Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 5286 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 5286 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 28/02/2025
IRPEF-ACCERTAMENTODECADENZA-ART. 43 DPR 600/73 AVVISO DI ACCERTAMENTOINTERPRETAZIONE
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 2595/2016 R.G. proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME e dall’avvocato NOME COGNOME in forza di procura a margine del ricorso ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avvocato COGNOME, in Roma alla INDIRIZZO
-ricorrente – contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore p.t., domiciliata in Roma alla INDIRIZZO presso l’Avvocatura generale dello Stato, dalla quale è difesa ope legis ;
– controricorrente-
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto n. 1032/2015 pubblicata in data 15 giugno 2015, non notificata; udita la relazione della causa svolta nella udienza pubblica del 5/02/2025 dal consigliere dott. NOME COGNOME udito il PM, in persona del sostituto Procuratore generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per la declaratoria di inammissibilità
del ricorso;
udito l’avv . NOME COGNOME per l’Avvocatura Generale dello Stato.
FATTI DI CAUSA
L’Agenzia delle Entrate emetteva due avvisi di accertamento con cui recuperava a fini Irpef per gli anni di imposta 2002 e 2003 le somme accreditate sul conto corrente n. 103101, cd. «conto RAGIONE_SOCIALE», acceso presso la RAGIONE_SOCIALE Bank di Lugano, ritenuto attribuibile ad NOME COGNOME ritenendole redditi di capitale non contabilizzati dalla RAGIONE_SOCIALE, di cui era socio al 50% unitamente a NOME COGNOME per ricavi non contabilizzati della vendita di un macchinario industriale.
Con due distinti ricorsi il contribuente impugnava i predetti avvisi davanti alla Commissione tributaria provinciale di Vicenza, che, previa riunione, li respingeva.
Contro tale sentenza proponeva appello il contribuente davanti alla Commissione tributaria regionale del Veneto che, con la sentenza n. 1032/2015 pubblicata in data 15 giugno 2015, lo rigettava.
In particolare il giudice del gravame riteneva infondato il motivo relativo alla decadenza dell’ufficio dal potere accertativo, ai sensi dell’articolo 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, essendo irrilevante a tal fine l ‘ intervenuta prescrizione del reato già al momento della denuncia penale nonché la conseguenziale archiviazione; a tal riguardo evidenziava inoltre che la disposizione in questione raddoppiava ma non prorogava i termini, in considerazione del mero fatto che la violazione comportasse l’obbligo di denuncia,
indipendentemente dalla responsabilità e dai fatti che dovevano essere accertati in sede penale; quanto al merito dell’accertamento, la CTR evidenziava che il contribuente non aveva dichiarato con chiarezza che il conto Vigoroso, sul quale era avvenuto il versamento, non lo riguardasse in alcun modo e che comunque l’ufficio aveva portato a sostegno della riconducibilità al COGNOME del conto estero diversi elementi, ivi comprese le dichiarazioni del procuratore del COGNOME e la sentenza relativa al socio NOME Franceschi, elementi tutti gravi, precisi e concordanti, senza necessità che assurgessero a prove precise, non richieste dal legislatore; tali elementi non erano bilanciati da una chiara e netta contraria affermazione del contribuente; evidenziava che non si trattava di distribuzione di utili ma di somme pervenute sul conto che occorreva considerare riconducibile al Pavan; infine evidenziava che di minore rilevanza apparivano le altre contestazioni: «la dichiarazione di emersione riguardava i redditi del 2001; la fruttuosità è prevista automaticamente dalla legge una volta fissata l’esistenza del conto di deposito; la legittimità dell’organo verificatore è fuori discussione se si fa riferimento alla complessa normativa che ha portato all’attuale organizzazione dell’Agenzia » .
