Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 16204 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 16204 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/06/2025
Oggetto: IRPEF 2009 – Socio di società di capitali a ristretta base Distribuzione utili extracontabili -Cessione delle quote societarie – Atto trascritto nel registro delle imprese successivamente all’avviso di accertamento – Opponibilità al fisco.
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 13882/2021 R.G. proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale rilasciata su foglio separato ed allegato al ricorso, dall’Avv. NOME COGNOME e dall’Avv. NOME COGNOME elettivamente domiciliato presso lo studio dei difensori (RAGIONE_SOCIALE), in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , con sede in Roma, INDIRIZZO C/D, domiciliata in Roma alla INDIRIZZO presso l’Avvocatura generale dello Stato dalla quale è rappresentata e difesa ope legis ;
-controricorrente – avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, n. 3690/04/2020, depositata in data 24 novembre 2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21 marzo 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Rilevato che:
A seguito di una verifica eseguita dalla Guardia di Finanza nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE a ristretta base partecipativa, culminata nel PVC del 4 agosto 2010, veniva acclarata l’esistenza di ricavi non dichiarati per oltre 9 milioni di euro, nel periodo dal 2004 al 2009.
Sulla scorta di un altro PVC, redatto il 28 marzo 2013, veniva emesso l’avviso di accertamento n. T K501F206230/2013, con il quale veniva imputato al ricorrente, nella sua veste di socio della detta società al 50%, e, quindi, recuperato a tassazione, ai fini IRPEF per l’anno 200 9, il maggior reddito (pari ad € 207.826,00) derivante dagli utili extra bilancio contestati alla società.
Il socio proponeva ricorso innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma (d’ora in poi, per brevità, CTP) , deducendo, per quanto qui ancora rilevi, di aver ceduto nel lontano 2002 la propria partecipazione azionaria, con atto notarile, non depositato presso il Registro delle Imprese, e, pertanto, di non aver percepito alcun utile.
La CTP accoglieva il ricorso annullando l’avviso di accertamento in quanto il contribuente aveva ceduto le sue quote con atto del 13/03/2002; la CTP rilevava, ad abundantiam , la nullità dell’avviso per vizio di motivazione (ovvero per l’omessa allegazione del PVC).
L’Ufficio interponeva gravame alla Commissione tributaria regionale delle Marche (d’ora in poi , per brevità, CTR) chiedendone l’integrale riforma.
La CTR riformava la sentenza di primo grado, ritenendo non opponibile al fisco l’atto di cessione delle quote del 2002, che era stato iscritto presso il Registro delle Imprese solo il 31 ottobre 2014, ma il 23 ottobre 2015 il giudice delle Imprese aveva cancellato la detta iscrizione ex art. 2191 cod. civ..
Per la cassazione della citata sentenza il contribuente ha proposto ricorso affidato a tre motivi. L ‘Ufficio resiste con controricorso.
Il ricorso è stato, quindi, fissato per l’adunanza camerale del 21/03/2025.
Considerato che:
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la «illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ. (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.)», per non avere la CTR rilevato il giudicato formatosi per effetto della mancata impugnazione, da parte dell’Ufficio, della ratio decidendi (seconda ed autonoma) concernente la nullità dell’avviso di accertamento per vizio di motivazione. Precisamente:
-il contribuente impugnava l’avviso sia in relazione al proprio difetto di legittimazione passiva avendo ceduto le proprie quote sia in relazione al vizio motivazionale dell’atto (per non esservi allegato il PVC);
-la CTP accoglieva il ricorso sia perché lo COGNOME aveva ceduto nel 2002 le proprie quote di partecipazione nella RAGIONE_SOCIALE sia perché la motivazione dell’avviso per relationem al PVC non allegato ledeva il diritto di difesa del contribuente;
-l’Ufficio impugnava innanzi alla CTR solo la prima ratio decidendi ;
-la CTR, in luogo di dichiarare inammissibile il gravame, lo accoglieva.
Il motivo è fondato.
1.1. Dalla lettura della sentenza della CTP (allegata al ricorso per cassazione e riportata in esso per stralci) emerge pianamente che il ricorso del contribuente fu accolto sia perché lo COGNOME aveva ceduto nel 2002 le proprie quote societarie sia perché l’avviso di accertamento era affetto da un vizio motivazionale (‘ peraltro la sola motivazione per relationem contenuta nell’atto impositivo, senza l’allegazione del documento richiamato, lede il diritto di difesa, non consentendo al contribuente di conoscere in maniera compiuta i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche poste dall’ufficio a fondamento della presta erariale ‘) .
