Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 24967 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 24967 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11392/2017 R.G. proposto da: COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. DEL LAZIO n. 6759/2016 depositata il 08/11/2016.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 09/07/2025 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il contribuente NOME COGNOME esercente la professione di notaio, veniva sottoposto ad accertamento fiscale. L’Agenzia delle Entrate procedeva, per gli anni dal 2004 al 2008, alla rettifica delle dichiarazioni fiscali presentate ai fini IRPEF, IRAP e IVA, recuperando i maggiori importi ritenuti dovuti. Al contribuente venivano notificati gli avvisi di accertamento contraddistinti dai seguenti numeri: TFK011101329, TFK0111100592, TFK011101334, TFK011 101338, TFK011100597.
Tali atti impositivi costituivano l’epilogo di una verifica fiscale condotta dalla Guardia di Finanza di Latina, conclusasi con la redazione di un processo verbale di constatazione (PVC) in data 12 aprile 2011. In particolare, all’esito della verifica si accertava che il contribuente aveva omesso di istituire il registro delle somme ricevute in deposito a titolo di spese da sostenere in nome e per conto dei clienti, previsto dall’art. 3 del D.M. 31 ottobre 1974. Tali somme non risultavano annotate neppure nel registro cronologico, previsto dall’art. 3 del D.M. 20 dicembre 1990, nel quale devono essere registrati, in due distinti sottoconti, da un lato i compensi per onorari, dall’altro gli importi ricevuti per spese anticipate.
Secondo la prospettazione dell’Amministrazione finanziaria, gli importi incassati a titolo di spese anticipate, esclusi dal professionista dall’imposizione diretta e indiretta, risultavano di gran lunga superiori ai costi effettivamente sostenuti e documentati nei corrispondenti periodi d’imposta. In definitiva, dalle scritture contabili e dalle dichiarazioni fiscali del contribuente emergeva una sistematica acquisizione di somme dai clienti per spese che, in misura rilevante, non erano mai state sostenute e che, pertanto,
dovevano essere considerate, in via presuntiva, quali onorari non dichiarati nelle dichiarazioni presentate.
Il contribuente impugnava con distinti ricorsi i cinque avvisi sopra menzionati.
Nel corso dei giudizi, tali atti impositivi venivano annullati dall’Agenzia e sostituiti da ulteriori cinque avvisi di accertamento: TFK011100585, TFK011100592, TFK011100595, TF K01110056,TFK011100597.
Anche questi nuovi avvisi venivano impugnati dal contribuente con distinti ricorsi, che venivano separatamente rigettati dalla Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Latina.
Le sentenze di primo grado venivano impugnate in appello dal contribuente e decise dalla Commissione Tributaria Regionale (CTR) del Lazio, anche in questo caso con pronunce distinte. In particolare:
con la sentenza n. 6752/40/2016, relativa all’anno 2004, l’appello veniva accolto parzialmente;
con la sentenza n. 6760/40/2016, relativa al 2005, l’appello veniva integralmente respinto;
con la sentenza n. 6753/40/2016, relativa al 2006, l’appello veniva parimenti rigettato;
con la sentenza n. 6758/40/2016, relativa al 2007, l’appello veniva accolto in parte;
con la sentenza n. 6759/40/2016, relativa al 2008, l’appello veniva respinto.
Avverso le sentenze sopra elencate, il contribuente proponeva un unico ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi. L’Agenzia delle Entrate resisteva con controricorso. La difesa del contribuente depositava memoria illustrativa. Il Procuratore Generale, con nota scritta sottoscritta dal Sostituto Procuratore Generale dott. NOME COGNOME insisteva per l’accoglimento del ricorso, nei limiti di quanto ritenuto fondato.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione dell’art. 2909 c.c., in relazione all’art, 360, n. 3, c.p.c., deducendo il contribuente la rilevanza del giudicato esterno, espressione del ne bis in idem. Segnatamente il contribuente assume essersi formato il giudicato sugli avvisi di accertamento annullati in via di autotutela e sostituiti da quelli oggetto del presente giudizio.
Con il secondo motivo di ricorso si adduce alla violazione dell’art. 43 d.P.R. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., stante la decadenza del potere di accertamento ai fini Irap per l’illegittima applicazione del ‘raddoppio dei termini’ dell’accertamento, difettando l’obbligo di denuncia penale ed essendo mancata la presentazione della denuncia in parola.
Con il terzo motivo di ricorso si censura la violazione e falsa applicazione dell’art 42 d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art 360 n. 3 c.p.c., attesa la nullità dell’atto impugnato per difetto di motivazione sotto il profilo della mancanza delle ragioni di diritto, dal momento che l’Agenzia delle entrate si era limitata a denunciare solo i fatti accertati senza minimamente motivare in diritto e senza citare nessuna norma del d.P.R. anzidetto.
