Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 13279 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 13279 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 19/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8653/2021 R.G. proposto da:
NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME come da procura speciale in atti
-ricorrente-
contro
Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato
-controricorrente-
e contro
Agenzia delle entrate-riscossione, in persona del Direttore pro tempore
-intimata-
Avverso la sentenza n. 2734/1/2020, emessa dalla Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 30 settembre 2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 7 maggio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La lite trae origine da una cartella di pagamento, relativa ad un atto di recupero di crediti fiscali di uno Stato estero e membro dell’Unione Europea, la Repubblica Federale di Germania, emessa e notificata a NOME COGNOME il quale l’aveva impugnata innanzi la Commissione tributaria provinciale di Viterbo, che aveva accolto il ricorso.
Il conseguente appello dell’Agenzia delle entrate è stato accolto dalla Commissione tributaria regionale del Lazio con la sentenza di cui all’epigrafe.
Con ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, NOME COGNOME impugnava la decisione di secondo grado.
L’Agenzia delle entrate si difendeva con controricorso, mentre l’Agenzia delle entrate-riscossione rimaneva intimata.
Il ricorso, supportato da memoria del contribuente, viene ora trattato in adunanza camerale, a seguito di istanza di fissazione proposta dalla parte ricorrente, dopo aver ricevuto la comunicazione della proposta di decisione accelerata di cui all’art. 380-bis c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si denuncia ‘N ullità della sentenza impugnata per carenza assoluta della motivazione e motivazione apparente, in violazione degli artt. 36 del d.lgs n. 546/1992, e 111 cost., censurabile ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ.’, assumendo il ricorrente che ‘la motivazione è
composta da affermazioni apodittiche o contraddittorie tra loro e non prende in considerazione talune eccezioni proposte nel corso del giudizio di merito.’.
Il motivo è inammissibile, laddove denunzia, contemporaneamente e senza gradazione, due vizi tra loro non conciliabili logicamente, ovvero l’omessa motivazione, prospettata nella rubrica e nel corpo del motivo, e l’omessa pronuncia su ‘talune eccezioni’, accennata nel corpo del mezzo. Infatti, mentre la prima censura suppone che vi sia stata una decisione, che però difetti di motivazione, la seconda presuppone che non vi sia stata alcuna pronunzia, neppure implicita (cfr. ex plurimis Cass. n. 26764 del 21/10/2019).
L’ambiguità derivante dalla contemporanea denunzia di ambedue i vizi non può ovviamente essere risolta da un inammissibile intervento di selezione effettuato da questa Corte.
Il mezzo, in ogni caso, è inammissibile anche per la genericità circa le ‘eccezioni’ sulle quali il giudice d’appello non si sarebbe pronunziato. Esso è inoltre comunque infondato quanto al preteso vizio della motivazione della sentenza impugnata, che non è inferiore al c.d. minimo costituzionale e non presenta alcuno dei vizi radicali ( “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, “motivazione apparente”, “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”) di cui a Cass., Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014.
2. Con il secondo motivo si denuncia nuovamente ‘Nullità della sentenza impugnata per carenza assoluta della motivazione e motivazione apparente, in violazione degli artt. 36 del d.lgs n.546/1992, e 111 cost., censurabile ai sensi dell’art.360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ.’, assumendo il ricorrente che la CTR ‘non si esprime in ordine all’eccezione del contribuente avente ad oggetto l’inammissibilità dell’atto di appello, per carenza di legittimazione dell’Agenzia delle Entrate a proporre appello avverso la sentenza della CTP di Viterbo’, poiché quest’ultima sarebbe ‘riferita a vizi propri della cartella emessa dall’Agente di Riscossione, all’epoca RAGIONE_SOCIALE, odierna Agenzia delle Entrate Riscossione SpA che, sebbene regolarmente citata, non si è costituita nel giudizio di primo grado in merito a tele eccezione la stessa Agenzia delle Entrate
ha riconosciuto la propria carenza di legittimazione a difendere i vizi propri della cartella eccepiti dal ricorrente chiedendo proprio la chiamata in causa della Agenzia delle Entrate Riscossioni Spa Nella propria costituzione nel giudizio di primo grado, la Direzione Provinciale di Viterbo aveva eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva a stare in giudizio (chiedendo l’integrazione del contraddittorio in favore della Agenzia delle Entrate Riscossione), salvo poi proporre appello avverso la sentenza favorevole al contribuente. Ma sul punto, nessuna motivazione’.