Contro tale decisione propone ricorso il contribuente sulla base di sette motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Il ricorso è stato fissato per l ‘udienza pubblica del 5 febbraio 2025.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., il ricorrente denuncia la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 112 c.p.c. per avere il collegio omesso di pronunciarsi sul divieto per l’ufficio di integrare in giudizio la motivazione dell’atto impositivo e sull’obbligo per l’ufficio di allegare all’accertamento gli atti cui quest’ultimo rinvia; deduce infatti che
l’avviso di accertamento non faceva riferimento al raddoppio dei termini e ai suoi presupposti e che non vi era allegato il verbale di interrogatorio dell’indagato in sede penale , ove questi aveva riferito della reale natura dei versamenti sul conto corrente.
1.1. Il motivo, che denuncia esclusivamente l’omessa pronuncia, non è fondato.
Occorre premettere che ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto; tale vizio, pertanto, non ricorre quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione (Cass. 06/12/2017, n. 29191; Cass. 29/01/2021, n. 2151; Cass. 25/06/2024, n. 17532; Cass. 13/10/2017, n. 24155; specificamente in ordine al difetto di motivazione Cass. 6/11/2020, n. 24953; Cass. 24/05/2022, n. 16678; Cass. 8/06/2022, n. 18513), come nel caso di specie ove la CTR ha direttamente affrontato nel merito sia la questione della decadenza sia quella della fondatezza della pretesa impositiva, implicitamente disattendendo i predetti rilievi.
Con il secondo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., il ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 43, comma 3, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per non avere i giudici di secondo grado annullato gli accertamenti per intervenuta decadenza dell’ufficio dal potere accertativo e per la palese strumentalità della notizia di reato che non consentiva di ritenere operante il raddoppio dei termini di accertamento, essendo stata inoltrata quando erano già maturati i termini di prescrizione dei reati.
2.1. L’art. 43 d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo vigente ratione temporis , prevede che «in caso di violazione che comporta obbligo di
denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione».
Come più volte chiarito da questa Corte, anche sulla scorta dei principi enunciati da Corte Cost. n. 247 del 2011, il raddoppio opera in presenza di tale presupposto astratto, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denunzia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo (Cass. 28/06/2019, n. 17586; Cass. 13/09/2018, n. 22337; Cass. 30/05/2016, n. 11171), non rilevando «né l’esercizio dell’azione penale da parte del p.m., ai sensi dell’articolo 405 c.p.p., mediante la formulazione dell’imputazione, né la successiva emanazione di una sentenza di condanna o di assoluzione da parte del giudice penale, anche in considerazione del doppio binario tra giudizio penale e procedimento e processo tributario» (Cass. 15/05/2015, n. 9974).
Anche in caso di eventuale prescrizione del reato, questa Corte ha già chiarito che «ai fini del raddoppio dei termini previsti dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, nella versione applicabile ratione temporis , rileva unicamente la sussistenza dell’obbligo di presentazione di denuncia penale, a prescindere dall’esito del relativo procedimento e nonostante l’eventuale prescrizione del reato, poiché ciò che interessa è solo l’astratta configurabilità di un’ipotesi di reato» (Cass. 11/04/2017, n. 9322).
Ciò naturalmente non rende di per sé legittimo qualunque accertamento compiuto dall’Amministrazione finanziaria oltre il termine-base fissato dalla legge, dovendo al contrario essere evitato, come chiarito dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 247 del 2011, un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni in esame al
fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento.
Per verificare l’uso pretestuoso del raddoppio dei termini «il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità», con la precisazione però che «il correlativo tema di prova – e, quindi, l’oggetto della valutazione da effettuarsi da parte del giudice tributario – è circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale e non riguarda l’accertamento del reato» (p. 5.3. della sentenza della Corte costituzionale).
La CTR con accertamento in fatto ha ritenuto che competendo al giudice penale la dichiarazione della prescrizione non si potesse contestare all’ufficio di non averla rilevata.
Con il terzo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., il ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 43, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per non avere i giudici d’appello annullato gli accertamenti per la decadenza dell’ufficio dal potere accertativo in quanto la comunicazione della notizia di reato era intervenuta dopo che il termine ordinario per l’accertamento era già spirato.
