Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 32325 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 32325 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 13/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14827/2017 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale in calce al ricorso, dagli Avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME elettivamente
AVVISO DI ACCERTAMENTO IVA E ALTRO 2006
domiciliata in Roma presso lo studio RAGIONE_SOCIALE in INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata ex lege in Roma alla INDIRIZZO
-controricorrente –
Avverso la sentenza della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DELLA CAMPANIA -NAPOLI n. 11415/23/2016, depositata in data 16/12/2016;
Udita la relazione della causa svolta dal consigliere dott. NOME COGNOME nella camera di consiglio del 4 ottobre 2024;
Fatti di causa
In data 3/7/2013 l’Agenzia delle Entrate notificò alla RAGIONE_SOCIALE (d’ora in avanti, anche ‘la contribuente’ ) un avviso di accertamento con il quale si procedeva alla rettifica delle dichiarazioni prodotte dalla società per l’anno d’imposta 200 6, avente ad oggetto una ripresa Ires, Irap e Iva, oltre a sanzioni.
In data 30/11/2006 la contribuente sottoscrisse un contratto di locazione finanziaria con la banca Italease s.p.a. in pool con la società RAGIONE_SOCIALE mediante il quale divenne conduttrice di un complesso immobiliare in Roma composto di 11 fabbricati e relative pertinenze, in INDIRIZZO
Il complesso immobiliare era stato conferito in data 25/1/2006 dalla società RAGIONE_SOCIALE al ‘RAGIONE_SOCIALE‘, gestito dalla società RAGIONE_SOCIALE, ad un valore pari ad euro 100.500.000.
Successivamente, il complesso immobiliare venne ceduto alle banche per l’importo di euro 220.000.000 oltre iva.
Secondo l’Agenzia, il maggiore valore della transazione, rispetto a quello di conferimento nel fondo, era stato stabilito con lo scopo di consentire alla società conduttrice una maggiore deduzione ai fini Ires e Irap e maggiori detrazioni ai fini Iva.
Su ricorso della contribuente, la C.T.P. annullò l’avviso di accertamento.
La C.T.R., su appello dell’Ufficio, riformò la sentenza di primo grado, ritenendo provato il disegno evasivo posto a base della ripresa fiscale. Avverso la sentenza d’appello, la società contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
Ragioni della decisione
1.Con il primo motivo di ricorso, rubricato ‘Violazione o falsa applicazione dell’art. 117, comma 2, Cost., dell’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, dell’art. 25 del d.lgs. n. 446 del 1997 nonché delle norme contenute nel d.lgs. n. 74 del 2000 -in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c.’ , la contribuente censura la sentenza impugnata per aver ritenuto applicabile all’Irap il raddoppio dei termini per l’accertamento, di cui al terzo comma dell’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 e al terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972.
Oltre che per la mancata allegazione della denuncia penale, che sarebbe elemento costitutivo del raddoppio dei termini per l’accertamento, la contribuente deduce che l’operatività del termine lungo di accertamento non potrebbe mai trovare applicazione con riferimento all’Irap.
1.1. Il motivo è fondato.
Il Collegio intende dare continuità all’orientamento giurisprudenziale di questa Corte secondo il quale ‘in tema di accertamento, il raddoppio dei termini, previsto dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, non può trovare applicazione anche per l’IRAP, poiché le violazioni delle relative disposizioni non sono presidiate da sanzioni penali’ (Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 10483 del 03/05/2018, Rv. 647996 -01; conf., Cass., sez. 6 – 5, Ordinanza n. 4742 del 24/02/2020, Rv. 656995 – 01).
2.Con il secondo motivo di ricorso, rubricato ‘Violazione o falsa applicazione degli artt. 1415, 2727 e 2729 c.c. nonché dell’art. 39, comma 1, d.P.R. n. 600 del 1973 -in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c.’ , la contribuente deduce che l’Agenzia delle Entrate non avrebbe assolto all’onere della prova ad essa incombente.
La C.T.R. ha, in particolare, ritenuto, in assenza di indici presuntivi dotati dei requisiti di legge, che il contratto di leasing e la presupposta vendita del complesso immobiliare avrebbero dissimulato una complessa operazione di finanziamento delle banche alle società del cd. gruppo ‘Statuto’.