Anche tale mezzo è inammissibile per la contemporanea denunzia di omessa motivazione, prospettata nella rubrica e nel corpo del motivo, e l’omessa pronuncia profilata nel corpo del mezzo (‘la CTR non si esprime in ordine all’eccezione’, su ‘talune eccezioni’), valga quindi quanto già esplicitato sul punto a proposito del primo motivo.
Giova peraltro rilevare anche l’infondatezza del mezzo, ove si rilevi che l’eccezione in questione è stata oggetto, comunque, di un rigetto implicito, logicamente necessario nella decisione resa dal giudice d’appello sul merito della pretesa erariale, che non può non presupporre anche la legittimazione ad impugnare dell’appellante Agenzia delle entrate.
In ogni caso, poi, è palese l’infondatezza dell’eccezione in questione, essendo l’Agenzia delle entrate legittimata all’appello già per il fatto di essere stata parte, e soccombente, del giudizio di primo grado, peraltro in ragione della notifica del ricorso introduttivo, indirizzatale proprio dall’attuale ricorrente. Del resto, qualora sia impugnata una cartella esattoriale deducendo la mancata notifica dei prodromici atti impositivi, il contribuente può agire indifferentemente nei confronti dell’ente impositore o dell’agente della riscossione, senza che sia configurabile alcun litisconsorzio necessario ( ex plurimis Cass. n. 27737 del 25/10/2024) e, nel caso di specie, l’attuale ricorrente aveva agito proprio nei confronti dell’Agenzia delle entrate.
Non sfugga, peraltro, anche l’inammissibilità della pretesa del ricorrente di negare (venendo pure contra se ) la legittimazione ad impugnare proprio al medesimo soggetto, soccombente in primo grado, che egli stesso aveva ab
origine individuato quale controparte sostanziale e nei confronti del quale è risultato in prima battuta vittorioso.
3. Con il terzo motivo si denuncia nuovamente ‘Nullità della sentenza impugnata per carenza assoluta della motivazione e motivazione apparente, in violazione degli artt. 36 del d.lgs n. 546/1992, e 111 cost., censurabile ai sensi dell’art.360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ.’, assumendo il ricorrente che la CTR ‘ non dà conto delle doglianze espresse con l’atto di appello, in ordine alla nullità della notifica del ricorso in appello da parte dell’Agenzia delle Entrate al domicilio eletto del contribuente’, ‘Sul punto, nessuna motivazione.’. L’eccezione di nullità attingerebbe la notifica dell’appello in quanto ‘1) non indirizzata agli avvocati difensori del COGNOME, in proprio, i quali come da delega in atti, hanno difeso e assistito il sig. COGNOME sia congiuntamente che disgiuntamente, e non quale “studio legale” a cui è stato erroneamente indirizzato l’atto; 2) non sottoscritta dal messo speciale dell’Ufficio né da altro soggetto legittimato ad effettuare la notifica a mezzo posta ex legge 20/11/1982 n. 890.’.
Anche tale mezzo è inammissibile per la contemporanea denunzia di omessa motivazione, prospettata nella rubrica e nel corpo del motivo, e l’omessa pronuncia, profilata nel corpo del mezzo, valga quindi quanto già esplicitato sul punto a proposito del primo e del secondo motivo.
Giova peraltro rilevare anche in questo caso l’infondatezza del mezzo, ove si rilevi che l’eccezione in questione è stata oggetto, comunque, di un rigetto implicito, logicamente necessario nella decisione resa dal giudice d’appello sul merito della pretesa erariale, che non può non presupporre anche la valida notificazione dell’ impugnazione.
Inoltre, il mezzo è inammissibile anche perché non adempie l’onere di cui all’art. 366, comma 1, n. 6, cod. proc. civ., di specifica indicazione, a pena d’inammissibilità del ricorso, degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito. (Cass., 15/01/2019, n. 777; Cass., 18/11/2015, n. 23575; Cass., S.U., 03/11/2011, n. 22726).
