Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 26528 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 26528 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 11/10/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 970/2018 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE IN LIQUIDAZIONE, domiciliata ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) e COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, ex lege domiciliata in INDIRIZZO, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (P_IVAP_IVA che la rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. PER L’EMILIA -ROMAGNA n. 1537/2017 depositata il 15/05/2017.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 02/10/2024 dal Co: COGNOME NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
A seguito di segnalazioni del RAGIONE_SOCIALE e di RAGIONE_SOCIALE, in ragione di situazioni collegate sotto il profilo tributario e di astratta rilevanze penale per ipotesi di concorso, la Guardia di finanza di Enna iniziava una verifica fiscale nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE conclusosi con processo verbale di constatazione del 16 Dicembre 2010, ed avente ad oggetto gli adempimenti fiscali per gli anni di imposta dal 2004 al 2008, estesi poi anche all’anno 2003, periodo in cui la verificata aveva forma di società in nome collettivo. Sulla scorta di tale pvc, la Direzione provinciale di Piacenza dell’Agenzia delle entrate adottava avviso di accertamento sull’anno di imposta 2004, recuperando a tassazione maggiori IRES, IVA ed IRAP, disconoscendo costi derivanti da attività inesistente e portati indebitamente a deduzione, in ordine ai lavori di realizzazione dell’RAGIONE_SOCIALE Velocità ferroviaria nello snodo farnesiano.
Proponeva ricorso la parte contribuente, trovando sostanziale apprezzamento avanti il giudice di prossimità, donde ricorreva in appello l’Ufficio, mentre interponeva appello incidentale la contribuente per i capi di propria soccombenza.
La CTR confermava la ripresa a tassazione, sancendo la legittimità del raddoppio dei termini in presenza di fatti astrattamente costituenti reato e comportanti l’obbligo di denuncia, con esclusione dell’IRAP, non assistita da tutela penale a questi fini. C onfermava parte della ripresa IVA, riconoscendo la ricostruzione fittizia dell’emissione di fatture (c.d. cartiera) in capo a RAGIONE_SOCIALE compiacente, con meccanismo di cui la società contribuente che qui ricorre doveva essere a conoscenza, riguardano società che avevano sede presso il suo stesso domicilio. Altri costi erano (divenuti) deducibili in base alla novella di cui al d.l. n. 16/2012.
Avverso questa sentenza insorge la società RAGIONE_SOCIALE (in liquidazione), affidandosi a quattro motivi di ricorso, cui reagisce l’Agenzia delle entrate spiegando tempestivo controricorso.
CONSIDERATO
Vengono proposti quattro motivi di ricorso.
Con il primo motivo si profila censura ai sensi dell’articolo 360 numero 4 del codice di procedura civile, lamentando omessa pronuncia in violazione o falsa applicazione dell’articolo 112 dello stesso codice di rito. Nella sostanza, si contesta l’omissione di pronuncia su alcuni questioni preliminari rappresentate dalla parte privata: il giudicato favorevole alla società intervenuto in altra analoga controversia; la soluzione penale del legale rappresentante della società accertata, qui ricorrente; alla carenza di motivazione dell’avviso impugnato, poiché privo degli allegati atti presupposti, tra cui il processo verbale di constatazione della Guardia di finanza di RAGIONE_SOCIALE e di quella di RAGIONE_SOCIALE, nonché quella di Enna.
Con il secondo motivo si profila censura i sensi dell’articolo 360 numero 5 del codice di procedura civile per omessa motivazione su un punto decisivo della controversia violazione di legge costituzionalmente rilevante. Nella sostanza si contesta non sia stato motivato in ordine alla corrispondenza tra pagamenti con bonifico eseguiti dalla società accertata e nelle somme prelevate in contanti dalla corrispondente RAGIONE_SOCIALE individuale cessionaria del contratto di noleggio macchinari.
Con il terzo motivo si profila censura ai sensi dell’articolo 360 numero 3 del codice di procedura civile per violazione dell’articolo 43 del DPR numero 600 del 1973 e dell’articolo 57 del DPR numero 633 del 1972. Nella sostanza si lamenta che sia stato ritenuto applicabile alla fattispecie in esame il raddoppio dei termini per l’adozione dell’atto impositivo in ragione per la presenza di elementi astrattamente costituenti reato e per i quali è dovuta la presentazione di quereladenuncia.
