Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 22243 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 22243 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 01/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14321/2018 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
COGNOME NOMECOGNOME
-intimato- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. della SICILIA-PALERMO n. 1333/2017 depositata il 06/04/2017.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24/04/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Rilevato che:
Dalla sentenza epigrafata, in punto di fatto, si apprende quanto segue:
Il Sig. COGNOME NOME ricorreva innanzi la CTP di Agrigento, avverso l’avviso di accertamento n. RJ10102002285 -2008 per tributi Irpef, Iva, Irap, anno 2004, emesso dall’Agenzia delle Entrate -Ufficio di Canicattì.
L’avviso risultava emesso sulla base di p.v. di constatazione elevato il 21/4/2008 dalla Guardia di Finanza, ove si rilevava l’omessa presentazione delle dichiarazioni di inizio attività e delle dichiarazioni annuali Irap e Iva e si accertava un maggior reddito imponibile, con conseguente omessa fatturazione di acquisti e vendite di animali e l’irregolare tenuta delle scritture contabili.
Il ricorrente evidenziava di aver sempre ottemperato a tutti gli adempimenti fiscali nel rispetto della normativa vigente.
La CTR, con sentenza n. 471/5/10 del 27 ottobre 2010, accoglieva il ricorso, annullando l’avviso.
L’Agenzia delle entrate proponeva appello, rigettato dalla CTR della Sicilia, con la sentenza epigrafata, sulla base della seguente motivazione:
Risulta pacifico agli atti che l’attività svolta dal COGNOME sia di allevamento di bovini e bufalini: ciò che è controverso e se tale attività vada tassata secondo le disposizioni sui redditi di allevamento ovvero quale reddito d’impresa.
Invero, si considera reddito agrario il reddito derivante dall’allevamento di animali su terreni agricoli, quando questi vengono nutriti con mangimi ottenuti per almeno un quarto dal terreno agricolo posseduto, tenuto conto delle quantità di mangimi ottenibili dai terreni .
Nel caso in esame, il COGNOME risultava utilizzare, per l’allevamento, terreni di proprietà -sua e della moglie -per una superficie di oltre 10,00 ettari; risulta, altresì, che la consistenza dell’allevamento era, in tutto,
all’atto della verifica, di 28 capi bovini e 4 bufalini; che gli animali erano allevati al pascolo libero; che non veniva prodotto foraggio per allevamento, nutrendosi, gli animali di quanto trovavano al pascolo e che solo per l’eccedenza venivano acquistati mangimi. La documentazione contabile era, altresì, regolare.
Orbene, come controdedotto dal contribuente, la fattispecie rientra nella disciplina di cui all’art. 32, II c., lett. b) del DPR 917 del 1986 .
La verifica del numero di animali allevati, con i coefficienti stabiliti dal decreto ministeriale, non porta ad attribuzione di una diversa categoria di attività produttiva .
Tutto ciò considerato, questa CTR rigetta l’appello dell’Agenzia delle Entrate, confermando la sentenza impugnata.
Propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate con un motivo; il contribuente resta intimato.
Considerato che:
Con l’unico motivo di ricorso si denuncia: ‘Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 39, comma 2, d.P.R. n. 600/1973 e 2729 c.c. (Art. 360 primo comma n. 3 c.p.c.)’.
‘Si censura la sentenza impugnata per non aver tenuto conto della legittima applicazione del metodo induttivo a fronte dell’omessa dichiarazione del reddito di allevamento di bovini’. Inoltre il COGNOME ‘non ha compilato ed allegato alla dichiarazione dei redditi il quadro ‘RD’ dal quale si desume l’eventuale eccedenza del limite di cui all’art. 32, comma 2, lettera b) del DPR n. 917/86, onde determinare la parte eccedente che concorre a formare il reddito d’impresa. Si aggiunga che l’avviso di accertamento contestato non applica, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di prime cure, alcuno ‘studio di settore”.
Il motivo è fondato ai sensi della motivazione a seguire.
Inconferente è il riferimento all’applicazione di studi di settore, poiché tale affermazione non è contenuta nella sentenza impugnata.
Fondato, invece, è il motivo nella parte in cui imputa alla CTR di aver pretermesso che l’accertamento induttivo che ne occupa discende, a seguito di verifica della GdF, dall’omessa dichiarazione in sé dell’attività di allevamento.