3.1. Il motivo non è fondato.
Questa Corte ha già affermato che «in tema di accertamento tributario, il cd. raddoppio dei termini previsto dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, attiene solo alla commisurazione del termine di accertamento ed i termini prolungati sono anch’essi fissati direttamente dalla legge, non integrando quindi ipotesi di “riapertura” o proroga di termini scaduti né di reviviscenza di poteri di accertamento
ormai esauriti, in quanto i termini “brevi” e quelli raddoppiati si riferiscono a fattispecie ab origine diverse, che non interferiscono tra loro ed alle quali si connettono diversi, unitari e distinti termini di accertamento» (Cass. 09/10/2017, n. 23628).
Inoltre, i termini previsti dagli artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 per l’Irpef (e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’Iva), nella versione applicabile ratione temporis , sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016 e già notificati, incidano le modifiche introdotte dall’art. 1, commi da 130 a 132, della l. n. 208 del 2015, attesa la disposizione transitoria ivi introdotta, che richiama l’applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 128 del 2015, che fa salvi gli effetti degli avvisi già notificati al 2 settembre 2015 (Cass. 9/08/2016, n. 16728; Cass. 14/05/2018, n. 11620), come nel caso di specie.
Questa Corte (Cass. n. 16728/2016 citata) ha infatti al riguardo precisato che La salvezza contemplata da quest’ultima norma, riferendosi senza distinzione agli effetti degli avvisi, non può che riguardare l’intero corredo disciplinare, sul piano delle conseguenze, scaturente dal diritto vivente, dinanzi sunteggiato, al cospetto del quale è destinata a cedere l’applicabilità immediata delle norme introdotte nel 2015 in tema di raddoppio dei termini, derivante dalla loro natura procedimentale. Né si può invocare il principio del favor rei, l’applicazione del quale è predicabile unicamente al cospetto di norme sanzionatorie, non già allorquando, come nel caso in esame, si tratti dei poteri di accertamento dell’ufficio .
Infine, al riguardo, questa Corte (Cass. 10/12/2021, n. 39416) ha anche ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 128 del 2015, per
contrasto con gli artt. 2, 3, 24, 53 e 97 Cost., nella parte in cui circoscrive l’ambito di operatività delle modifiche al regime del cd. raddoppio dei termini per l’accertamento tributario ai soli avvisi notificati dopo l’entrata in vigore del citato d.lgs., essendo espressione del ragionevole esercizio discrezionale del potere del legislatore la conservazione, pur a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 132 della l. n. 208 del 2015, della vigenza della disciplina transitoria di cui al succitato art. 2, comma 3.
Con il quarto motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., il ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 36, comma 2, n. 4 del d. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, dell’art. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., dal momento che la CTR ha motivato in maniera soltanto apparente sul difetto di prova eccepito dal contribuente; deduce infatti che la CTR non avrebbe esposto le argomentazioni logiche che sostengono le statiche affermazioni rese in sentenza.
4.1. Il motivo è infondato.
La mancanza della motivazione, rilevante ai sensi dell’art. 132 n. 4, cod. proc. civ. (e nel caso di specie dell’art. 36, secondo comma, n. 4, d.lgs. 546/1992) e riconducibile all’ipotesi di nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, si configura quando la motivazione manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione ovvero… essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum . Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e
nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata (Cass., Sez. U., 7/04/2014, n. 8053).
In particolare si è in presenza di una motivazione apparente allorché la motivazione, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente, come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’ iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture.