Tale onere (ribadito ed aggravato, con l’inserimento altresì della necessaria illustrazione del contenuto rilevante degli stessi atti processuali e documenti, dall’ art. 3, comma 27, del d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 149, applicabile tuttavia ai giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere dal 1° gennaio 2023, ex art. 35, comma 5, del medesimo d.lgs.), anche interpretato alla luce dei principi contenuti nella sentenza della Corte EDU, sez. I, 28 ottobre 2021, r.g. n. 55064/11, non può ritenersi rispettato qualora il motivo di ricorso non indichi specificamente i documenti o gli atti processuali sui quali si fondi; non ne riassuma il contenuto o ne trascriva i passaggi essenziali; né comunque fornisca un riferimento idoneo ad identificare la fase del processo di merito in cui essi siano stati prodotti o formati (cfr. Cass. Sez. U., 18/03/2022, n. 8950; Cass. 14/04/2022,n. 12259; Cass. 19/04/2022, n. 12481; Cass. 02/05/2023, n. 11325). Peraltro, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo , presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, proprio per assicurare il rispetto della citata disposizione codicistica (cfr. Cass. n. 29495 del 23/12/2020).
Nel caso di specie, mancano le prescritte indicazioni in ordine agli atti (la ‘delega’ e la notifica del ricorso) sulle quali dovrebbe fondarsi la censura.
In ogni caso, poi, è infondata l’eccezione in questione, considerato che non viene neppure dedotto se, e come, il fatto che la notifica dell’appello fosse ‘indirizzata’ allo ‘studio legale’ dei difensori del ricorrente abbia compromesso la sostanziale inequivoca identificazione (tenendo conto anche dell’atto notificato) dei predetti e/o della loro qualità di procuratori del loro assistito e/o dell’identità di quest’ultimo.
Allo stesso modo, considerato che l’art. 16 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, prevede, nel terzo comma, che le notificazioni possono essere fatte anche
«direttamente a mezzo del servizio postale mediante spedizione dell’atto in plico senza busta raccomandato con avviso di ricevimento, sul quale non sono apposti segni o indicazioni dai quali possa desumersi il contenuto dell’atto», non è comunque comprensibile e fondata l’eccezione generica relativa alla circostanza che la notifica non sarebbe stata ‘sottoscritta dal messo speciale dell’Ufficio né da altro soggetto legittimato’.
Infine, l’avvenuta costituzione tempestiva dell’appellato (peraltro senza che, nel mezzo in decisione, si eccepisca l’ipotetica tardività dell’appello erariale) avrebbe in ogni caso sanato anche eventuali vizi di nullità della notifica dell’impugnazione, a prescindere dalle clausole di stile utilizzate dall’appellato stesso.
4. Con il quarto motivo si denuncia ‘Erronea applicazione dell’art. 3 della legge n. 241/1990 e dell’art. 7, comma 1, della l. 27.7.2000, n. 212, nonché’ dell’art. 5 del d.lgs n.69/2003, censurabile ai sensi dell’art. 360, comma 1,n. 3) cod. proc. civ.’, assumendo il ricorrente che la CTR avrebbe errato nell’escludere la nullità della cartella di pagamento, nonostante la motivazione di quest’ultima fosse viziata, per la mancata allegazione del titolo esecutivo dello Stato estero, la Germania, richiedente assistenza a quello italiano.
Sebbene il mezzo sia permeato di una certa ambiguità nella descrizione sostanziale della violazione di legge dedotta, invero il complesso della denunzia, in relazione soprattutto alle conclusioni della stessa, consente di individuare il vizio denunciato come patologia della motivazione della cartella impugnata.
Tanto premesso, il motivo è infondato.
La giurisprudenza di questa Corte- pur con riferimento a fonti normative e convenzionali diverse da quelle indicate dalle parti, ma comunque rilevanti per il caso di specie- ha già avuto occasione di chiarire che, ai sensi della Convenzione di reciproca assistenza amministrativa in materia fiscale tra Stati membri del Consiglio d’Europa e Paesi membri dell’OCSE, ratificata con l. n. 19 del 2005, al fine di assicurare il diritto di difesa del contribuente, nel caso in cui il titolo da cui deriva la pretesa tributaria provenga da uno Stato estero, la cartella di pagamento deve contenere elementi sufficienti a consentire al destinatario di
valutare se contestarla, dovendosi nondimeno commisurare la congruità di tale contenuto all’ambito, ristretto, delle questioni che egli possa sottoporre alla giurisdizione italiana; detti requisiti sono soddisfatti quando l’Amministrazione finanziaria italiana dichiari di procedere, in adempimento della menzionata Convenzione, nell’interesse e per conto del collaterale ufficio straniero, alla riscossione di un debito tributario dall’importo determinato che l’Amministrazione fiscale estera vanta in forza di un titolo esecutivo ed in relazione ad imposte dovute per un anno specifico. Nella specie, la SRAGIONE_SOCIALE. ha ritenuto i dati riportati nella cartella sufficienti a consentire una “ragionevole verifica” al destinatario, risolvendosi eventuali ulteriori informazioni sull'”an” e sul “quantum” della pretesa tributaria in dati che il contribuente non avrebbe comunque potuto far valere innanzi al giudice tributario italiano (Cass. n. 20189 del 25 settembre 2020 e giurisprudenza ivi citata). Nella motivazione dello stesso arresto, peraltro, viene rilevato che l’art. 13 della citata Convenzione riguarda i documenti che accompagnano la domanda di assistenza, di cui al precedente art. 11, che lo Stato estero creditore indirizza a quello richiesto, la cui necessaria allegazione, a pena d’invalidità, all’atto di recupero emanato dallo Stato che presta l’assistenza, non è prescritta dalla medesima Convenzione.