Sicché, la contribuente ripercorre le argomentazioni spese per contrastare la ripresa fiscale dell’ufficio, imputando alla C.T.R. di essersi appiattita sulle posizioni processuali del fisco, che ai fini della ripresa fiscale avrebbe addotto solo delle congetture.
2.1. Il motivo è inammissibile, perché, pur rubricato con riferimento a violazioni di norme di legge, tenta in sostanza di devolvere a questa Corte un nuovo giudizio di merito sul valore inferenziale delle prove documentali prodotte dall’Ufficio e sul ragi onamento presuntivo condotto dalla C.T.R. per giungere al rigetto dell’originario ricorso.
In merito alla censura del ragionamento probatorio fondato su presunzioni semplici, questa Corte ha ripetutamente affermato che in tema di prova presuntiva, il giudice è tenuto, ai sensi dell’art. 2729 c.c., ad ammettere solo presunzioni gravi, precise e concordanti,
laddove il requisito della precisione è riferito al fatto noto, che deve essere determinato nella realtà storica, quello della gravità al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto desumibile da quello noto, mentre quello della concordanza, richiamato solo in caso di pluralità di elementi presuntivi, richiede che il fatto ignoto sia -di regola -desunto da una pluralità di indizi gravi, precisi e univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza, e ad articolare il procedimento logico nei due momenti della previa analisi di tutti gli elementi indiziari, onde scartare quelli irrilevanti, e nella successiva valutazione complessiva di quelli così isolati, onde verificare se siano concordanti e se la loro combinazione consenta una valida prova presuntiva (c.d. convergenza del molteplice), non raggiungibile, invece, attraverso un’analisi atomistica degli stessi. Ne consegue che la denuncia, in cassazione, di violazione o falsa applicazione del citato art. 2729 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., può prospettarsi quando il giudice di merito affermi che il ragionamento presuntivo può basarsi su presunzioni non gravi, precise e concordanti ovvero fondi la presunzione su un fatto storico privo di gravità o precisione o concordanza ai fini dell’inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota e non anche quando la critica si concreti nella diversa ricostruzione delle circostanze fattuali o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica diversa da quella ritenuta applicata dal giudice di merito o senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma ( ex coeteris , Cass., sez. 2 -, Ordinanza n. 9054 del 21/03/2022, Rv. 664316 – 01).
Orbene, la C.T.R., nella sentenza impugnata, non solo analizza partitamente la valenza inferenziale dei singoli elementi di fatto posti a base del ragionamento presuntivo, ma li inquadra, poi, tutti in un’unica cornice valutativa e li ritiene convergenti r ispetto alla tesi dell’Ufficio, ritenendola, così, provata (la cd. ‘convergenza del
molteplice’, di cui parla la giurisprudenza di questa Corte in tema di prova presuntiva).
Non solo, infatti, la C.T.R. ha elencato ed esaminato tutti gli indici dai quali emerge la riconducibilità dell’intera operazione economica posta in essere a società, estere e nazionali, riferibili ad un unico centro familiare, ma si è anche soffermata sulla attendibilità ricostruttiva degli altri elementi di fatto valorizzati dall’Ufficio, sui tempi nei quali tali elementi di fatto sono stati posti in essere e sul funzionamento del meccanismo che determinava un complessivo ed indebito vantaggio fiscale derivante alle individuate società appartenenti allo stesso centro familiare di interesse economico ed alla odierna ricorrente.
In particolare, la C.T.R. ha valorizzato soprattutto (considerandolo ‘dirimente’ ) la ipervalutazione data ai beni immobili oggetto del contratto di leasing rispetto al valore risultante da una perizia asseverata in occasione del conferimento degli immobili nel fondo ‘RAGIONE_SOCIALE‘ redatta poco tempo prima della stipula del contratto di leas ing; ipervalutazione che avrebbe consentito di fatto un finanziamento ad alcune società facenti capo all’unico centro di interesse economico, producendo contestualmente a favor e dell’odierna contribuente un sostanzioso risparmio fiscale, sia tramite indebite deduzioni dalla base imponibile, sia tramite rilevanti detrazioni Iva.
