del medesimo art. 5, nello stabilire che l’imputazione avviene “indipendentemente dalla percezione”, individua un meccanismo d’imputazione di ciò che è stato assunto dal legislatore come reddito prodotto, senza, invece, “presumere” la distribuzione dello stesso. La norma censurata esclude la soggettività passiva tributaria della società di persone e, in tal modo, elimina lo schermo societario imputando direttamente ai soci il reddito prodotto dalla società. Si tratta di una connotazione strutturale dell’ente ai fini tributari e non di una “presunzione” di distribuzione degli utili».
Inoltre, il giudice delle leggi ha escluso ogni contrasto di tale previsione con l’art. 1 T.u.i.r. , dovendo ritenersi che «il possesso cui fa riferimento il legislatore tributario agli specifici fini dell’IRPEF deve essere inteso, pertanto, quale modo per identificare la relazione del soggetto con la peculiare manifestazione di capacità contributiva che è costituita appunto dal reddito, secondo le regole giuridiche delle singole categorie reddituali» e che «non arbitrariamente il legislatore tributario ha individuato come indice di capacità contributiva la relazione tra il presupposto e il soggetto passivo attraverso la diretta imputazione al socio (“per trasparenza”) del reddito prodotto in forma associata, indipendentemente dalla percezione».
4.3. Già in precedenza il giudice delle leggi (Corte Cost. n. 53 del 2001) aveva escluso profili di illegittimità di tale previsione, precisando che fosse « errata l’impostazione per cui il reddito
societario, illecitamente sottratto dagli amministratori della società, sia, per effetto della norma impugnata, imputabile ai soci pur dovendo considerarsi puramente fittizio…. in quanto tale reddito deve, invece, ritenersi effettivo, posto che la sua sottrazione, che è peraltro vicenda interna alla società e non incide sul momento genetico della sua produzione, ne presuppone logicamente la esistenza».
4.4. È peraltro comune affermazione in dottrina che tali considerazioni siano anche la conseguenza dell’incondizionato diritto del socio alla percezione degli utili all’approvazione del rendiconto, previsto dall’art. 2262 c.c.
4.5. Nel medesimo ordine di idee, questa Corte ha costantemente ritenuto che il maggior reddito risultante dalla rettifica operata nei confronti di una società di persone vada imputato al socio (come proprio di questo) ai fini dell’IRPEF (non essendo la società di persone soggetto passivo dell’imposta sul reddito), in proporzione della relativa quota di partecipazione (Cass. 29/10/2010, n. 22122; Cass. 12/02/2007, n. 3011; Cass. 27/02/2002, n. 2899). L’imputazione al socio opera quindi anche in caso di accertamento e prescinde dalla mancata contabilizzazione dei ricavi e dai metodi usati dalla società per realizzarli, salve le azioni da lui eventualmente esperibili contro la società, in sede civile ordinaria, per recuperare la sua quota di utile se dovuta (Cass. 30/10/2006, n. 23359). E si è precisato che «in tema d’imposte sui redditi delle società di persone (nella specie, una s.a.s.), l’imputazione proporzionale dei redditi della società ai singoli soci, prevista dall’art. 5 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, è indipendente dall’effettiva percezione degli utili e dalla stessa partecipazione del socio alla gestione sociale ed opera anche nel caso in cui le quote di partecipazione siano solo formalmente intestate ai soci; né, in senso contrario, assume rilievo la previsione di cui all’art. 37, terzo e quarto comma, del d.P.R. 29/09/1973, n. 600, che, in ipotesi di
interposizione fittizia, prevede solo che le persone interposte, ove dimostrino di aver pagato imposte per redditi successivamente imputati ad altro contribuente, possano chiederne ed ottenerne il rimborso, a cui l’Amministrazione procede, nei limiti dell’imposta effettivamente percepita, dopo che l’accertamento sia diventato definitivo nei confronti dell’interponente (Cass. 04/08/2006, n. 17731 ripresa da Cass. 10/06/2015, n. 11989, citata dallo stesso ricorrente).