Con il quarto motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art 39, comma 1, lett. d, d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art 2697 c.c., in relazione all’art 360 n. 3, c.p.c., attesa l’indebita inversione dell’onere della prova.
Con il quinto motivo di ricorso, avuto riguardo alle sanzioni, si contesta la violazione e falsa interpretazione dell’art 12, comma 1, D.Lgs. n. 472 del 1997 nonché la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art 360 n. 3 c.p.c.
Il primo motivo è inammissibile.
A travolgere la censura è la carenza di autosufficienza, atteso il mancato richiamo, nel ricorso per cassazione, del testo del
provvedimento che sottende il giudicato del quale si assume la mancata interpretazione da parte del giudice d’appello e si chiede a questa Corte di accertarne la portata.
Soccorre, al riguardo, l’orientamento consolidato di questa Corte, secondo cui « Nel giudizio di legittimità, la parte ricorrente che deduca l’inesistenza del giudicato esterno, invece affermato dalla Corte d’appello, deve, per il principio di autosufficienza del ricorso ed a pena d’inammissibilità dello stesso, riprodurre in quest’ultimo il testo integrale della sentenza che si assume essere passata in giudicato, non essendo a tal fine sufficiente il richiamo a stralci della motivazione » (Cass., 19 agosto 2020, n. 17310; Cass., 23 giugno 2017, n. 15737; Cass., 11 febbraio 2015, n. 2617; Cass., Sez. U., 27 gennaio 2004, n. 1416).
Giova evidenziare che « il principio della rilevabilità del giudicato esterno va coordinato con l’onere di autosufficienza del ricorso; pertanto, la parte ricorrente che ne deduca l’esistenza deve, a pena d’inammissibilità, riprodurre nel ricorso il testo integrale della sentenza che si assume essere passata in giudicato, non essendo sufficiente il richiamo a stralci della motivazione » (Cass., 23 giugno 2017, n. 15737), occorrendo, in particolare, il « richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo » (Cass., 8 marzo 2018, n. 5508).
Peraltro, tali adempimenti non esauriscono gli obblighi imposti dalla norma: è necessario, infatti, che il giudicato esterno « risulti dagli atti comunque prodotti nel giudizio di merito » e che la parte ricorrente « indichi il momento e le circostanze processuali in cui i predetti atti siano stati prodotti » (Cass., Sez. U., 27 gennaio 2004, n. 1416 cit.).
L’interpretazione del giudicato esterno può essere effettuata anche direttamente dalla Corte di cassazione con cognizione piena, ma solo nei limiti – nel caso di specie non rispettati dal ricorrente – in
cui il giudicato sia riprodotto nel ricorso e conforme al principio di autosufficienza (Cass., 27 febbraio 2024, n. 5126).
L’adempimento che impone alla parte di « indicare il momento e le circostanze processuali in cui i predetti atti siano stati prodotti » (Cass., Sez. U., 27 gennaio 2004, n. 1416 cit.) è imprescindibile anche per stabilire se la questione relativa all’esistenza del giudicato esterno sia ormai preclusa e, comunque, per individuare lo strumento impugnatorio idoneo a farla valere.
Nel caso di specie, emerge chiaramente un profilo di inammissibilità, derivante dalla mancata riproduzione del testo specifico dei provvedimenti oggetto di giudicato, il che rende la censura imperscrutabile. Del resto, nel giudizio di legittimità, la parte ricorrente che deduca l’inesistenza del giudicato esterno deve, per il principio di autosufficienza ed a pena d’inammissibilità, riprodurre nel ricorso il testo integrale della sentenza che si assume essere passata in giudicato, non essendo sufficiente il richiamo a stralci della motivazione (Cass., 19 agosto 2020, n. 17310).
Sotto tale profilo, si rileva come la parte ricorrente abbia omesso di fornire una precisa indicazione, conforme all’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c., sia del contenuto e dell’oggetto dei giudicati richiamati (oltre che del modo in cui essi rileverebbero rispetto alle domande proposte nella presente controversia), sia dei termini in cui erano stati invocati in primo grado, non potendo ritenersi sufficiente il generico accenno contenuto nella parte espositiva del ricorso.