Nello stesso senso, già Cass. n. 23597 del’ 11 novembre 2011, con riferimento agli adempimenti previsti dalla ‘Convenzione sull’assistenza amministrativa e giudiziaria in materia tributaria fra l’Italia e la Germania’ del 1938, osservava che tali adempimenti «riguardano i rapporti tra le due Autorità Supreme . Nessuna norma prevede che tali atti debbano corredare l’avvio della procedura di riscossione nei confronti del contribuente».
Il principio, espresso da Cass. n. 20189 del 25 settembre 2020 con riferimento alla richiamata convenzione multilaterale (alla quale ha aderito, ratificandola, anche la Repubblica Federale di Germania, come già l’Italia) trova invero corrispondenza in quello espresso da questa Corte con riferimento al d.lgs. del 09/04/2003, n. 69 ( idest la norma invocata dal ricorrente e richiamata sia dal controricorrente che dalla sentenza impugnata), che ha attuato la direttiva 2001/44/CE relativa all’assistenza reciproca in materia di recupero di crediti
connessi al sistema di finanziamento del FEOGA, nonché’ ai prelievi agricoli, ai dazi doganali, all’IVA ed a talune accise (direttiva poi codificata, con testo in parte qua equivalente, nella versione 2008/55/CE del 26 maggio 2008, a sua volta poi abrogata, dall’1/1/2012, dalla versione 2010/24/UE del 16 marzo 2010, recepita dal d.lgs. 14 agosto 2012, n. 149, in vigore dal 14/09/2012).
Infatti, questa Corte (Cass. n. 4102 del 9/02/2023) ha ritenuto che « contrariamente a quanto ritenuto dalla C.T.R., non vi è alcun obbligo di allegare, alla cartella di pagamento, la traduzione del titolo esecutivo estero per il quale si procede al recupero.
Invero, in base all’art 5 del d.lgs. n. 69/2003 (che rappresenta attuazione della direttiva europea n.2001/44/CE, relativa all’assistenza reciproca in materia di recupero di crediti connessi al sistema di finanziamento del FEOGA, nonché ai prelievi agricoli, ai dazi doganali, all’IVA ed a talune accise), occorre distinguere due distinti momenti per il recupero dei crediti tributari derivanti da titoli stranieri. In base ai commi 4 e 5 del citato art. 5 d.lgs. n. 69/2003, infatti, l’autorità richiedente (quindi l’autorità estera) invia all’autorità adita, non appena ne sia a conoscenza, ogni informazione utile relativa al caso che ha motivato la domanda di recupero, e tale domanda, il titolo esecutivo e gli altri eventuali documenti «devono essere corredati da una traduzione in lingua italiana».
In base al successivo comma 8 dello stesso art. 5 d.lgs. n. 69/2003, invece, per il recupero dei crediti di cui al presente decreto, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni contenute nel decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modifiche e nel decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46, e successive modificazioni», e quindi, in sostanza, la procedura esattoriale.
L’obbligo di traduzione del titolo, quindi, riguarda il momento della trasmissione della domanda di assistenza nel recupero del credito da uno Stato membro ad un altro (quello al quale si chiede l’assistenza), e non già il momento (puramente interno) con il quale lo Stato italiano procede al recupero effettivo, che si fonda sulla procedura esattoriale e, quindi, sulla notificazione della cartella di pagamento, secondo le disposizioni di cui al d.P.R. n. 602/1973.