4.6. In giurisprudenza è stato, peraltro, affrontato anche il tema dell’illecito commesso dagli amministratori di società di persone, che è il tema specifico posto dal ricorrente. Proprio nelle ultime decisioni citate si è esplicitato ulteriormente che lo svolgimento di un’attività costituente reato da parte di uno dei soci-amministratori di una società di persone, in violazione di norme organizzative o di legge, non comporta l’interruzione del rapporto organico, sempre che gli atti posti in essere siano comunque pertinenti all’azione della società e rispondano ad un interesse riconducibile, anche indirettamente, all’oggetto sociale (Cass. 01/10/2014, n. 20704; Cass. 26/05/2021, n. 14563).
4.7. In tale ordine di idee, questa Corte ha anche precisato che il reddito realizzato da una società di persone in conseguenza dell’attività delittuosa di taluni soci va imputato a tutti i soci, in proporzione della rispettiva quota, a nulla rilevando che taluni di essi non abbiano concorso nel reato (Cass. 11/06/2007, n. 13575, affermando, in fattispecie sostanzialmente sovrapponibile a quella in esame, vertendo su attività illecita dell’amministratore di RAGIONE_SOCIALE poi fallita, per costi per operazioni inesistenti, che «costituisce circostanza irrilevante essere state poste in essere, nell’ambito societario, le attività illecite soltanto da alcuni soci. Fermo restando che le conseguenze di carattere penale non potranno che essere esclusivamente personali, dal punto di vista fiscale ciascun socio dovrà dichiarare la propria quota di reddito di partecipazione,
anche se derivante da attività illecite poste in essere da altro socio»).
4.8. Non appare quindi applicabile al caso di specie la deroga indicata da Cass. n. 11989 del 2015, citata, che è relativa al solo caso che si tratti di atti non pertinenti all’oggetto sociale della società, in quanto appare pacifico, oltre che l’accertamento societario non sia stato impugnato, anche che si trattasse di costi per operazioni inesistenti, iscritti nel bilancio sociale e dichiarati nella dichiarazione dei redditi.
4.9. Il motivo va quindi accolto, dovendosi confermare il principio per cui il reddito realizzato da una società di persone in conseguenza dell’attività delittuosa di taluni soci va imputato a tutti i soci, in proporzione alla relativa quota, non rilevando che taluni di essi non abbiano concorso nel reato (da ultimo v. Cass. 07/06/2024, n. 15999).
Il ricorso incidentale , da ritenersi condizionato all’accoglimento del ricorso principale, è ammissibile, in quanto diretto a censurare l’esplicito rigetto , da parte del giudice di appello , dell’eccezione di inapplicabilità del raddoppio dei termini nei confronti del socio accomandante.
Questa Corte sul punto ha chiarito che la parte totalmente vittoriosa in appello è legittimata a proporre ricorso incidentale nell’ipotesi in cui intenda riproporre in cassazione l’eccezione del giudicato interno. In tutti gli altri casi, invece, è priva di interesse processuale al ricorso, ove, peraltro, con riferimento alle domande od eccezioni espressamente non accolte dal giudice di merito, può proporre ricorso incidentale condizionato all’accoglimento, almeno parziale, del ricorso principale, giacché in tale ipotesi, per effetto della cassazione della sentenza impugnata, viene meno la sua posizione di parte del tutto vittoriosa, sorgendo, in tal modo, l’interesse all’impugnazione. Invece, per le domande o eccezioni non esaminate, o ritenute assorbite dal giudice di merito, non è
ammissibile neppure il ricorso incidentale condizionato, in quanto sul punto non è stata pronunciata alcuna decisione, sicché l’eventuale accoglimento del ricorso principale comporta pur sempre la possibilità di riesame nel giudizio di rinvio di dette domande o eccezioni (Cass. 10/06/2008, n. 15362, Cass. 26/01/2006, n. 1691).
5.1. Il motivo è, tuttavia, infondato.
L’art. 43, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo vigente ratione temporis, prevede che «in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione».