Con il quarto ed ultimo motivo si prospetta ancora censura ai sensi dell’articolo 360 numero 3 del codice di procedura civile per violazione dell’articolo 19 del DPR numero 633 del 1972, in
combinato disposto agli articoli 2697 e seguenti del codice civile. Nello specifico si contesta il recupero a tassazione dell’iva detratta dalla società accertata nonostante la sussistenza oggettiva delle operazioni fatturate, la legittima deducibilità di tutti i costi dichiarati, la mancanza delle presunzioni indicate in sentenza in ordine all’insistenza dell’elemento soggettivo in capo alla società ricorrente. Il primo motivo attiene all’omissione di pronuncia su tre eccezioni richiamate in appello. Il motivo è infondato e non può essere accolto. Giudice del fatto processuale, questa Corte riscontra che la citata sentenza CTR nissena n. 3026/21/2014 attenga ad altro anno di imposta, non estensibile ad altri esercizi, stante l’autonomia di ciascun periodo di imposta. Altresì, l’assoluzione in sede penale del legale rappresentate della RAGIONE_SOCIALE non incide sulla piena conoscenza e, quindi, sulla rilevanza fiscale del disegno fraudolento per l’evasione iva di cui al quarto motivo.
Giova premettere che la sentenza è un unicum , in cui parte narrativa e parte motiva si contemperano, sostenendosi vicendevolmente. E in questo senso, la sentenza in scrutinio richiama la sentenza della CTR siciliana, su di un giudizio similare, di cui viene chiesta la valenza di giudicato esterno, c osì come dà atto dell’assoluzione del legale rappresentante della società qui ricorrente. Deve però rilevarsi che in chiusura di sentenza si è fatta espressa menzione di ogni altra eccezione, che viene disattesa perché assorbita o rigettata. Devesi ritenere quindi implicitamente rigettata l’eccezione di giudicato favorevole e di assoluzione nel giudizio penale, considerando l’autonomia dell’anno di imposta
In questo senso, occorre ricordare che non ricorre il vizio di mancata pronuncia su una eccezione di merito sollevata in appello qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima, sicché il relativo mancato esame può farsi valere non già
quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione (Cass. III, n. 24953/2020). Più radicalmente, non ricorre vizio di omessa pronuncia su punto decisivo qualora la soluzione negativa di una richiesta di parte sia implicita nella costruzione logico-giuridica della sentenza, incompatibile con la detta domanda (v. Cass., 18/5/1973, n. 1433; Cass., 28/6/1969, n.2355). Quando cioè la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, anche se manchi una specifica argomentazione in proposito (v. Cass., 21/10/1972, n. 3190; Cass., 17/3/1971, n. 748; Cass., 23/6/1967, n.1537). Secondo risalente insegnamento di questa Corte, al giudice di merito non può invero imputarsi di avere omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacché né l’una né l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento come nella specie risulti da un esame logico e coerente, non già di tutte le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, bensì solo di quelle ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo. In altri termini, non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse (cfr. Cass. V, n. 5583/2011).
Pertanto, il primo motivo non può essere accolto.
Non può essere accolto neppure il secondo motivo, ove si lamenta l’omesso esame dell’eccepita contestazione della corrispondenza fra
i pagamenti con bonifico eseguiti dalla società accertata ed i prelevamenti in contanti, operati dalla RAGIONE_SOCIALE individuale.
Si deve precisare che quanto proposto non attiene ad un ‘fatto’, ma al diverso apprezzamento del materiale probatorio, il cui scrutinio eccede il perimetro di cognizione di questa suprema Corte di legittimità. È appena il caso di rammentare che il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione (tra le tante: Cass. 11 gennaio 2016 n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26610).
Come è noto, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente la prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011 n. 27197; Cass. 6 aprile 2011 n. 7921; Cass. 21 settembre 2006 n. 20455; Cass. 4 aprile 2006 n. 7846; Cass. 9 settembre 2004 n. 18134; Cass. 7 febbraio 2004 n. 2357).
Né il giudice del merito, che attinga il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, è tenuto ad un’esplicita
confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (ad es.: Cass. 7 gennaio 2009 n. 42; Cass. 17 luglio 2001 n. 9662).
Per completezza argomentativa, quanto alla denuncia di vizio di motivazione, poiché è qui in esame un provvedimento pubblicato dopo il giorno 11 settembre 2012, resta applicabile ratione temporis il nuovo testo dell’art. 360, comma primo, n. 5) c.p.c. la cui riformulazione, disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, secondo le Sezioni Unite deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez.Un. 7 aprile 2014 n. 8053). Dal che consegue il rigetto del secondo motivo. Neppure il terzo motivo può essere accolto. Vi si lamenta violazione di legge per indebito raddoppiamento dei termini per l’emissione dell’atto impositivo, in caso di fatto astrattamente di rilevanza penale, con obbligo di denuncia. Si evidenzia che nessuna denuncia è pervenuta nei confronti della società accertata, donde è pretestuoso agire con raddoppio dei termini, al solo fine di superare la barriera della decadenza dall’azione.
