Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 534 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 534 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/01/2024
ORDINANZA
ha pronunciato la seguente sul ricorso n. 21557/2016 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE nella persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa, anche disgiuntamente, come da procura a margine del ricorso per cassazione, dagli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA, n. 3461/36/16, depositata in data 10 giugno 2016, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio de ll’8 novembre 2023 dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE
La Commissione tributaria provinciale di Milano, con sentenza n. 3908/44/2015, aveva rigettato il ricorso proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE avverso l’atto di contestazione e determinazione delle sanzioni n. CODICE_FISCALE, relativo all’anno di imposta 2007, con il quale l’Ufficio aveva accertato l’omessa regolarizzazione di fatture infedeli per errata indicazione del soggetto cedente e, ai sensi dell’art. 6, comma 8, del d.P.R. n. 471 del 1992, aveva determinato la sanzione nella misura del 100% dell’imposta.
La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello proposto dalla società contribuente, per quel che rileva in questa sede, sulla base delle seguenti considerazioni:
-) nel corso della verifica nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE era emerso che la carica di amministratore della medesima era ricoperta da COGNOME NOMECOGNOME il quale aveva dichiarato di essere estraneo all’attività aziendale e di essersi limitato a sottoscrivere documenti societari; che detta società non disponeva di dipendenti, di documentazione relativa a fornitori, ad acquisti e vendite di materiale ferroso, né di sede, strutture e attrezzature idonee allo svolgimento dell’attività commerciale, peraltro durata soltanto quattro mesi (gennaio-aprile 2007) nel corso dei quali aveva effettuato versamenti di ingenti somme seguiti poco dopo da prelevamenti di consistenza pressoché analoga, non aveva mai versato imposte, ed aveva effettuato acquisti documentati per euro 82.882,00 palesemente non
congrui rispetto alla emissione di 85 fatture per euro 6.921.611,87 nei confronti di 12 società;
-) siffatti elementi erano sufficienti a formare la presunzione di interposizione fittizia svolta dalla società RAGIONE_SOCIALE unipersonale, anche con riguardo ai rapporti intrattenuti per l’ammontare di euro 1.537.128,37 con la società RAGIONE_SOCIALE, con conseguente legittimità dell’atto di contestazione con il quale l’Ufficio, in relazione all’anno 2007, aveva applicato nei confronti della RAGIONE_SOCIALE la sanzione di cui all’art. 6, comma 8, del decreto legislativo n. 471 del 1997 per omessa regolarizzazione delle fatture passive – in regime di inversione contabile – nelle quali erano esposti i dati identificativi di un cedente diverso da quello effettivo, cui era concretamente riconducibile la cessione di beni fatturata;
-) gli elementi sopra evidenziati costituivano, per la loro pregnanza dimostrativa, idoneo fattore sintomatico anche dell’assenza di buona fede della società contribuente cessionaria, in quanto l’immediatezza dei rapporti tra cedente fatturante e cessionario induceva ragionevolmente ad escludere in via presuntiva, a fronte di una conclamata inidoneità del fatturante allo svolgimento dell’attività economica, l’ignoranza incolpevole del cessionario circa l’effettiva qualità di società interposta rivestita dal fatturante, qualità che non poteva sfuggire a qualsiasi operatore del settore mediamente esperto in possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività svolta;
-) nella specie, il legale rappresentante della contribuente non aveva dimostrato di avere adempiuto tutti gli obblighi di diligenza richiesti all’operatore del settore, ex 1176, comma 2, cod. civ. e di essere stato nella oggettiva impossibilità di avere consapevolezza del fatto che il fornitore effettivo del bene era un altro soggetto ed, in ogni caso, si riteneva che il pagamento del corrispettivo ed eventuali documenti relativi alla rivendita delle merci non costituivano
condizioni sufficienti al fine di escludere la ricorrenza di operazioni soggettivamente inesistenti;
-) era applicabile, inoltre, il raddoppio dei termini di notifica dell’atto impugnato, trattandosi nel caso specifico di violazioni che comportavano l’obbligo di denuncia penale in quanto l’atto di contestazione riguardava l’accertamento della mancata regolarizzazione per l’anno 2007 di fatture ritenute fittizie emesse per operazioni soggettivamente inesistenti sulla base della segnalazione della Guardia di Finanza che individuava la contribuente quale utilizzatrice delle suddette fatture, già destinataria per il medesimo periodo d’imposta (2007) di accertamento concernente fatturazioni per operazioni soggettivamente inesistenti;
-) era corretta anche, in ragione della violazione contestata a pag. 5 dell’atto di contestazione, l’applicazione della sanzione dell’art. 6, comma 8, del decreto legislativo n. 471 del 1996.