3.Con il terzo motivo di ricorso, rubricato ‘Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti -in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5) c.p.c.’ , la contribuente deduce di aver contestato il giudizio di ipervalutazione del complesso immobiliare oggetto dell’operazione rilevando la rispondenza del prezzo di cessione ai valori OMI dell’Agenzia delle Entrate.
Tale prezzo sarebbe stato l’elemento cardine sul quale la C.T.R. ha fondato il suo convincimento che l’operazione economica posta in
essere era tesa ad una evasione dell’imposta sui redditi della società e dell’iva.
Orbene, la C.T.R. non avrebbe reso alcuna statuizione sul punto, nonostante che le difese della contribuente, in merito al valore attribuito al complesso immobiliare, si fossero incentrate sui listini OMI.
3.1. Il motivo è inammissibile.
Vertendosi nell’ambito di prove presuntive (il valore del complesso immobiliare, infatti, è un elemento all’origine ignoto, alla cui determinazione più probabile l’Agenzia è pervenuta attraverso un ragionamento presuntivo fondato su elementi indiziari), questa Corte ha avuto occasione di affermare che con riferimento agli artt. 2727 e 2729 c.c., spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo, e neppure occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo criterio di normalità, visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (Cass., sez. L-, Ordinanza n. 22366 del 05/08/2021, Rv. 662103 – 01).
Orbene, la C.T.R. ha ritenuto, con un giudizio di merito insindacabile in sede di legittimità, di dare peso, al fine di determinare il verosimile valore del complesso immobiliare, ad altri indici fattuali rispetto ai listini OMI (valorizzando la perizia asseverata dinanzi al cancelliere del Tribunale di Monza in epoca prossima e antecedente rispetto all’operazione economica, oltre alla circostanza che il canone di locazione corrisposto alla contribuente era nettamente inferiore al canone di leasing).
Il fatto che nessun riferimento sia stato fatto, nella sentenza impugnata, ai valori OMI non è idoneo ad intaccare il ‘minimo costituzionale’ di motivazione che, comunque, è stato garantito dalla sentenza della C.T.R. e che mette al riparo quest’ultima dalla censura di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.
4. Con il quarto motivo, rubricato ‘Violazione o falsa applicazione dell’art. 1415 c.c. nonché dell’art. 109 del d.P.R. n. 917 del 1986 e dell’art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.’ , la contribuente censura la sentenza impugnata per aver aderito al la ricostruzione dell’Agenzia delle Entrate, che da una parte assume l’esistenza di una simulazione negoziale e dall’altro parla dell’operazione posta in essere in termini di antieconomicità.
Sostiene la contribuente che la nozione di simulazione e quella di antieconomicità sarebbero in contraddizione logica, visto che se un negozio è antieconomico, non può che essere giuridicamente esistente.
La C.T.R., dunque, avrebbe attribuito un carattere simulato ad un negozio che simulato non era, avendolo valutato piuttosto sotto un profilo elusivo dell’imposizione fiscale.
Sostiene ancora la contribuente che la deducibilità dei costi del contratto di leasing discenderebbe dalla loro inerenza.
La ricorrente, infine, ripropone in questa sede le argomentazioni, spese sin dal primo grado, tese a dimostrare l’assenza di antieconomicità del contratto di leasing e dei relativi costi.
4.1. Il quarto motivo è inammissibile per plurime ragioni, ciascuna sufficiente alla relativa declaratoria.
Dal tenore della motivazione della sentenza d’appello, si evince che la C.T.R. ha interpretato l’avviso di accertamento nel senso che quest’ultimo, ricostruendo la serie di operazioni negoziali collegate al leasing concluso dall’odierna contribuente, ha qu alificato come reali ed effettivamente voluti i negozi posti in essere dalle società appartenenti allo stesso gruppo della RAGIONE_SOCIALE
Dunque, la C.T.R., nel discorrere di ‘dissimulazione del reale intento negoziale delle parti’ (cfr. ultimo capoverso del paragrafo 6 della sentenza impugnata), non ha inteso riferirsi all’istituto civilistico della simulazione, bensì a quello del collegamento negoziale, attraverso il quale le parti conseguono, non rendendolo palese, uno scopo ulteriore ed eccedente rispetto a quello dei singoli negozi giuridici collegati.