Recentemente questa S.C. in due pronunce di ampio respiro sistematico (Cass. nn. 16474 e 16475 del 2022) ha avuto modo di chiarire le concrete modalità operative della disciplina del cd. reddito agrario ai sensi dell’art. 32 (già 29), comma 2, TUIR (secondo cui: ‘Sono considerate attività agricole: b) l’allevamento di animali con mangimi ottenibili per almeno un quarto dal terreno», mentre il successivo comma 3 dell’art. 32 demanda ad un decreto del Ministro delle finanze stabilire «per ciascuna specie animale il numero dei capi che rientra nei limiti di cui alla lettera b) del comma 2, tenuto conto della potenzialità produttiva dei terreni e delle unità foraggere occorrenti a seconda della specie allevata’), osservando:
Nell’intendere la portata delle trascritte disposizioni, questa Corte ha ripetutamente chiarito -con indirizzo ermeneutico cui va data convinta continuità -che «l’attività di allevamento del bestiame non può essere ricondotta alla previsione dell’art. 29, comma secondo, lettera b) , e non può quindi essere considerata agricola, ma industriale o commerciale, se l’allevamento non è effettuato con mangimi ottenuti, almeno per un quarto di quelli necessari per l’alimentazione del bestiame, dai terreni dell’azienda» (testualmente, Cass. 14/02/2014, n. 3487; conf. Cass. 19/03/2010, n. 6751; Cass. 20/10/2006, n. 22582). 13.1. Della sussunzione sub specie juris dei proventi generati da un’attività economica di tal fatta, nella sua globalità considerata, si occupa poi l’art. 56, comma 5 (già art. 78, comma 1) del d.P.R. n. 917 del 1986, chiaro nel prevedere che «Nei confronti dei soggetti che esercitano attività di allevamento di animali oltre il limite di cui alla lettera b) del comma 2 dell’articolo 32 il reddito relativo alla parte eccedente
concorre a formare il reddito d’impresa nell’ammontare determinato attribuendo a ciascun capo un reddito pari al valore medio del reddito agrario riferibile a ciascun capo allevato entro il limite medesimo, moltiplicato per un coefficiente idoneo a tener conto delle diverse incidenze dei costi». Dalla medesima attività economica origina, dunque, un reddito che assume una duplice veste giuridica: «si detta la regola secondo cui soltanto la parte eccedente il limite summenzionato viene considerato reddito d’impresa, mentre quello relativo alla parte non eccedente mantiene la natura di reddito agrario» (così Cass. 30/10/2001, n. 13476; Cass. 20/10/2006, n. 22582). 13.2. E l’entità di siffatto reddito d’impresa -cioè dei proventi tratti dalla frazione dell’attività di allevamento di natura commerciale perché esorbitante il perimetro ex lege definito come agricolo -è predeterminata da coefficienti fissati dal sinergico operare di norme di grado primario e secondario: essa, infatti, si commisura al valore medio attribuito ad ogni capo eccedente il limite moltiplicato per un coefficiente idoneo a tener conto delle diverse incidenze dei costi, valore e coefficiente stabiliti da un decreto del Ministro dell’economia e finanze soggetto a periodico aggiornamento (ogni due anni). Il criterio di computo forfettario di tale reddito d’impresa opera, a mente dell’art. 56 del d.P.R. n. 917 del 1986, in via automatica, senza necessità di una espressa opzione del contribuente, facultato invece a scegliere il regime ordinario di determinazione del reddito (Cass. n. 16474 del 2022, par. 13 ss., p. 6 ss.) .
In specifico riferimento alla facoltà di opzione per il regime ordinario di determinazione del reddito, insegna questa S.C. che l’ art. 78 comma 4 del d.P.R. n. 917 del 1986 stabilisce, infatti, che “il contribuente ha facoltà, in sede di dichiarazione, di non avvalersi delle disposizioni del presente articolo”, con ciò dettando la regola, secondo cui l’applicazione del regime forfetario di determinazione del reddito d’impresa di allevamento, stabilito dai primi tre commi del medesimo articolo, è facoltativa, potendo il contribuente optare, nella dichiarazione annuale, per il regime ordinario di determinazione del reddito d’impresa. Ma questa regola vale, ovviamente, nelle ipotesi, fisiologiche, di corrispondenza tra reddito dichiarato e reddito effettivo dell’impresa di allevamento, ma certamente non già in quelle, patologiche in cui sussistono i presupposti per l’accertamento induttivo previsto dall’art. 39 comma 2 del d.P.R. n. 600 del 1973 (Cass. n. 13476 de 2001, par. 2.2, p. 14 s.).
Tale insegnamento è stato ancora ribadito da questa S.C. in un caso in cui il giudice di appello aveva annullato l’avviso di accertamento mediante il quale ‘l’Amministrazione finanziaria, avendo riscontrato che la contribuente, titolare di impresa agricola individuale, aveva allevato animali oltre il limite previsto dal legislatore fiscale per poter qualificare il reddito come agrario, procedeva a determinare induttivamente il reddito, che qualificava come reddito di impresa, posto che la contribuente aveva omesso di compilare, in sede di dichiarazione dei redditi il ‘quadro RD”, affermando:
-tale principio è applicabile nel caso in esame, nel quale, appunto, si è in presenza di una ricostruzione induttiva del reddito operata sulla base di accertamenti bancari, avvenuta in conseguenza del fatto che la contribuente non ha fedelmente dichiarato il numero di animali e quindi ha omessa di fare emergere che si era in presenza di una situazione nella quale, accanto al reddito agrario, c’era anche un reddito di impresa;
-emerge quindi chiaramente l’errore in cui è incorsa la Ctr, la quale, sulla base della supposta indefettibilità della determinazione forfetaria del reddito, ha negato in via di principio la legittimità della determinazione presuntiva del reddito di impresa, nella specie operata sulla base di accertamenti bancari (Cass. n. 1129 del 2018, primo e secondo cpv. di p. 4).