La società RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a tre motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
La società RAGIONE_SOCIALE ha depositato memoria.
CONSIDERATO CHE
1. Il primo mezzo deduce , in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 20, commi 1 e 2, del decreto legislativo n. 472/97. La sentenza impugnata era errata perché, nel caso di specie, non poteva trovare applicazione il raddoppio dei termini di accertamento in presenza di fattispecie per le quali sussisteva l’obbligo della denuncia penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo n. 74/2000, non essendoci stata la notifica di un atto impositivo (né poteva esserci, trattandosi di violazione non collegata al tributo), ma l’emissione di un provvedimento sanzionatorio da parte dell’Amministrazione
finanziaria, rispetto al quale doveva trovare applicazione la norma dell’art. 20, commi 1 e 2, del decreto legislativo n. 472/97, che sul termine quinquennale di decadenza del potere sanzionatorio dell’Ufficio fiscale non prevedeva nessun raddoppio del termine in presenza di denuncia penale ex art. 331 cod. proc. pen. per uno dei reati di cui al decreto legislativo n. 74/2000. L’art. 37, commi 24 e 25, del decreto legge n. 223/2006, che aveva stabilito questo raddoppio dei termini di accertamento, aveva modificato solamente l’art. 43 del d.P.R. n. 600/73 e l’art. 57 del d.P.R. n. 633/72, ma non aveva introdotto alcuna modifica dell’art. 20 del decreto legislativo n. 472/97 per cui il termine di decadenza del potere sanzionatorio dell’Amministrazione Finanziaria rimaneva sempre stabilito nel 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la violazione era stata commessa. Il riferimento contenuto nell’art. 20 del decreto legislativo n. 472/97 al «diverso termine previsto per l’accertamento dei tributi» non poteva trovare applicazione nel caso di specie dove non si era proceduto ad alcuna rettifica o recupero di imposta, dal momento che non si era verificato alcun mancato pagamento di imposta, in quanto la violazione contestata concerneva esclusivamente l’omessa regolarizzazione di operazioni imponibili soggette al regime del reverse charge e non comportava alcun recupero di imposta e, conseguentemente, alcun atto di accertamento di maggiore tributo.
1.2 Il motivo è infondato.
1.3 Deve premettersi che l’art. 37, comma 24, del decreto legge n. 223 del 2006, convertito con modificazioni, nella legge n. 248 del 2006, integrando il terzo comma dell’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, aveva previsto, per le ipotesi in cui la violazione fiscale comportasse l’obbligo di denuncia, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen., per uno dei reati previsti dal decreto legislativo n. 74 del 2000, che gli ordinari termini di decadenza per l’accertamento raddoppiassero relativamente al
periodo di imposta, in cui fosse stata commessa la violazione; l’art. 37, comma 25, del decreto legge n. 223 del 2006, poi, aveva introdotto analoga disposizione in materia di Iva, con modifica dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972.
1.4 Sono queste le disposizioni applicabili al caso di specie, che riguarda il periodo di imposta anno 2007, e ciò anche a prescindere dal l’art. 37, comma 26, del d ecreto legge citato, che ha disposto che il raddoppio dei termini si applica dal periodo d’imposta per il quale, alla data di entrata in vigore del decreto legge, siano ancora pendenti i termini ordinari per l’accertamento.