Tale impostazione, d’altronde, è coerente con l’art. 8, par.1, della Direttiva 2001/44/CE, secondo il quale «il titolo esecutivo per il recupero del credito è riconosciuto direttamente e trattato automaticamente come uno strumento che consente l’esecuzione di un credito dello Stato membro in cui ha sede l’autorità adita», e quindi con il principio per cui il titolo esecutivo si forma prima della notificazione della cartella, con la possibilità, inoltre, per il contribuente, di contestare il credito o il titolo esecutivo nello Stato membro richiedente, ai sensi delle leggi ivi vigenti, ovvero di contestare (soltanto) gli atti della procedura esecutiva, secondo le disposizioni dell’ordinamento interno italiano (art. 6 d.lgs. n. 69/2003).».
La circostanza che il precedente appena citato riguardi la traduzione del titolo esecutivo non esclude la rilevanza del principio espresso anche rispetto all’allegazione dello stesso titolo, fondandosi comunque la ratio decidendi sia sulla rilevanza dell’invocato art. 5 del d.P.R. n. 602 del 1973, limitata alla fase della domanda di assistenza nel recupero del credito da uno Stato membro ad un altro; sia sulla conformazione della motivazione della cartella di pagamento, emessa dallo Stato assistito, in relazione all’ambito delle questioni che il contribuente possa sottoporre alla giurisdizione italiana.
Il giudice a quo ha fatto buon governo di tali principi, rilevando, in concreto, che, nel caso in esame, la cartella impugnata conteneva l’indicazione di tutti gli elementi necessari ad assolvere l’obbligo della motivazione della cartella, specificando ed apprezzando i relativi dati. Né sarebbe comunque ammissibile, in questa sede, sindacare il ragionato giudizio, in fatto, di sufficienza della motivazione della cartella espresso dalla CTR sulla scorta dei predetti criteri.
5. Con il quinto motivo si denuncia ‘Violazione dell’art. 2697 cod. civ. censurabile ex art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ.’.
Lamenta il ricorrente che la CTR avrebbe accolto l’appello proposto dall’Ufficio, ‘sebbene l’Agenzia delle Entrate non avesse adempiuto al proprio onere probatorio, non avendo dimostrato i fatti costitutivi della propria pretesa’.
La mancata prova circa l’esistenza ‘di un titolo esecutivo valido’ non consentirebbe, secondo il ricorrente, di verificarne l’esistenza e la legittimità.
In conclusione, sostiene il ricorrente, mancando la prova dell’esistenza ‘di un titolo esecutivo valido’, non sarebbe consentito sindacare la legittimazione a procedere ad esecuzione, per l’eventuale decadenza dell’Agenzia delle Entrate e dell’Agente della riscossione per procedere al recupero del credito estero, in quanto tale legittimazione viene meno se il titolo esecutivo non viene portato ad esecuzione nei termini di cui all’art. 8 d.lgs. n. 69 del 2003, dato che l’assistenza per recupero dei crediti esteri “non ha luogo se il periodo intercorrente tra la formazione del titolo esecutivo nello stato richiedente e la richiesta di recupero per il credito è superiore a cinque anni”.
Pertanto, l’Agenzia delle Entrate non avrebbe ‘ legittimazione per recuperare il “presunto” credito, senza aver dato la prova materiale della sussistenza di un titolo esecutivo divenuto validamente esecutivo’. Ne consegue che la CTR ‘avrebbe dovuto respingere l’appello dell’Agenzia delle Entrate, che non ha dimostrato in giudizio la fondatezza del proprio diritto’
5.1. Il mezzo presenta profili di inammissibilità.
Infatti, parte ricorrente non deduce se e quando la stessa eccezione, con riferimento alla decadenza (che costituisce il preteso precipitato ultimo della censura in esame), fosse stata sollevata già in primo grado dallo stesso contribuente, il quale neppure la include puntualmente tra la sintesi dei motivi di cui al ricorso introduttivo, che prospetta nell’attuale ricorso.
La stessa decadenza, poi, appare prospettata come meramente eventuale, sicché la censura risulta perplessa.
Peraltro, il mezzo appare ambiguo e non incentrato sulla ratio decidendi espressa dalla sentenza impugnata con riferimento alla fattispecie concreta sub iudice , laddove esso, pur sempre al fine ultimo della decadenza, modula l’assunto onere della prova con riferimento alla ‘propria pretesa’, riferendosi all’Agenzia delle entrate ed all’Agente della riscossione, mentre è pacifico che la ‘pretesa’ sostanziale azionata sia ‘propria’ dello Stato estero richiedente, di fronte alle cui autorità soltanto è legittimo contestarne la fondatezza (anche in ordine alla vantata prescrizione estintiva o decadenza).