Ora, deve ritenersi che questa seconda affermazione, lungi dal configurare una asserzione resa ad abundantiam (come sostenuto dalla controricorrente) integri in realtà una autonoma ratio decidendi e, come tale, andava impugnata dall’Ufficio con l’atto di appello.
1.2. Infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, «la sentenza del giudice di merito, la quale, dopo aver aderito ad una prima ragione di decisione, esamini ed accolga anche una seconda ragione, al fine di sostenere la decisione anche nel caso in cui la prima possa risultare erronea, non incorre nel vizio di contraddittorietà della motivazione, il quale sussiste nel diverso caso di contrasto di argomenti confluenti nella stessa “ratio decidendi”, né contiene, quanto alla “causa petendi” alternativa o subordinata, un mero “obiter dictum”, insuscettibile di trasformarsi nel giudicato. Detta sentenza, invece, configura una pronuncia basata su due distinte “rationes decidendi”, ciascuna di per sé sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, con il conseguente onere del ricorrente di impugnarle entrambe, a pena di inammissibilità del ricorso» (Cass. 18/04/2019, n. 10815).
La distinzione tra autonoma ratio decidendi ed affermazione ad abundantiam è stata tracciata da questa Corte nei seguenti termini: mentre la prima costituisce la ragione che sorregge il decisum adottato, l ‘affermazione ad abundantiam è superflua ed accessoria alla prima, nel senso di essere esposta ‘a mero rafforzamento’ della ratio decidendi , non inficiandola; essa non spiega alcuna influenza sul dispositivo della sentenza e, pertanto, essendo improduttiva di effetti giuridici, la sua impugnazione è priva di interesse (Cass. 08/06/2022, n. 18429).
Non può escludersi che la sentenza sia sorretta da plurime rationes decidendi , quando, ad esempio nel processo tributario, due o più doglianze del contribuente siano accolte (incompetenza dell’Ufficio che ha emesso l’avviso, vizi di motivazione dello stesso, decadenza dell’Ufficio dal potere impositivo) e, per tale motivo, l’atto impugnato venga annullato; in tal caso, ciascuna delle rationes è
autonoma, idonea a sorreggere la decisione ed indipendente dalle altre.
1.3. Nella specie, quindi, la statuizione circa la nullità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione deve ritenersi autonoma ratio decidendi , sia perché resa in accoglimento di autonomo motivo di ricorso originario del contribuente, sia perché non rafforza affatto la prima ratio , relativa al difetto di qualità di socio in capo al contribuente, attenendo a tutt’altro piano di indagine.
Pertanto, l’Ufficio avrebbe dovuto proporre appello censurando entrambe le rationes decidendi : questa Corte costantemente afferma che «nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accogli mento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, ‘in toto’ o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggono. Ne con segue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perché il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato» (Cass. Sez. U. 08/08/2005, n. 16602; conf. Cass. 18/04/2019, n. 10815 e Cass. 06/07/2020, n. 13880).
I medesimi principi valgono per l’ipotesi in cui sia la sentenza di primo grado ad essere sorretta da plurime rationes decidendi . Anche in tal caso l’appello deve censurare, a pena di inammissibilità, tutte le ragioni poste a fondamento della decisione.
1.4. La CTR non ha fatto corretta applicazione dei principi sopra enucleati non avendo rilevato, d’ufficio, l’inammissibilità del gravame per carenza di interesse, per la mancata impugnazione di tutte le rationes decidendi (Cass. 11/02/2011, n. 3386).
L’accoglimento del primo motivo di ricorso comporta l’assorbimento degli altri due , con i quali venivano rispettivamente denunciati la «illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1376, 2193, 2470 e del 2700 del codice civile» e la «illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 5 e 44 del t.u.i.r.».
La sentenza impugnata va, quindi, cassata, senza rinvio ai sensi dell’art. 382, comma 3 , cod. proc. civ., atteso che l’appello proposto dall’Ufficio era inammissibile.
Nulla va disposto in relazione alle spese del grado di appello, essendo il contribuente rimasto contumace.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, cassa senza rinvio la sentenza impugnata.
Condanna la controricorrente al pagamento, in favore di NOME COGNOME delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre esborsi liquidati in Euro 200,00, oltre rimb. spese forf. nella misura del 15% dei compensi, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21 marzo 2025.