1.5 Ciò premesso ed individuata la disciplina applicabile al caso di specie, secondo la giurisprudenza di questa Corte il raddoppio dei termini, deriva dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen., indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l’azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione di proscioglimento, di assoluzione o di condanna (cfr. Cass., 2 luglio 2020, n. 13481; Cass., 13 settembre 2018, n. 22337); il raddoppio dei termini, dunque, attiene solo alla commisurazione del termine di accertamento ed i termini raddoppiati sono anch’essi fissati direttamente dalla legge, come tali operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva, senza che all’Ufficio sia riservato alcun margine di discrezionalità per la loro applicazione e non vi è neppure obbligo di esternare le ragioni in base alle quali l’Agenzia ritenga operante il raddoppio del termine, esulando l’applicazione da scelte discrezionali Cass., 3 agosto 2023, n. 23662).
1.6 Ciò chiarito, e per quanto si evince dalla disciplina richiamata, il raddoppio dei termini afferisce tanto alle imposte quanto alle sanzioni,
avuto riguardo anche alla data di notifica dell’atto di contestazione impugnato in questa sede (1 agosto 2013).
1.7 Come questa Corte ha già affermato « E’ p roprio l’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 128 del 2015, a richiamare espressamente la materia delle sanzioni, tra quelle per le quali si fa addirittura salva la pregressa disciplina, così come introdotta dal decreto legge n. 223 del 2006. Infatti il suddetto comma dispone che «Sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore del presente decreto. Sono, altresì, fatti salvi gli effetti degli inviti a comparire di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218 notificati alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché dei processi verbali di constatazione redatti ai sensi dell’articolo 24 della legge 7 gennaio 1929, n. 4 dei quali il contribuente abbia avuto formale conoscenza entro la stessa data, sempre che i relativi atti recanti la pretesa impositiva o sanzionatoria siano notificati entro il 31 dicembre 2015» (Cass., 3 agosto 2023, n. 23662, citata, in motivazione).
1.8 Peraltro, come si desume dall’art. 20 del d ecreto legislativo n. 472 del 1997, «l’atto di contestazione di cui all’art. 16, ovvero l’atto di irrogazione, devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la violazione, o nel diverso termine previsto per l’accerta mento dei singoli tributi»; da ciò l’affermazione di questa Corte secondo cui « i termini per l’accertamento e quelli per la irrogazione delle sanzioni corrono parallelamente e ove, dunque, le sanzioni siano state irrogate in riferimento a recuperi d’imposta, per i quale operi il raddoppio dei termini, va raddoppiato anche il termine per la contestazione ed irrogazione delle relative sanzioni » (Cass., 3 agosto 2023, n. 23662, citata), con il conseguente corollario che nel caso in cui le sanzioni
siano state irrogate in riferimento a recuperi d’imposta, per i quale opera il raddoppio dei termini, va raddoppiato anche il termine per la contestazione ed irrogazione delle relative sanzioni.
1.9 Già questa Corte aveva affermato che « i termini previsti dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 per l’IRPEF e dall’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’IVA, come modificati dall’art. 37 del d.l. n. 223 del 2006, conv., con modif., in l. n. 248 del 2006, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se archiviata o tardiva, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento già notificati, relativi a periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, incidano le modifiche introdotte dall’art. 1, commi da 130 a 132, della l. n. 208 del 2015, attesa la disposizione transitoria, ivi introdotta, che richiama l’applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 128 del 2015, nella parte in cui fa salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni e degli inviti a comparire ex art. 5 d. lgs. n. 218 del 1997 già notificati, dimostrando un favor del legislatore per il raddoppio dei termini, se non incidente su diritti fondamentali del contribuente, quale il diritto di difesa, in ossequio ai principi costituzionali di cui agli artt. 53 e 112 Cost. » (Cass., 19 dicembre 2019, n. 33793; Cass., 14 maggio 2018, n. 11620; Cass., 16 dicembre 2016, n. 26037).