Infine, attingendo così la questione delle forme dell’accertamento nei confronti di un’impresa ‘lato sensu’ agricola, questa S.C. – nel disattendere la difesa del ricorrente secondo cui ‘la tassazione del suo reddito come reddito d’impresa, e non come reddito agrario calcolato forfettariamente, presupponeva il superamento dei limiti di cui all’art. 32 , comma 2, lett. 6), d.P.R. n. 917 del 1986, ovvero che la superficie adibita alla produzione eccedesse il doppio di quella del terreno su cui la produzione insisteva, circostanza che l’ufficio non avrebbe specificamente dedotto nell’avviso d’accertamento controverso . Pertanto, secondo il contribuente, l’Ufficio avrebbe dovuto prima dimostrare
che egli svolgeva attività eccedenti quelle configuranti reddito agrario forfettariamente determinato, e solo successivamente a tale approdo istruttorio avrebbe potuto determinare l’eventuale reddito d’impresa non dichiarato, servendosi delle indagini bancarie’ – così espressamente scrive:
a tesi del ricorrente pare muovere dalla considerazione che la tassazione dei redditi dell’attività agricola avvenga esclusivamente sulla base del reddito catastale, a prescindere dal reddito effettivamente prodotto, e che sia pertanto onere del Fisco dimostrare l’esistenza di altre attività, oltre a quella agricola nella quale non sono comprese quelle di coltivazione e di allevamento che eccedano i limiti di cui al citato art. 32, comma 2, d.P.R. n. 917 del 1986 ), da cui siano derivati redditi non dichiarati.
Pertanto, poiché nei confronti di chi svolge le attività agricole il reddito tassabile è quello figurativo, risultante dalle risultanze catastali, e non quello effettivamente ricavato, dovrebbe ritenersi precluso all’Ufficio di utilizzare metodi di accertamento dell’imponibile di natura sintetica od induttiva, esperibili verso gli altri contribuenti.
Tuttavia, questa Corte ha già chiarito che la disposizione speciale di cui all’art. 32, comma 1, d.P.R. n. 917 del 1986, si configura non già come l’unica regola alla cui stregua censire la redditualità generale del contribuente coltivatore diretto, che invece ne fruisce nella più circoscritta area di determinazione dei soli redditi, appunto agrari e dominicali, per i quali le risultanze catastali debbono operare come parametri (Cass. 18711/2016, n. 23497, in motivazione).
Non è quindi precluso, in generale, all’Amministrazione l’utilizzo, anche nei confronti del contribuente coltivatore diretto, di forme di accertamento che conseguano alla rilevazione di indici di una capacità patrimoniale non coordinabile con il reddito forfettario denunciato (Cass. n. 34704 del 2019, (par. 3.1, p. 5 s.).
In definitiva, deve convenirsi che è legittimo l’accertamento induttivo condotto, nella ricorrenza dei relativi presupposti, ai sensi dell’art. 39, comma 2, DPR n. 600 del 1973 nei confronti di chi esercita attività agricola, non essendo esso inibito dalle speciali previsioni sulla determinazione del cd. reddito agricolo di cui all’art.
32 (già 29), commi 1 e 2, TUIR, le quali non si configurano come l’unica regola alla cui stregua censire la redditualità generale di un tale contribuente, che invece ne fruisce nella più circoscritta area di determinazione dei soli redditi contenuti entro la soglia di operatività delle suddette speciali previsioni.
Tornando al caso di specie, la CTR ha inosservato i superiori principi.
Essa, infatti, ha annullato ‘tout court’ l’avviso di accertamento oggetto di giudizio, senza considerare che lo stesso trova fondamento nell’omessa dichiarazione in sé dell’attività di allevamento di bovini e bufalini: omessa dichiarazione sicuramente legittimante -viepiù in difetto di fatture di acquisto e vendita -l’adozione della metodologia induttiva (per vero finanche pura), ai sensi del secondo comma dell’art. 39 e/o dell’art. 41 DPR n. 600 del 1973, ‘sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a conoscenza ‘ (cfr. ad es. Cass. n. 2581 del 2021); dati e notizie, a loro volta, con riferimento all’attività del contribuente, raccolti dai verificatori presso il servizio veterinario e l’associazione provinciale di categoria.
Ne consegue che la sentenza impugnata va cassata con rinvio per nuovo esame e per le spese, comprese quelle del grado.
P.Q.M.
La Corte, in accoglimento del ricorso ai sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, in diversa composizione, per nuovo esame e per le spese.
Così deciso a Roma, lì 24 aprile 2025.