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Raddoppio termini accertamento: no se l’evasione è lieve

Una contribuente riceve un avviso di accertamento per l’anno d’imposta 2003 notificato nel 2013, oltre i termini ordinari. L’Agenzia delle Entrate giustificava il ritardo con il raddoppio termini accertamento, presupponendo un reato tributario. La Corte di Cassazione ha annullato l’atto, chiarendo che il raddoppio è illegittimo se l’importo contestato dall’Agenzia stessa è inferiore alla soglia di punibilità penale prevista dalla legge. Di conseguenza, l’accertamento era tardivo e nullo.

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Pubblicato il 16 settembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Raddoppio termini accertamento: no se l’imposta evasa è sotto la soglia penale

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza, ha stabilito un principio fondamentale in materia di raddoppio termini accertamento. Questa pronuncia chiarisce che l’Amministrazione Finanziaria non può avvalersi del termine più lungo per l’accertamento se l’importo dell’imposta che essa stessa contesta al contribuente è inferiore alla soglia di rilevanza penale. Una decisione che rafforza le garanzie del contribuente contro pretese fiscali tardive.

I fatti del caso

La vicenda trae origine da un avviso di accertamento notificato a una contribuente nel gennaio 2013, relativo all’anno d’imposta 2003. L’Agenzia delle Entrate contestava maggiori tributi (Irpef e addizionali), ritenendo che alcuni pagamenti ricevuti dalla contribuente, formalmente legati a una cessione di quote societarie, dissimulassero in realtà un assegno di mantenimento versato dall’ex coniuge in evasione d’imposta.

Il punto cruciale della controversia era la tempistica: l’atto era stato notificato ben oltre i termini ordinari di decadenza. L’Agenzia, tuttavia, sosteneva la legittimità del proprio operato invocando il cosiddetto raddoppio termini accertamento, previsto quando la violazione fiscale integra anche un reato.

La questione del raddoppio termini accertamento e le decisioni dei giudici di merito

Nei primi due gradi di giudizio, sia la Commissione Tributaria Provinciale che quella Regionale avevano dato ragione all’Amministrazione Finanziaria. Secondo i giudici di merito, il raddoppio dei termini si applicherebbe in presenza di un obbligo di denuncia penale, a prescindere dalla presentazione effettiva della denuncia e dalla valutazione concreta del superamento delle soglie di punibilità, valutazione che spetterebbe esclusivamente al giudice penale.

La contribuente, tuttavia, ha impugnato tale decisione dinanzi alla Corte di Cassazione, sostenendo che l’Amministrazione fosse ormai decaduta dal potere di accertamento. L’argomento principale era semplice e diretto: la stessa Agenzia delle Entrate contestava un’imposta evasa di circa 49.000 euro, un importo nettamente inferiore alla soglia di rilevanza penale all’epoca vigente, fissata in circa 77.000 euro. Mancando il presupposto del reato (il superamento della soglia), non poteva esserci alcun raddoppio dei termini.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha accolto pienamente la tesi della contribuente, ribaltando l’esito dei precedenti giudizi.

Le motivazioni

I giudici di legittimità hanno chiarito che, sebbene non spetti all’Amministrazione Finanziaria o al giudice tributario accertare la commissione di un reato, il raddoppio termini accertamento è legittimo solo se la condotta contestata sia astrattamente configurabile come reato tributario. Questa configurabilità non può prescindere da uno degli elementi costitutivi della fattispecie penale: il superamento della soglia di punibilità.

Nel caso specifico, è stata la stessa Agenzia delle Entrate a quantificare l’imposta evasa in una cifra inferiore a tale soglia. Di conseguenza, è venuto meno il presupposto stesso dell’obbligo di denuncia penale. Se non c’è obbligo di denuncia, l’Agenzia non può beneficiare del termine raddoppiato. La Corte ha sottolineato che il superamento della soglia non è una condizione di punibilità esterna, ma un elemento essenziale del reato di dichiarazione infedele.

Conclusioni

La sentenza stabilisce un principio di garanzia fondamentale per il contribuente. Il raddoppio termini accertamento non è uno strumento che l’Amministrazione può utilizzare in modo discrezionale. È strettamente legato all’esistenza di fatti che, per come sono contestati dall’ufficio stesso, presentino tutti gli elementi di un reato tributario, compreso il superamento delle soglie quantitative previste dalla legge. In assenza di questo presupposto, l’azione di accertamento deve rispettare i termini ordinari di decadenza. Pertanto, l’avviso di accertamento notificato alla contribuente è stato dichiarato nullo perché tardivo.

Quando l’Agenzia delle Entrate può applicare il raddoppio dei termini per l’accertamento?
Il raddoppio dei termini può essere applicato solo quando la violazione fiscale contestata è astrattamente configurabile come un reato. Ciò richiede la presenza di seri indizi di un reato tributario, incluso il superamento delle soglie di punibilità previste dalla legge.

È necessario che sia stata presentata una denuncia penale per applicare il raddoppio dei termini?
No, la sentenza chiarisce che il raddoppio dei termini presuppone l’obbligo di denuncia, a prescindere che questa sia stata effettivamente presentata o meno. Tuttavia, l’obbligo stesso sorge solo se i fatti contestati superano la soglia di rilevanza penale.

Cosa succede se l’imposta evasa contestata dall’Agenzia è inferiore alla soglia di punibilità penale?
Se l’importo dell’imposta evasa contestato dall’Agenzia delle Entrate è inferiore alla soglia di punibilità, la condotta non è penalmente rilevante. Di conseguenza, non sussiste l’obbligo di denuncia e l’Agenzia non può beneficiare del raddoppio dei termini di accertamento. L’eventuale avviso notificato oltre i termini ordinari è nullo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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