1.10 Inoltre, come già precisato da questa Corte, le violazioni degli adempimenti previsti in materia di inversione contabile (non correlate all’emissione di fatture soggettivamente inesistenti) non hanno natura meramente formale (Cass., 20 gennaio 2022, n. 1690 e, più di recente, Cass., 22 settembre 2023, n. 27176).
1.11 E’ stato, infatti, evidenziato che le violazioni sono sostanziali se incidono sulla base imponibile o sull’imposta o sul versamento, sono formali se pregiudicano l’esercizio delle azioni di controllo, pur non incidendo sulla base imponibile, sull’imposta o sul versamento, e sono
meramente formali se non influiscono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento della distinzione (Cass., 22 settembre 2023, n. 27176) e che la distinzione tra violazioni formali e violazioni meramente formali va calibrata sulla relazione tra il bene giuridico tutelato e la fattispecie giuridica alla quale va ricondotta la specifica trasgressione, dunque con valutazione ex ante ; laddove quella tra violazioni formali e violazioni sostanziali risente dell’accertamento in concreto della produzione di un danno erariale, scaturente dal fatto che la condotta abbia inciso sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta o del versamento del tributo (Cass., 10 giugno 2021, n. 16450),
1.12 La sentenza impugnata è conforme ai principi suesposti. Ed invero i giudici di secondo grado hanno evidenziato, a pag. 4 della sentenza impugnata, che « Deve affermarsi applicabilità del raddoppio dei termini di notifica dell’atto impugnato, trattandosi nel caso specifico di violazioni che comportano l’obbligo di denuncia penale in quanto l’atto di contestazione riguarda l’accertamento della mancata regolarizzazione per l’anno 2007 di fatture ritenute fittizie emesse per operazioni soggettivamente inesistenti sulla base della segnalazione della GdF che individuava la contribuente quale utilizzatrice delle suddette fatture (v. notizia di reato, doc. Ufficio), già destinataria per il medesimo periodo d’imposta (2007) di accertamento concernente fatturazioni per operazioni soggettivamente inesistenti». Dunque, correttamente, la sentenza impugnata ha ritenuto che, nel caso in esame, con riferimento all’atto di irrogazione della sanzione (determinata nella misura del 100% dell’imposta , cfr. pag. 1 della sentenza impugnata) doveva affermarsi l’applicabilità d el raddoppio dei termini di notifica dell’atto impugnato, in quanto l’atto di contestazione riguardava l’accertamento della mancata regolarizzazione per l’anno 2007 di fatture ritenute fittizie perché emesse in relazione ad operazioni soggettivamente inesistenti sulla
base della segnalazione della Guardia di Finanza che individuava la società contribuente quale utilizzatrice delle suddette fatture, già destinataria per il medesimo periodo di imposta (2007) di accertamento concernente fatturazioni per operazioni soggettivamente inesistenti; si trattava, dunque, di violazioni conseguenti all’emissione di fatture ritenute fittizie in relazione ad operazioni soggettivamente inesistenti che comportavano l’obbligo di denuncia penale .
2. Il secondo mezzo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 del decreto legislativo n. 472/97 e dell’art. 6, comma 8 e 9 bis del decreto legislativo n. 471/97. La sentenza impugnata era errata perché non teneva conto della disciplina vigente al momento della commissione della violazione e della corretta applicazione del principio di legalità di cui all’art. 3 del decreto legisl ativo n. 472/97. Il comma 9 bis dell’art. 6 del decreto legislativo n. 471/97 era stato introdotto dall’art. 1, comma 155 della legge 24 dicembre 2007 n. 244 ed era entrato in vigore dal 1° gennaio 2008 e l’applicazione di questa norma sanzionatoria a fattispecie (emissione di fatture ritenute irregolari) verificatisi nel corso 2007 doveva, pertanto, essere ritenuta una palese violazione del principio di legalità quale principio fondamentale anche del sistema sanzionatorio amministrativo tributario, con la conseguente illegittimità della sanzione irrogata. Inoltre, l’art. 6, comma 9 bis , ultimo periodo, del decreto legislativo n. 471/97, non poteva essere applicato alla fattispecie in esame, dove la fattura era stata certamente emessa anche se, secondo l’Ufficio, in maniera non regolare nell’indicazione del soggetto cedente.