Del resto, che la C.T.R. non abbia inteso riferirsi all’istituto civilistico della simulazione e che non abbia collegato il giudizio di antieconomicità a contratti simulati in senso civilistico (cioè non voluti e dunque meramente apparenti) lo ha ben compreso anche la contribuente, che a partire dalla metà della pagina 34 del ricorso contesta nel merito, dunque inammissibilmente, il giudizio di antieconomicità espresso dal giudice di appello.
Pertanto, deve ritenersi che il mezzo in esame non abbia attinto l’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata, essendo quindi inammissibile (Cass. n. 19989/2017).
Peraltro, come questa Corte ha in più occasioni rimarcato, se l’accertamento della volontà delle parti, in relazione al contenuto del negozio, si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito,
ciò non di meno un siffatto accertamento è censurabile, in sede di legittimità, nell’ipotesi di violazione dei canoni legali d’interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ., con la conseguenza che il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali, non potendosi risolvere la censura in questione nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (v. Cass., 9 settembre 2022, n. 26557; Cass., 9 aprile 2021, n. 9461; Cass., 16 gennaio 2019, n. 873; Cass., 15 novembre 2017, n. 27136; Cass. n. 27088/2024). Nel caso di specie, la sentenza d’appello non è stata impugnata per la violazione dei canoni ermeneutici che sovrintendono alla interpretazione degli atti giuridici, tra i quali rientra l’avviso di accertamento emesso dall’A genzia delle Entrate, ed il mezzo in esame non integra i predetti requisiti di ammissibilità.
Deve rilevarsi, infine, che, quand’anche si volesse ammettere che la contestazione contenuta nell’avviso di accertamento, come interpretata dalla C.T.R., fuoriesca dall’alveo della simulazione del contratto per sfociare in quello dell’elusione, che presupp one l’esistenza giuridica del negozio, la contribuente non ne trae alcuna conclusione in diritto, non spiegando nemmeno il motivo per il quale la sentenza d’appello, che avesse implicitamente ricondotto all’elusione l’operazione descritta nell’avviso di ac certamento, sarebbe viziata.
Quanto all’effettività e all’inerenza dei costi sostenuti, ai sensi dell’art. 109 Tuir, esse non ostano, logicamente, al giudizio di antieconomicità dato dall’Agenzia delle Entrate ed avallato dalla C.T.R.
La C.T.R., in particolare, aderendo al la ricostruzione dell’Agenzia delle Entrate, ha ritenuto, motivando congruamente sulla base di una ampia serie di indici fattuali, che l’odierna contribuente avesse concluso un’operazione negoziale antieconomica (con costi anormalmente elevati considerando quelli che sarebbe stato disposto a sostenere un prudente operatore di mercato) al solo scopo di ottenere un risparmio fiscale, da cui la conseguenza legittima del disconoscimento di quei costi ai fini delle imposte dirette e delle detrazioni ai fini iva.
Del resto, la giurisprudenza di questa Corte è nel senso che la conclamata antieconomicità è un fattore elidente l’inerenza dei costi (Cass., sez. 5, n. 33568/2022; Cass., sez. 5, n. 19232/2024; Cass., sez. 5, n. 27961/2021).
Il motivo in esame, poi, nella sua parte finale, si limita a contrapporre alle motivazioni della C.T.R. le ragioni per le quali, secondo la prospettazione di parte, l’operazione negoziale posta in essere non sarebbe antieconomica, con una inammissibile devoluzione a questa Corte del giudizio di merito già reso dal giudice di appello.
5. In conclusione, va accolto il primo motivo, mentre gli altri tre sono inammissibili.
La sentenza è cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Campania che, in diversa composizione, oltre che a regolare le spese del presente giudizio, provvederà a verificare se, escluso il raddoppio dei termini di accertamento per l’Irap, si fosse o meno verificata la decadenza al tempo della notificazione dell’avviso di accertamento alla odierna contribuente.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara inammissibili gli altri.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 4 ottobre 2024.