Nel merito, il mezzo configura l’onere riguardo alla formazione del titolo esecutivo, di cui lamenta la mancata allegazione e notifica da parte del fisco italiano, così deducendo in violazione dei principi di cui alla già citata giurisprudenza di legittimità, che ritiene tali elementi come requisiti necessari solo della domanda dello Stato richiedente.
Peraltro, la stessa censura entra comunque in contrasto con quanto si è già argomentato a proposito del quarto motivo, secondo cui la cartella, in base al giudizio di fatto espresso dalla CTR, conteneva tutte le indicazioni sufficienti ed indispensabili per individuare il titolo esecutivo estero (per cui il ricorrente avrebbe potuto derivare da quest’ultimo ogni dato rilevante, in relazione alla disciplina dello Stato richiedente). Tanto più se, come deduce l’Amministrazione ( trascrivendo a pag. 25 del controricorso, parte del ricorso introduttivo del contribuente), e come risulta dalla sentenza impugnata, lo stesso contribuente, prima della cartella, aveva ricevuto anche la notifica di un avviso di pagamento dello stesso debito.
5.2. Tanto premesso, il motivo si rivela comunque infondato in diritto. Invero, l’art. 8 del d.lgs. n. 69 del 2003, così recita:
«Esclusione dell’assistenza
L’assistenza per le richieste di informazioni e di notifica e per il recupero dei crediti non ha luogo se il periodo intercorrente tra la formazione del titolo esecutivo nello Stato richiedente e la richiesta di recupero per il credito è superiore a cinque anni; qualora i crediti o i titoli esecutivi siano oggetto di contestazione, tale periodo decorre dalla data in cui lo Stato richiedente stabilisce che gli stessi non possano essere più oggetto di contestazione.
2.Il Ministero dell’economia e delle finanze informa l’autorità richiedente e la Commissione europea dei motivi che ostano all’accoglimento della domanda di assistenza.».
La disposizione trova sostanziale corrispondenza nell’art. 14, paragrafo 1, lett. b), della direttiva 2001/44/CE, che è stata attuata proprio dal d.lgs. n. 69 del 2003, che a sua volta dispone:
«L’autorità adita non è tenuta:
a) ;
ad accordare l’assistenza prevista dagli articoli da 4 a 13, se la domanda iniziale ai sensi degli articoli 4, 5 o 6 si riferisce ai crediti di più di cinque anni, a decorrere dalla data in cui viene costituito il titolo esecutivo che consente il recupero ai sensi delle disposizioni legislative, regolamentari e delle prassi amministrative vigenti nello Stato membro in cui ha sede l’autorità richiedente fino alla data della domanda. Tuttavia, qualora i crediti o i titoli siano oggetto di contestazione, il termine decorre dalla data in cui lo Stato richiedente stabilisce che il credito o il titolo esecutivo per il recupero non possano più essere oggetto di contestazione.»;
Sostanzialmente omologo, a sua volta, è in parte qua il testo dell’art. 14 della direttiva 2008/55/CE del 26 maggio 2008, cui è aggiunto, con periodo finale conclusivo, che:
« L’autorità adita informa l’autorità richiedente dei motivi che ostano all’accoglimento della domanda di assistenza. Il rifiuto motivato è inoltre comunicato alla Commissione.’.
Infine, l’art. 18, paragrafi 2, 3 e 4, della direttiva 2010/24/UE del 16 marzo 2010, recepita dal d.lgs. 14 agosto 2012, n. 149, così recita:
«Limitazioni agli obblighi dell’autorità adita
L’autorità adita non è tenuta ad accordare l’assistenza prevista all’articolo 5 e agli articoli da 7 a 16 se la domanda iniziale ai sensi degli articoli 5, 7, 8, 10 o 16 si riferisce a crediti che risalgono a più di cinque anni prima, a decorrere dalla data in cui il credito è divenuto esigibile nello Stato membro richiedente alla data della suddetta domanda iniziale.
Tuttavia, qualora il credito o il titolo iniziale che consente l’esecuzione nello Stato membro richiedente siano oggetto di contestazione, il periodo di cinque anni decorre dalla data in cui nello Stato membro richiedente si stabilisce che il credito o il titolo che consente l’esecuzione non possono più essere oggetto di
contestazione.