Non può esserci violazione di legge in ordine al raddoppio dei termini per l’adozione dell’atto impositivo, sull’assunto che -nel concreto-
non vi è stata denuncia/querela o comunque atto di impulso per l’esercizio dell’azione penale. Su questo punto preciso, è consolidato l’orientamento per cui non è necessario (né richiesto dalla norma) il preventivo esercizio dell’azione penale, bastando l’ astratta ipotesi di fatto costituente reato. Più precisamente, in tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsto dagli artt. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, nei testi applicabili “ratione temporis”, presuppone l’insorgenza dell’obbligo di denuncia penale per uno dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte cost. nella sentenza n. 247 del 2011 (Cass. V, n. 24576/2022). Altresì, in tema di accertamento tributario, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale nei confronti degli organi societari di una società in accomandita semplice determina il raddoppio dei termini per l’accertamento, previsto dall’art. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, vigente ratione temporis, anche del reddito imputato “per trasparenza” ai soci accomandanti. (Cass. T, n. 15999/2024).
Particolare menzione necessita il riferimento all’IRAP. È pacifico che il d.lgs. n. 74/2000 non prevede tale imposta fra quelle per cui vi è tutela penale, donde non può essere raddoppiato il termine per l’emissione dell’atto impositivo in assenza di tale guarentigia. Sul punto è già intervenuta questa Suprema Corte di Legittimità, affermando che in tema di accertamento, il cd. “raddoppio dei termini”, previsto dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, non può trovare applicazione anche per l’IRAP, poiché le violazioni delle relative disposizioni non sono presidiate da sanzioni penali (cfr. Cass. VI-5, n. 10483/2018). In questi termini si è assestata la sentenza qui in scrutinio, a pag. 4, terzultimo capoverso, espungendo la pretesa IRAP dalla ripresa a tassazione che quindi non rileva più in questa sede.
Neppure il terzo motivo può quindi essere accolto.
Il quarto motivo riguarda la ripresa a tassazione IVA che il patrono privato contesta, perché riguarda un costo veritiero, non essendo provato il coinvolgimento nella frode del legale rappresentate della contribuente accertata.
È di nuovo il caso di rammentare che il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione (tra le tante: Cass. 11 gennaio 2016 n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26610). Con apprezzamento di merito, non sindacabile avanti questa Suprema Corte di legittimità, nell’ultimo capoverso di pag. 3, la sentenza in scrutinio ricostruisce i fatti, individuando nella società accertata l’arbitro della cessione del contratto di noleggio dall’effettivo fornitore dei macchinari ad altra RAGIONE_SOCIALE, eccentrica per oggetto sociale e non dotata dei mezzi necessari per eseguire la prestazione, peraltro, con sede proprio nel domicilio dell’accertata, cui veniva diretti i bonifici, il cui importo era immediatamente dopo prelevato, deducendo il pagamento non tracciato al fornitore effettivo, con evasione di IVA. Ne deduce, quindi, la consapevolezza e volontà della frode, senza che rilevi la circostanza che l’IVA sia stata effettivamente pagata, poiché cioè è coerente con la nozione di operazione soggettivamente inesistente.
In questo, la sentenza in scrutinio si è dimostrata in linea con l’insegnamento di questa Corte, laddove è stato ripetuto che in tema di detrazione dell’IVA correlata ad operazioni inesistenti, la prova che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione dei beni si iscriveva in un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, in linea con la giurisprudenza della Corte di giustizia euro unitaria
(CGCE 22 ottobre 2015, C-277/14), può essere fornita dall’Amministrazione anche mediante presunzioni -come espressamente prevede l’art. 54, comma 2, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 -valorizzando, nel quadro indiziario, quali elementi sintomatici della mancata esecuzione della prestazione dal fatturante, l’assenza della minima dotazione personale e strumentale adeguata alla predetta esecuzione, l’immediatezza dei rapporti (cedente/prestatore fatturante interposto e cessionario/committente), una conclamata inidoneità allo svolgimento dell’attività economica e la non corrispondenza tra i cedenti e la società coinvolta nell’operazione (cfr. Cass. V, n. 5339/2020).
Nel caso specifico, si sono verificati i presupposti richiesti da questa Corte per l’inversione dell’onere della prova. Ed infatti, in tema di IVA, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attiene ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, incombe sulla stessa l’onere di provare la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto (cfr. Cass. 15369/2020).
In definitiva, il ricorso è infondato e dev’essere rigettato. Le spese seguono la regola della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in €.settemilaottocento/00, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 02/10/2024.