Nel caso di specie, con motivazione succinta ma pienamente comprensibile, la CTR ha evidenziato la pluralità degli elementi indiziari che deponevano nel senso della riconducibilità del conto «RAGIONE_SOCIALE» ad NOME COGNOME premesso che appare pacifico che l’a ccertamento nasce dalla dichiarazione resa nel procedimento penale da un indagato (NOME COGNOME) che aveva affermato di avere effettuato pagamenti sui conti correnti dei due soci della RAGIONE_SOCIALE per l’acquisto in nero di un macchinario, la CTR ha evidenziato una pluralità di elementi che confermavano tale conclusione e cioè, in primo luogo, il fatto che lo stesso contribuente non avesse in modo chiaro negato che il conto lo riguardasse; poi, le dichiarazioni rese dal suo procuratore (appare pacifico in fatto perché riportato dallo stesso ricorrente che egli avesse espressamente negato la pertinenza a COGNOME Antonio dell’altro conto «Diametro») e la sentenza relativa all’alt ro socio COGNOME,
specificando che si trattava di plurimi elementi tutti convergenti, con argomentazione logica e correttamente esposta.
Con il quinto motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., il ricorrente deduce la nullità della sentenza e del procedimento per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato di cui all’art . 112 c.p.c. in quanto l’ufficio, negli accertamenti, aveva ricostruito la pretesa fiscale in termini di distribuzione di utili in nero dalla società al socio mentre la CTR avrebbe riqualificato la fattispecie pretendendo di poter accertare le somme contestate per il solo fatto che si trovavano sul conto del signor COGNOME
5.1. Il motivo è inammissibile.
Dalla stessa descrizione dell’ iter processuale compiuta dal ricorrente emerge che l’asserita riqualificazione al più è stata operata dal giudice della CTP e non è stata fatta motivo di appello.
Nella compiuta e precisa esposizione dello svolgimento processuale il ricorrente, infatti, evidenzia che tra i motivi dell’originario ricorso egli aveva dedotto: a) che era impossibile accertare il reddito di capitale in capo al socio senza prima accertare il reddito di impresa della società (nei confronti della quale non era stato emesso alcun accertamento); b) il difetto di prova circa la distribuzione di utili in nero; c) la violazione dell’art. 45 t.u.i.r. in quanto i redditi di capitale devono essere t assati in base al principio di cassa e solo se effettivamente percepiti; d) l’impossibilità di fondare l’accertamento sulla ristrettezza della compagine sociale; e) l’illegittimo utilizzo di presunzioni multiple; f) l’illegittimità degli accertamenti in re lazione agli anni di imposta 2002 e 2003.
La CTP, secondo quanto riportato sempre nel ricorso, rigettava tutti tali motivi, ciascuno con specifica motivazione ma sostanzialmente sull’assunto unitario che l’accertamento non nasce sse dalla presunzione di distribuzione di utili ma si fondasse sulle indagini
finanziarie e sull’accerta ta titolarità del conto in capo al contribuente e quindi su somme nella sua diretta disponibilità, mentre il richiamo alla società era meramente esplicativo.
Dai motivi di appello riprodotti dal ricorrente emerge infine che egli di fatto riproponeva le iniziali censure ma non contestava l’avvenuta modifica delle ragioni dell’accertamento, per cui correttamente la CTR decideva sulle censure effettivamente esposte, evidenziando che «non di distribuzione di utili si tratta ma di somme pervenute al conto che a questo punto bisogna considerare riconducibile al Pavan per l’anno in cui sono pervenute. L’esistenza di due conti riferibili ai due soci di Mair, in cui affluiscono somme, fa ritenere con certezza che gli importi di ogni conto vanno imputati al 100% al titolare di riferimento».
In secondo luogo, il motivo non indica alcuna ragione per cui l’interpretazione dell’avviso di accertamento, e quindi delle ragioni della maggior pretesa tributaria, offerta dalla CTP e confermata dalla CTR, sia errata, laddove essa è quaestio facti , rimessa all’apprezzamento del giudice del merito.