Inoltre, nei casi in cui una dilazione di pagamento o un piano di pagamento rateale è concesso dalle autorità competenti dello Stato membro richiedente, il
periodo di cinque anni decorre dalla data di scadenza dell’intero termine di pagamento.
Tuttavia, in tali casi l’autorità adita non è tenuta a concedere assistenza per i crediti che risalgono a più di dieci anni prima, a decorrere dalla data in cui il credito è divenuto esigibile nello Stato membro richiedente.
3.Uno Stato membro non è tenuto a concedere assistenza se l’importo totale dei crediti contemplati dalla presente direttiva per i quali è richiesta assistenza è inferiore a 1 500 EUR.
L’autorità adita informa l’autorità richiedente dei motivi che ostano all’accoglimento della domanda di assistenza.».
L’autorità adita informa l’autorità richiedente dei motivi che ostano all’accoglimento della domanda di assistenza. Il rifiuto motivato è inoltre comunicato alla Commissione.’
Ebbene, letto nella prospettiva della direttiva attuata (ed alla luce delle evoluzioni successive della fonte comunitaria, che invero sul punto non fa registrare soluzioni di continuità), l’invocato art. 8 del d.lgs. n. 69 del 2003 non pare affatto prestarsi a configurare una causa di decadenza, o prescrizione, dall’azione esecutiva che si risolva a possibile vantaggio del debitore fiscale; né (letto a contrario ) una condizione necessaria legittimante l’esecuzione in Italia del titolo esecutivo fiscale straniero (infatti, la non-decorrenza dei cinque anni non è prevista tra le condizioni legittimanti né dall’art. del 5 d.lgs. 69 del 2003, né dall’art. 7 della direttiva 2001/44/CE, né dall’art. 7 della direttiva 2008/55/CE, né infine dall’art. 11 della direttiva 2010/24/UE) Piuttosto, pare doversi ritenere che si tratti di una fattispecie che (senza attribuire ‘diritti’ all’esecutato) regoli i rapporti tra Stati, prevedendo uno dei casi nei quali, pur ricorrendo tutte le condizioni per l’esecuzione nello Stato richiesto, quest’ultimo ‘non è tenuto’ (quindi non ‘deve’, ma comunque ‘può’) a procedere all’esecuzione del titolo dello Stato richiedente, ovvero potrebbe legittimamente rifiutarsi. Non a caso, infatti, il rifiuto viene comunicato allo Stato richiedente ed alla Commissione. Si tratta, in sostanza, di mere ‘Limitazioni agli obblighi dell’autorità adita’ ( come plasticamente rivela anche il titolo del citato art. 18 della direttiva 2010/24/UE),
che regolano i rapporti tra gli Stati richiedente e richiesto, ma che non si traducono in una causa di decadenza dalla potestà esecutiva derivante dal titolo per il quale si richieda assistenza. Decadenza che, del resto, dovrebbe essere disciplinata dallo Stato che ha emesso il titolo esecutivo, le cui norme nazionali soltanto incidono sulla ‘prescrizione’ (cfr. art. 15 della direttiva 2001/44/CE e 19 della direttiva 2010/24/UE), e che, in base alle richiamate direttive, è competente a decidere le controversie concernenti il credito, il titolo iniziale che consente l’esecuzione nello Stato membro richiedente o il titolo uniforme che consente l’esecuzione nello Stato membro adito.
Nello stesso senso (sia pur con riferimento ad una diversa fonte normativa l’art. 12 del d.lgs. 14 agosto 2012, n. 149, con cui è stata recepita la direttiva 2010/24/UE-, ma dal contenuto, per quanto qui rileva, pienamente assimilabile a quella previgente, già richiamata) è stato infatti chiarito che ‘ In tema di recupero del credito tributario di altro stato dell’Unione europea, la disciplina sulla mutua assistenza prevista dal d.lgs. n. 149 del 2012 – attuativo della Direttiva 2010/24/UE – comporta che, una volta formatosi il titolo uniforme per l’esecuzione in un altro Stato membro, il decorso di un quinquennio dalla data di esigibilità del credito nello Stato richiedente non determina alcuna decadenza o prescrizione, verificandosi unicamente il venir meno dell’obbligo dello Stato italiano di prestare assistenza in favore del diverso Stato membro richiedente’ (Cass., Sez. U – , n. 34981 del 13/12/2023).