2.1 In disparte il difetto di autosufficienza della censura nella parte in cui non trascrive il contenuto dell’atto di irrogazione delle sanzioni oggetto di impugnazione, il motivo è inammissibile, perché non si confronta con il contenuto del provvedimento impugnato, che ha ritenuto corretta, in ragione della violazione contestata di cui alla
pagina 5 dell’atto di contestazione, l’applicazione della sanzione di cui all’art. 6, comma 8, del decreto legislativo n. 471 del 199 7 (« il cessionario o il committente che, nell’esercizio di imprese, arti o professioni, abbia acquistato beni o servizi senza che sia stata emessa fattura nei termini di legge o con emissione di fattura irregolare da parte dell’altro contraente, è punito, salva la responsabilità del cedente o del commissionario, con sanzione amministrativa pari al cento per cento dell’imposta, con un minimo di euro 250, sempreché non provveda a regolarizzare l’operazione on le seguenti modalità: a) se non ha ricevuto la fattura, entro quattro mesi dalla data di effettuazione dell’operazione, presentando all’ufficio competente nei suoi confronti, previo pagamento dell’imposta, entro il trentesimo giorno successivo, un documento in duplice esemplare dal quale risultino le indicazioni prescritte dall’articolo 21 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, relativo alla fatturazione delle operazioni; b) se ha ricevuto una fattura irregolare, presentando all’ufficio indicato nella lettera a), entro il trentesimo giorno successivo a quello della sua registrazione, un documento integrativo in duplice esemplare recante le indicazioni medesime, previo versamento della maggior imposta eventualmente dovuta» ), che è fattispecie diversa da quella prevista all’art. 6, comma 9 bis del decreto legislativo n. 471 del 1997 (« E’ punito con la sanzione amministrativa compresa fra 500 euro e 20.000 euro il cessionario o il committente che, nell’esercizio di imprese, arti o professioni, omette di porre in essere gli adempimenti connessi all’inversione contabile di cui agli articoli 17, 34, comma 6, secondo periodo, e 74, settimo e ottavo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e agli articoli 46, comma 1, e 47, comma 1, del decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427. Se l’operazione non risulta dalla contabilità tenuta ai sensi degli articoli 13 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, la sanzione amministrativa è elevata a una misura compresa tra il cinque e il dieci per cento dell’imponibile, con un minimo di 1.000 euro. Resta ferma l’applicazione delle sanzioni previste dall’articolo 5, comma 4, e dal comma 6 con riferimento all’imposta che non avrebbe potuto essere detratta dal cessionario o dal committente. Le disposizioni di cui ai periodi precedenti si applicano anche nel caso in cui, non avendo adempiuto il cedente o prestatore agli obblighi di fatturazione entro quattro mesi dalla data di effettuazione dell’operazione o avendo emesso una fattura irregolare, il cessionario o committente non informi l’Ufficio competente nei suoi confronti entro il trentesimo giorno successivo,
provvedendo entro lo stesso periodo all’emissione di fattura ai sensi dell’articolo 21 del predetto decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, o alla sua regolarizzazione, e all’assolvimento dell’imposta mediante inversione contabile»).