Costituisce, infatti, principio fermo di questa Corte che l’interpretazione, da parte del giudice di merito, di un atto amministrativo a contenuto non normativo, quale è l’avviso di accertamento, costituisce una valutazione di fatto che è sottratta al controllo della Suprema Corte qualora sia immune da vizi logici e giuridici e non impinga nella violazione di quelle norme giuridiche, in particolare gli artt. 1362, secondo comma, 1363 e 1366 c.c., che, disposte dal legislatore per l’interpretazione dei contratti in genere, ben possono estendersi all’interpretazione degli atti e dei provvedimenti unilaterali e di quelli amministrativi, tenendo peraltro conto della natura dei medesimi nonché dell’esigenza della certezza dei rapporti e del buon andamento della pubblica amministrazione. In tale prospettiva, la parte che denunzi in cassazione l’erronea
interpretazione, in sede di merito, di un atto amministrativo, è tenuta però, a pena di inammissibilità del ricorso, a indicare quali canoni o criteri ermeneutici siano stati violati (Cass. 29/09/2003, n. 14482; Cass. 24/01/2007, n. 1602), il che non è avvenuto nel caso di specie.
Con il sesto motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., il ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c. in quanto la CTR non ha pronunciato sul motivo relativo alla violazione dell’art. 41bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, fatta oggetto di motivo di appello.
6.1. Il motivo è infondato alla luce delle considerazioni già espresse a proposito del primo motivo in tema di rigetto implicito, tanto più evidente nel caso di specie alla luce della ricostruzione dell’accertamento operata dal giudice del merito.
Il motivo sul quale vi sarebbe stata omessa pronuncia è comunque infondato anche nel merito; il ricorrente sembra infatti sostenere che il ricorso all’accertamento parziale di cui all’art. 41 -bis d.P.R. n. 600 del 1973 sarebbe impossibile in caso di una presunzione, nel caso di specie la presunzione di distribuzione degli utili societari della RAGIONE_SOCIALE
Come evidenziato da Cass. 5/07/2021, n. 18921 per l’analoga vicenda relativa ad altro socio, è certamente vero che questa Corte ha chiarito, fin da Cass. 31/01/2011, n. 2214, che l’accertamento tributario nei confronti di una società di capitali a ristretta base partecipativa, riferito ad utili extracontabili, costituisce un indispensabile antecedente logico-giuridico dell’accertamento nei confronti dei soci, in virtù dell’unico atto amministrativo da cui entrambe le rettifiche promanano, ai fini della presunzione di distribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, salva la possibilità del contribuente di provare che i maggiori ricavi non siano
stati distribuiti (per esempio perché accantonati o reinvestiti dalla società). E però nel caso in esame, ciò è del tutto irrilevante per la peculiarità della vicenda tributaria. Nella specie, infatti, la CTR ha evidenziato che l’ufficio ha accertato (e ripreso a tassazione) direttamente (e non in via presuntiva) un reddito (la provvista del conto svizzero denominato «Vigoroso») nella disponibilità del contribuente, sul presupposto che si trattasse di una rimessa diretta a favore del socio, che dipendeva dalla sua partecipazione alla RAGIONE_SOCIALE
7. Con il settimo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., il ricorrente deduce la violazione del d.P.R. 26 marzo 2001, n. 107, del d.l. 29 novembre 2008, n. 185 e degli artt. 2, 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, per non avere la CTR annullato gli accertamenti in quanto la Direzione centrale accertamento dell’Agenzia delle Entrate non aveva il potere di condurre l’attività istruttoria.
La difesa del contribuente evidenzia che a tale conclusione si perviene partendo dal presupposto per cui l’abrogazione dell’art. 62sexies , secondo comma, del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, ad opera dell’art. 23, primo comma, lett. pp), del d.P.R. 26 marzo 2001, n. 107, recante il «Regolamento di organizzazione del Ministero delle Finanze», avrebbe prodotto il venir meno del potere di controllo, ispezione e verifica originariamente attribuito alle Direzioni centrali e regionali del Dipartimento delle Entrate del Ministero delle Finanze; tale soluzione sarebbe confermata dalla portata innovativa attribuita all’art. 27, comma 13, d.l. 185/2008, secondo il quale «Ferme restando le previsioni di cui ai commi da 9 a 12, a decorrere dal 10 gennaio 2009, per i contribuenti con volume d’affari, ricavi o compensi non inferiore a cento milioni di euro, le attribuzioni ed i poteri previsti dagli articoli 31 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, nonché quelli previsti dagli articoli 51 e seguenti del
decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, sono demandati alle strutture individuate con il regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle entrate di cui all’articolo 71, del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300».