Nella motivazione tale precedente -premesso infatti che ‘sul punto l’odierna normativa non ha innovato i criteri già presenti nel vigore della Direttiva del Consiglio 2001/44/CE, e dell’art. 6 del d.lgs. n. 69 del 2003, al caso di specie trovano applicazione i medesimi principi’- riconosce la giurisdizione del giudice italiano (paese adito con la richiesta di riscossione).
Nel merito, conclude poi che «Ma, soprattutto, la ‘decadenza’ invocata, se non rispettato il termine quinquennale, è frutto di un equivoco. In realtà la norma nazionale si limita a prevedere che ‘L’assistenza per le richieste di informazioni, di notifica, per il recupero dei crediti non ha luogo se il periodo intercorrente è superiore a cinque anni’.
Il sintagma ‘non ha luogo’ non è affatto riconducibile al significante ‘decadenza’. Sarebbe stato intanto opportuno l’utilizzo di una terminologia esplicita, se l’intento era quello di attribuire effetti così radicali al decorso temporale, ed una perimetrazione più netta della fattispecie medesima, senza limitarsi a richiamare genericamente la ‘richiesta di assistenza’.
Soprattutto, è il contenuto della Direttiva, per la cui attuazione è stato emanato il d.lgs. n. 149 del 2012, ed i cui contenuti non possono essere ignorati nell’esegesi della disciplina nazionale, che depone per un diverso significato. L’art. 18, comma 2, della Direttiva, prevede infatti che «L’autorità adita non è tenuta ad accordare l’assistenza prevista all’articolo 5 e agli articoli da 7 a 16 se la domanda iniziale ai sensi degli articoli 5, 7, 8, 10 o 16 si riferisce a crediti che risalgono a più di cinque anni prima, a decorrere dalla data in cui il credito è divenuto esigibile nello Stato membro richiedente alla data della suddetta domanda iniziale». Dunque, secondo la terminologia utilizzata dalla normativa unionale, l’inutile decorso del quinquennio non comporta affatto la decadenza, ma, più semplicemente, il venir meno dell’ ‘obbligo’ di cooperazione al recupero del credito fiscale. Il che, dunque, importa che resta nella mera discrezione dello Stato membro adito procedere ugualmente nell’assistenza in favore dello Stato membro richiedente. Ove a ciò si determini, nessuna decadenza potrà essere eccepita.
Si tratta, in ultima analisi, non già di un termine procedimentale, previsto a pena di invalidità del processo di recupero coattivo del credito in uno Stato diverso da quello titolare del credito fiscale, ma, nella formazione di un accordo tra gli Stati membri europei, teso a facilitare le procedure di recupero extraterritoriale di crediti per dazi o imposte – mediante il titolo uniforme europeo (cd. UIPE) -, un limite oltre il quale gli Stati euro-comunitari possono ritenersi svincolati dall’obbligo di esecuzione, nel proprio territorio, di titoli formati in un altro Stato oltre cinque anni prima.».
Pertanto, anche con riferimento all’art. 8 del d.lgs. n. 69 del 2003, attuativo dell’art. 14, paragrafo 1, lett. b), della direttiva 2001/44/CE, deve ritenersi che
‘In tema di recupero del credito tributario di altro stato dell’Unione europea, la disciplina sulla mutua assistenza prevista ratione temporis dall’art. 8 del d.lgs. n. 69 del 2003 – attuativo della direttiva 2001/44/CE – non comporta che il decorso di più di un quinquennio tra la data di formazione del titolo esecutivo nello Stato richiedente e quella della richiesta di recupero per il credito determini alcuna decadenza o prescrizione dello stesso credito e della sua riscossione, provocando unicamente il venir meno dell’obbligo dello Stato italiano di prestare assistenza in favore del diverso Stato membro richiedente e, pertanto, legittimando esclusivamente, nel rapporto tra gli Stati, l’eventuale rifiuto dell’assistenza richiesta.».
6. Pertanto, il ricorso va rigettato.
Le spese di legittimità seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art. 380bis , comma 3, cod. proc. civ., la parte ricorrente e soccombente va condannata a pagare:
la somma di euro 2.000,00 equitativamente determinata, a favore della controparte, ex art. 96, terzo comma, cod. proc. civ.
la somma di euro 1.500,00 a favore della cassa delle ammende, ex art. 96, quarto comma, cod. proc. civ.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento:
a favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito; nonché di euro 2.000,00 ex art. 96, terzo comma, cod. proc. civ.;
di euro 1.500,00 a favore della cassa delle ammende ex art. 96, quarto comma, cod. proc. civ.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 7 maggio 2025.