2.2 Mette conto rilevare, comunque, che le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che «In tema di Iva, il regime sanzionatorio più favorevole, sancito dalla parte finale dell’art. 6, comma 9-bis.3, del d.lgs. n. 471 del 1997, per le operazioni inesistenti soggette al regime contabile del “reverse charge”, introdotto dall’art. 15, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 158 del 2015, attiene esclusivamente alle operazioni che siano anche astrattamente esenti, non imponibili o comunque non soggette a imposta, e a quelle che, pur imponibili, siano state realizzate in buona fede, ma non anche alle operazioni imponibili oggettivamente e soggettivamente inesistenti, qualora ne sia stato provato l’elemento psicologico, atteso che per esse non è consentita la neutralizzazione dell’Iva a credito e di quella a debito prevista dalla richiamata prima parte della medesima disposizione, in quanto prive dei requisiti sostanziali necessari per la relativa detraibilità, in coerenza con quanto chiarito da CGUE, sentenza 11 novembre 2021, C-281/20, in causa RAGIONE_SOCIALEo RAGIONE_SOCIALE (Cass., Sez. U., 20 luglio 2022, n. 22727)
3. Il terzo mezzo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 6, commi 8 e 9 bis del decreto legislativo n. 471/97, degli artt. 16 e 17 del decreto legislativo n. 472/97 e degli artt. 2697 e 2729 cod. civ.. Il giudice di appello aveva errato nel ritenere fondato il provvedimento sanzionatorio impugnato sulla base del principio secondo cui se l’amministrazione finanziaria contestava al contribuente l’omessa regolarizzazione di acquisti documentati da fatture ritenute relative ad operazioni soggettivamente inesistenti la prova dell’esistenza soggettiva dell’operazione doveva essere fornita dal contribuente, in quanto la prova che l’operazione rappresentata dalla fattura non era
stata posta in essere (nei termini soggettivi documentati) incombeva sull’Amministrazione finanziaria che aveva addotto la falsità del documento. L’Ufficio non aveva fornito alcun elemento di prova dell’esistenza di un rapporto commerciale diretto fra la RAGIONE_SOCIALE e l’originario fornitore, nemmeno indicato, in cui si sarebbe fittiziamente interposta la RAGIONE_SOCIALE
3.1 Il motivo è infondato.
3.2 Deve richiamarsi, al riguardo, l’orientamento di questo Corte secondo cui « qualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attiene ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, incombe sulla stessa l’onere di provare la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto » (cfr. Cass., 31 gennaio 2022, n. 2922; Cass., 20 luglio 2020, n. 15369; Cass., 28 febbraio 2019, n. 5873; Cass., 30 ottobre 2018, n. 27566).
3.3 Più in particolare, l’Amministrazione finanziaria, ove contesti al cessionario/committente l’assenza di buona fede in caso di irregolarità fiscali o di evasione, ha l’onere di allegare e provare gli elementi probatori su cui si fonda la contestazione, tra i quali possono rilevare, in via indiziaria, quali elementi sintomatici della mancata esecuzione della prestazione dal fatturante, l’assenza della minima dotazione
personale e strumentale, l’immediatezza dei rapporti (cedente/prestatore fatturante interposto e cessionario/committente), una conclamata inidoneità allo svolgimento dell’attività economica e la non corrispondenza tra i cedenti e la società coinvolta nell’operazione. In tal caso, conseguentemente, grava in capo al contribuente l’onere di provare di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione non fosse il fatturante ma altri (Cass., 12 ottobre 2021, n. 27745, richiamata anche dalla società ricorrente nella memoria; Cass., 28 giugno 2018, n. 17173; Cass., 15 dicembre 2017, n. 30148).