7.1. La censura, relativa alla attribuzione di poteri istruttori e di accertamento ai soli uffici periferici, non è fondata, alla luce di un consolidato orientamento di questa Corte, ribadito con numerose pronunce (Cass. 08/10/2020, n. 21694; Cass. 21/12/2018, n. 33289; Cass. 14/10/2016, n. 20856; Cass. 19/01/2016, n. 848; Cass. 27/11/2015, n. 24263; Cass. 03/10/2014, n. 20915), applicabile, per quanto di seguito indicato, anche al caso di specie.
I principi affermati da tale costante giurisprudenza sono i seguenti. Il d.lgs. n. 300 del 1999, in sede di istituzione delle Agenzie fiscali, ha espressamente attribuito un potere di autoregolamentazione all’Agenzia delle Entrate.
L’art. 57, primo comma, in particolare, ha previsto che «alle agenzie fiscali sono trasferiti i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze che vengono esercitate secondo la disciplina dell’organizzazione interna di ciascuna agenzia».
L’art. 61, secondo comma, ha poi aggiunto che «in conformità con le disposizioni del presente decreto legislativo e dei rispettivi statuti, le agenzie fiscali hanno autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e finanziaria», indicazione poi ripresa dal successivo art. 66, il cui primo comma ha previsto che «Le agenzie fiscali sono regolate dal presente decreto legislativo, nonché dai rispettivi statuti deliberati da ciascun comitato di gestione»; il secondo comma ha aggiunto che «gli statuti … recano principi generali in ordine all’organizzazione e al funzionamento dell’Agenzia» e il terzo comma che «l’articolazione degli Uffici a livello centrale e periferico, è
stabilita con disposizioni interne che si conformano alle esigenze della conduzione aziendale».
In base a tale quadro normativo, quindi, il Regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle Entrate ha previsto che le Direzioni centrali esercitino indagini e controlli di particolare rilevanza e complessità.
In base a ciò, con provvedimento 23/02/2001, n. 36122 il Direttore dell’Agenzia delle Entrate ha stabilito esplicitamente la competenza anche delle Direzioni centrali accertamento per le verifiche nei confronti di soggetti di grandi dimensioni.
Tale esito, contrariamente a quanto ritenuto dalla ricorrente, non si pone in contrasto con i principi costituzionali di legalità dell’azione amministrativa, posto che la ripartizione delle competenze degli organi operata dal Direttore dell’Agenzia delle Entrate costituisce diretta attuazione dei poteri conferiti dal d.lgs. n. 300 del 1999.
Ne deriva, inoltre, che l’espressa abrogazione dell’art. 62sexies d.l. n. 331 del 1993 – da ritenersi necessaria in ragione dell’originaria collocazione delle Direzioni regionali nel Ministero delle Finanze – non può in alcun modo avere amputato i poteri delle Direzioni regolati dal Direttore dell’Agenzia delle Entrate, risultando i poteri di accesso, ispezione e verifica già ex lege in capo all’Agenzia delle Entrate nel suo complesso e già attribuiti in via generale dagli artt. 52 d.P.R. n. 633 del 1972 e 33 d.P.R. n. 600 del 1973 e dalla medesima esercitati secondo la disciplina adottata nell’ambito dei poteri di autorganizzazione.
Concludendo, il ricorso deve essere respinto.
Alla soccombenza segue condanna al pagamento delle spese liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle Entrate, spese che liquida in euro 6.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
A i sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma in data 5 febbraio 2025.