Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 2205 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 2205 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso n.r.g. 5325/2018, proposto da:
COGNOME NOME , rappresentato e difeso, per procura allegata al ricorso, dall’AVV_NOTAIO, elettivamente domiciliato presso l’AVV_NOTAIO in ROMA, INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE , in persona del direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato presso la quale è domiciliata in ROMA, INDIRIZZO
-controricorrente –
avverso la sentenza n. 6006/08/17 della Commissione tributaria regionale della Campania, depositata il 3 luglio 2017; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14 dicembre 2023 dal AVV_NOTAIO COGNOME.
Rilevato che:
1. NOME COGNOME impugnò innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Napoli l’avviso di accertamento con il quale gli era stato richiesto il pagamento di maggiore Irpef, oltre addizionali e sanzioni, per l’anno di imposta 2007, sulla base della presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, della quale egli era titolare di una quota di partecipazione.
La RAGIONE_SOCIALE respinse il ricorso.
Il successivo appello del contribuente seguì identica sorte.
Con la sentenza indicata in epigrafe, i giudici regionali ritennero infondato il motivo di gravame con il quale il COGNOME aveva reiterato l’eccezione di decadenza dell’Ufficio dall’esercizio della potestà impositiva, ritenendo sussistente un’ipotesi di applicazione del raddoppio dei relativi termini ai sensi dell’art. 43, comma 2 -bis , del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.
Osservarono, quindi, che l’accertamento operato nei confronti di RAGIONE_SOCIALE era divenuto definitivo, ciò che condizionava, nel merito, quello relativo agli utili accertati in capo al socio pro quota.
Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione il contribuente sulla base di due motivi. L’RAGIONE_SOCIALE ha depositato controricorso.
Considerato che:
1. Il primo motivo denunzia violazione dell’ art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 57 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e dell’art. 25 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446.
Il ricorrente, premesso il rilievo in base al quale la notifica dell’atto impositivo era intervenuta nel 2014 con riferimento all’anno di imposta 2007, assume che la C.T.R. avrebbe errato nel ritenere applicabile il raddoppio del termine, e ciò in quanto tale circostanza sarebbe dipesa unicamente dall’avvenuta presentazione, in suo danno, di una denuncia infondata e calunniosa, alla quale, del resto, non aveva fatto seguito alcuna iniziativa da parte RAGIONE_SOCIALE competenti autorità inquirenti, e non facente parte della motivazione dell’atto impositivo.
Propone pertanto, con richiamo a diversi precedenti di merito, l’affermazione del principio di diritto secondo cui il raddoppio dei termini «va considerato illegittimo se non è allegata all’atto di accertamento la relativa denunzia per una violazione penaletributaria», ovvero non sono indicati nell’atto «elementi e circostanze fattuali atti a consentire una compiuta disamina e verifica dell’eventuale ed effettiva rilevanza e valenza penale della condotta».
1.1. Il motivo è infondato.
La sentenza impugnata si è infatti uniformata al consolidato orientamento di questa Corte, dal quale non vi è ragione di discostarsi, secondo cui il raddoppio dei termini, previsto dagli artt. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia di
reato, ai sensi dell ‘ art. 331 cod. proc. pen., per uno dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000 e, quindi, la ricorrenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale (Cass. n. 20409/2023; Cass. n. 33793/2019; Cass. n. 17586/2019).
L’emersione , in sede di verifica, RAGIONE_SOCIALE condizioni di ‘denunciabilità’ penale è dunque circostanza sufficiente per determinare il raddoppio dei termini, che opera automaticamente in presenza del mero riscontro di quella condizione obiettiva, come ha affermato la Corte costituzionale con la sentenza n. 247 del 2011.
Pertanto, non è richiesta l’effettiva presentazione della denuncia e, comunque, restano irrilevanti gli esiti del procedimento penale, salvo che, in linea con quanto affermato dalla citata sentenza del giudice RAGIONE_SOCIALE leggi, emerga che l’Amministrazione finanziaria ha fatto un uso pretestuoso o strumentale della disposizione, al solo fine di fruire, ingiustificatamente, di un più ampio termine (così Cass. n. 13483/2016).
Tale ultima non è l’ipotesi che ricorre nel caso di specie, sulla base di quanto evidenziato nella censura.
Né le circostanze evocate dal ricorrente in punto al richiamo della denuncia o del suo contenuto nell’atto impositivo assumono rilievo nell’ottica della fattispecie, posto che, come pure è stato più volte osservato in giurisprudenza, la ratio del raddoppio dei termini, di natura essenzialmente procedimentale, è quella di dare all’Ufficio un tempo maggiore per gli accertamenti nei casi più gravi, in cui gli elementi emersi presentano rilievo penale (così, ancora, Cass. n. 20409/2023).
Con il secondo motivo, rubricato «insufficiente motivazione su fatti controversi e decisivi del giudizio», il ricorrente si duole poi del fatto che la RAGIONE_SOCIALE non si sia pronunziata sulla sua denuncia di
«totale assenza, a base della pretesa impositiva, di presunzioni gravi, precise e concordanti».
2.1. Il motivo è inammissibile sotto plurimi profili.
Anzitutto, esso è articolato -quantomeno in modo apparente -in forma di denunzia dell’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio; il ricorrente, tuttavia, non indica la circostanza o l’accadimento del quale i giudici d’appello avrebbero trascurato l’esame.
Inoltre, la censura appare formulata in termini intrinsecamente contraddittori, giacché, nel dolersi di una carenza argomentativa della sentenza impugnata in punto ai presupposti probatori della pretesa impositiva, essa è poi riferita alla sola motivazione dell’atto impositivo, con evocazione di circostanze generiche, non pertinenti e che non risultano oggetto di deduzione nei precedenti gradi del giudizio.
In ogni caso, risulta con evidenza dalla lettura della sentenza impugnata che i giudici d’appello, dopo aver dato atto del fatto che il contribuente contestava il merito della pretesa impositiva, ritenendo «la totale assenza di presunzioni gravi, precise e concordanti» (pag. 1 della motivazione), hanno affermato che l’assoggettamento ad imposta conseguiva, quale circostanza automatica, all’intervenuta definitività dell’accertamento svolto nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE a ristretta base partecipativa.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
Va disposta la condanna del ricorrente al pagamento dell’importo previsto dall’art. 13, comma 1 -bis , del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese del giudizio, che liquida in € 2.500,00 oltre spese prenotate a debito
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2023.