3.4 Ciò posto, il giudice tributario di merito, investito della controversia avente ad oggetto l’atto impositivo, deve previamente valutare, con giudizio di fatto censurabile in cassazione solo per vizi attinenti alla congruità ed alla coerenza logica della motivazione, la sussistenza dei caratteri di gravità, precisione e concordanza degli indizi motivanti l’atto medesimo, esaminandoli sia singolarmente sia nel loro complesso, ed esponendo adeguatamente l’esito di tale giudizio nella motivazione della sentenza. Quando egli ritiene, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità (non necessariamente di certezza), che detti indizi sono sufficienti a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, con riguardo, nel caso delle frodi carosello, all’esistenza dell’organizzazione fraudolenta, alla partecipazione ad essa del contribuente o, quanto meno, alla consapevolezza da parte sua di avvantaggiarsi della frode con danno dell’erario, la domanda dell’amministrazione deve ritenersi provata; con la conseguenza che si sposta a carico del contribuente, secondo la regola generale ricavabile dall’ art. 2727 cod. civ. e ss., e dall’art. 2697, comma secondo, cod. civ., l’onere di provare eventuali fatti a suo favore; la mancata deduzione di idonea prova contraria, fin dall’atto introduttivo del giudizio, o l’insuccesso di essa, comportano l’accoglimento della pretesa del fisco fondata su valide presunzioni. In tale contesto, le
dichiarazioni rilasciate da terzi, le risultanze delle indagini condotte nei confronti di altre società, gli atti trasmessi dalla guardia di finanza, risultanti dall’attività di polizia giudiziaria, senza esclusione di altri atti, se contenuti negli atti (come il processo verbale di constatazione) allegati all’avviso di rettifica notificato o trascritti essenzialmente nella motivazione dello stesso, costituiscono parte integrante del materiale indiziario e probatorio, che il giudice tributario di merito è tenuto a valutare dandone adeguato conto nella motivazione della sentenza.
3.5 Peraltro, va precisato che l’art. 7, comma 5 bis , del decreto legislativo n. 546 del 1992, introdotto con l’articolo 6 della legge n. 130 del 2022, ha ribadito, in maniera circostanziata, l’onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio, con la conseguenza che, come già detto da questa Corte, la nuova formulazione legislativa, nel prevedere che « L’Amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni » non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale (cfr. Cass., 27 ottobre 2022, n. 31878).
3.6 La Commissione tributaria regionale ha fatto corretta applicazione dei principi suesposti e, con un accertamento in fatto, non sindacabile in questa sede, ha affermato che gli elementi emersi nel corso del giudizio (e specificamente le dichiarazioni rese dall’amministratore
della società RAGIONE_SOCIALE COGNOME NOME, l’assenza di dipendenti e di documentazione relativa a fornitori, ad acquisti e vendite di materiale ferroso, la mancanza di sede, strutture e attrezzature idonee allo svolgimento dell’attività commerciale, peraltro durata soltanto quattro mesi, da gennaio ad aprile 2007, nel corso dei quali erano stati effettuati versamenti di ingenti somme seguiti poco dopo da prelevamenti di consistenza pressoché analoga; il mancato versamento di imposte; acquisti documentati per euro 82.882,00 rispetto alla emissione di 85 fatture per euro 6.921.611,87 nei confronti di 12 società) erano sufficienti a formare la presunzione di interposizione fittizia svolta dalla società RAGIONE_SOCIALE, anche con riguardo ai rapporti intrattenuti per l’ammontare di euro 1.537.128,37 con la società RAGIONE_SOCIALE e che tali elementi costituivano, per la loro pregnanza dimostrativa, idoneo fattore sintomatico anche dell’assenza di buona fede della contribuente cessionaria, in quanto l’immediatezza dei rapporti tra cedente fatturante e cessionario induceva ragionevolmente ad escludere in via presuntiva, a fronte di una conclamata inidoneità del fatturante allo svolgimento dell’attività economica, l’ignoranza incolpevole del cessionario circa l’effettiva qualità di società interposta rivestita dal fatturante, qualità che non poteva sfuggire a qualsiasi operatore del settore mediamente esperto in possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività svolta; i giudici di secondo grado hanno pure evidenziato che, a fronte di tali elementi, il legale rappresentante della contribuente non aveva dimostrato di avere adempiuto tutti gli obblighi di diligenza richiesti all’operatore del settore, ex 1176, comma 2, cod. civ. e di essere stato nella oggettiva impossibilità di avere consapevolezza del fatto che il fornitore effettivo del bene era un altro soggetto (cfr. pagine 2 e 3 della sentenza impugnata).
Per le ragioni di cui sopra, il ricorso deve essere rigettato e la società ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali,
sostenute dalla Agenzia controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.000,00, per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, in data 8 novembre 2023.