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Redditi illecitamente conseguiti: la Cassazione conferma

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 5174/2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un ex dipendente bancario contro un accertamento fiscale per redditi illecitamente conseguiti tramite appropriazione di fondi. La Corte ha applicato il principio della “doppia conforme”, dato che le sentenze di primo e secondo grado erano basate sul medesimo iter logico-argomentativo. È stato ribadito che i proventi da attività illecita sono soggetti a tassazione, indipendentemente dall’esito del procedimento penale.

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Pubblicato il 3 novembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Redditi illecitamente conseguiti: la Cassazione chiude la porta al ricorso

L’ordinanza n. 5174 del 27 febbraio 2024 della Corte di Cassazione offre un’importante lezione sulla tassabilità dei redditi illecitamente conseguiti e sui limiti procedurali dell’impugnazione. La vicenda riguarda un ex dipendente di un istituto di credito che, dopo essersi appropriato di ingenti somme, ha cercato di contestare l’accertamento fiscale dell’Amministrazione Finanziaria. La Corte, tuttavia, ha dichiarato il suo ricorso inammissibile, consolidando principi fondamentali sia in materia sostanziale che processuale.

I fatti di causa

La vicenda ha origine da una verifica fiscale condotta nei confronti di un dipendente di un istituto di credito. Le indagini avevano rivelato che l’uomo, tra il 2010 e il 2013, si era appropriato di svariati milioni di euro utilizzando artifizi contabili. Per l’anno 2010, l’Amministrazione Finanziaria aveva contestato un maggior reddito imponibile di oltre 670.000 euro, qualificando le somme sottratte come redditi illecitamente conseguiti e quindi soggette a tassazione.

Il contribuente aveva impugnato l’atto impositivo, ma il suo ricorso era stato respinto sia dalla Commissione Tributaria Provinciale che, in appello, dalla Commissione Tributaria Regionale. Giunto dinanzi alla Corte di Cassazione, il ricorrente ha lamentato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, sostenendo una errata quantificazione e la mancanza del presupposto impositivo.

La questione della “doppia conforme” e i limiti del ricorso

Il principale ostacolo per il ricorrente è stato di natura processuale. La Corte Suprema ha rilevato l’esistenza di una “doppia conforme”, ovvero una situazione in cui la sentenza d’appello conferma integralmente la decisione di primo grado, basandosi sul medesimo iter logico-argomentativo.

Secondo l’articolo 348-ter del codice di procedura civile, quando si verifica una “doppia conforme”, il ricorso in Cassazione per omesso esame di un fatto decisivo (previsto dall’art. 360, n. 5 c.p.c.) è inammissibile. Per superare questo sbarramento, il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare che le ragioni di fatto alla base delle due sentenze erano diverse, cosa che non è avvenuta. Il contribuente si è limitato a riproporre le sue argomentazioni senza confrontarsi criticamente con le motivazioni dei giudici di merito.

le motivazioni della Corte

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso basandosi su due pilastri fondamentali.

In primo luogo, dal punto di vista processuale, ha confermato l’inammissibilità del motivo di ricorso per la sussistenza della “doppia conforme”. I giudici hanno sottolineato come il ricorrente non abbia adempiuto all’onere di specificare le differenze tra le motivazioni delle due sentenze di merito, limitandosi a una generica riproposizione delle proprie tesi difensive. Questo ha impedito alla Corte di entrare nel merito della quantificazione del reddito.

In secondo luogo, la Corte ha ribadito un principio sostanziale cruciale: la tassabilità dei redditi illecitamente conseguiti. Ai sensi dell’art. 14, comma 4, della Legge n. 537/1993, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo sono soggetti a tassazione. Le argomentazioni del ricorrente – come la presunta responsabilità dell’istituto di credito per omesso controllo o la non definitività del procedimento penale – sono state ritenute irrilevanti ai fini fiscali. La percezione del reddito, anche se illecito, costituisce il presupposto impositivo che fa scattare l’obbligo tributario.

le conclusioni

In definitiva, il ricorso è stato respinto e il contribuente condannato al pagamento delle spese legali. L’ordinanza consolida due importanti principi. Sul piano processuale, ribadisce la rigidità del filtro della “doppia conforme”, che richiede al ricorrente uno sforzo argomentativo specifico per dimostrare la diversità delle motivazioni tra primo e secondo grado. Sul piano sostanziale, conferma senza alcuna ombra di dubbio che i profitti derivanti da attività illecite non sfuggono all’imposizione fiscale. La vicenda dimostra che l’ordinamento tributario opera in autonomia rispetto a quello penale, colpendo la manifestazione di capacità contributiva ovunque essa si trovi, anche nelle casseforti riempite illegalmente.

I proventi derivanti da attività illecite sono soggetti a tassazione?
Sì, la sentenza conferma che, ai sensi dell’art. 14, comma 4, della Legge n. 537 del 1993, i redditi illecitamente conseguiti sono soggetti a imposizione fiscale, in quanto rappresentano una manifestazione di capacità contributiva.

Cosa si intende per “doppia conforme” e quali sono le sue conseguenze?
Si ha una “doppia conforme” quando la sentenza di appello conferma la decisione di primo grado basandosi sul medesimo percorso logico-argomentativo. In questo caso, diventa inammissibile il ricorso in Cassazione per il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, a meno che il ricorrente non dimostri che le motivazioni delle due sentenze sono diverse.

L’esito di un procedimento penale influenza l’accertamento fiscale sui redditi illeciti?
No, la sentenza chiarisce che l’obbligo tributario sorge con la percezione del reddito, anche se di provenienza illecita. La non definitività o l’esito del procedimento penale non sono di per sé sufficienti a invalidare il presupposto impositivo e l’accertamento fiscale che ne deriva.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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