5.2. Come più volte chiarito da questa Corte, anche sulla scorta dei principi enunciati da Corte Cost. n. 247 del 2011, il raddoppio opera in presenza di tale presupposto astratto, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denunzia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo (Cass. 28/06/2019, n. 17586; Cass. 13/09/2018, n. 22337; Cass. 30/05/2016, n. 11171), non rilevando «né l’esercizio dell’azione penale da parte del p.m., ai sensi dell’articolo 405 c.p.p., mediante la formulazione dell’imputazione, né la successiva emanazione di una sentenza di condanna o di assoluzione da parte del giudice penale, anche in considerazione del doppio binario tra giudizio penale e procedimento e processo tributario» (Cass. 15/05/2015, n. 9974).
5.3. Ciò naturalmente non rende di per sé legittimo qualunque accertamento compiuto dall’Amministrazione finanziaria oltre il termine-base fissato dalla legge, dovendo al contrario essere evitato, come chiarito dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 247 del 2011, un uso pretestuoso e strumentale delle
disposizioni in esame al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento. Per verificare l’uso pretestuoso del raddoppio dei termini «il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità», con la precisazione però che «il correlativo tema di prova – e, quindi, l’oggetto della valutazione da effettuarsi da parte del giudice tributario -è circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale e non riguarda l’accertamento del reato» (p. 5.3. della sentenza della Corte costituzionale).
5.4. In forza del principio dell’unitarietà dell’accertamento che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e dei soci delle stesse ex art. 5 T.u.i.r., non può dubitarsi del fatto che il mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale nei confronti degli organi societari determini il raddoppio dei termini per l’accertamento anche del reddito imputato «per trasparenza» al socio.
Invero, come già ritenuto da questa Corte, l’addebito fiscale al socio discende ope legis dall’accertamento effettuato nei confronti della società, nella quale (con particolare riguardo alla società in accomandita semplice) gli accomandatari rivestono la posizione di amministratori e gli accomandanti sono dotati di amplissimi poteri di controllo (come disegnati dall’art. 2320 cod. civ.), sì da escludere un rapporto di alterità (e la qualità di terzi) dei membri della compagine sociale rispetto all’ente collettivo non personificato: e tanto rileva allorquando sia ipotizzata la contestazione di un fatto di reato agli amministratori sociali, con contegno tenuto in vista di un vantaggio (illecito) comune, costituito dal maggiore reddito sociale imputato per trasparenza ai
soci (in tal senso, Cass. 28/01/2021, n. 1883, in riferimento alla società in accomandita semplice, che richiama analoghi precedenti e precisamente Cass. 16/12/2016, n. 26037, in riferimento ad una società in nome collettivo; Cass. 7/10/2015, n. 20043 e Cass. 2/07/2018, n. 17212, che hanno ritenuto l’applicabilità del raddoppio dei termini ai soci di una società di capitali a ristretta base partecipativa; analogamente, sempre in riferimento a società in accomandita semplice, Cass. 21/10/2021, n. 29404, che ha evidenziato che ai fini del raddoppio dei termini di accertamento, pertanto, rileva unicamente l’astratta configurabilità di un fatto illecito che faccia sorgere in capo all’Amministrazione finanziaria l’obbligo di denuncia penale, indipendentemente da chi abbia commesso il reato prospettato; Cass. 02/11/2021, n. 31034).
5.5. Alla luce di ciò, deve richiamarsi il seguente principio di diritto: «la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale nei confronti degli organi societari di una società in accomandita semplice determina il raddoppio dei termini per l’accertamento, previsto dall’art. 43, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, vigente ratione temporis, anche del reddito imputato ‘per trasparenza’ ai soci accomandanti» (Cass. Sez. T, 7/06/1994, n. 15999).
6. In conclusione, accolto il ricorso principale e rigettato il ricorso incidentale, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio affinché, in diversa composizione, proceda a nuovo e motivato esame, nel rispetto dei principi sopra illustrati, nonché provveda alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale, rigetta il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio affinché, in diversa composizione, proceda a nuovo e motivato esame nonché provveda alle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 18/12/2024.