Parimenti, non risulta alcuna indicazione circa il modo in cui, rispetto alla sentenza di primo grado, tali pretesi giudicati siano stati nuovamente invocati in appello, né della loro localizzazione nel presente giudizio di legittimità. Adempimento, quest’ultimo, non meno necessario – sempre ai sensi della norma citata – se è vero che «indicare un documento significa necessariamente, oltre
che specificare gli elementi che valgono ad individuarlo, riportarne il contenuto e precisare dove nel processo esso sia rintracciabile, sicché la mancata ‘localizzazione’ del documento basta per la dichiarazione di inammissibilità del ricorso, senza necessità di soffermarsi sull’osservanza del principio di autosufficienza dal versante contenutistico» (Cass., 10 dicembre 2020, n. 28184; Cass., 4 marzo 2024, n. 5700).
Ad ogni modo, il motivo è anche infondato. L’eccezione di giudicato si riferisce, infatti, a decisioni concernenti atti impositivi rimossi in autotutela dall’Amministrazione, circostanza che esclude in radice la formazione di un giudicato sostanziale sulla pretesa fiscale. Le relative statuizioni, infatti, si sono limitate alla regolamentazione delle spese processuali, senza alcuna incidenza sul merito della pretesa tributaria. Ne consegue che la doglianza, oltre che inammissibile, si rivela priva di consistenza giuridica, non potendo fondarsi su provvedimenti privi di efficacia decisoria in ordine alla materia del contendere.
Il secondo motivo è fondato solo limitatamente all’Irap.
Invero, « In tema di accertamento, il cd. raddoppio dei termini, previsto dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, non si applica all’IRAP, poiché le violazioni delle relative disposizioni non sono presidiate da sanzioni penali » (Cass., n. 600 del 2025).
Sulla base di tale dirimente premessa, la CTR ha correttamente ritenuto l’applicabilità del raddoppio dei termini per le ulteriori riprese fiscali.
Nel caso in esame non assumono rilievo le modifiche introdotte, dapprima, dall’art. 2, commi 1 e 2, del D.Lgs. 3 agosto 2015, n. 128, che ha circoscritto il raddoppio dei termini di accertamento per violazioni penali ai soli casi in cui la denuncia sia effettivamente presentata e trasmessa all’autorità giudiziaria entro il termine ordinario di decadenza dal potere di accertamento; successivamente, dall’art. 1, commi da 130 a 132, della legge 28
dicembre 2015, n. 208, che ha, tra le altre disposizioni, eliminato la fattispecie del raddoppio dei termini ordinari.
Infatti, quanto alla prima modifica, in virtù della norma di salvaguardia prevista dall’art. 2 del D.Lgs. n. 128 del 2015, essa non si applica alle violazioni punibili constatate in processi verbali notificati prima del 2 settembre 2015 e seguite dalla notifica di atti impositivi entro il 31 dicembre 2015, come nel caso di specie, in cui la notifica dell’avviso di accertamento è intervenuta anteriormente.
Quanto alla seconda modifica, il regime transitorio previsto dalla legge n. 208 del 2015 per i periodi d’imposta anteriori a quello in corso al 31 dicembre 2016 – secondo cui il raddoppio dei termini di accertamento, come stabilito dal secondo periodo del comma 132, opera, in caso di violazioni penali, solo a condizione che la denuncia penale sia presentata o trasmessa dall’amministrazione finanziaria entro il termine stabilito nel primo periodo del medesimo comma – riguarda esclusivamente le fattispecie non disciplinate dal precedente regime transitorio. Ai sensi dell’art. 3, comma 2, del D.Lgs. n. 128 del 2015, sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle Entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore del decreto (cfr. Cass., n. 26037 del 2016; Cass., n. 16728 del 2016).
Ciò posto, secondo la disciplina applicabile al caso in esame, il raddoppio dei termini deriva dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p., indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato, restando irrilevante, in particolare, che l’azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna (Cass., n. 22337 del 2018; Cass., n. 11171 del 2016).
Infatti, come evidenziato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011, l’unica condizione per il raddoppio dei termini è costituita dalla sussistenza dell’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorga ed indipendentemente dal suo adempimento, sicché «il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta ‘ prognosi postuma ‘) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità ovvero abbia fatto uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate, al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento.
Il terzo motivo è inammissibile e comunque infondato.
Come questa Corte ha più volte precisato, il ricorso per cassazione, in ossequio al principio di autosufficienza, deve contenere tutti gli elementi necessari a motivare la richiesta di cassazione e a consentire la valutazione della fondatezza delle ragioni avanzate. Non è dunque necessario rinviare ad atti o documenti esterni al ricorso stesso. Ne consegue che il ricorrente ha l’onere di indicare, con precisione, sia il luogo di produzione sia gli atti processuali e i documenti su cui fonda il ricorso, mediante la loro riproduzione diretta o, in alternativa, tramite una riproduzione indiretta accompagnata dall’indicazione puntuale della parte di documento richiamata (Cass., 15 luglio 2015, n. 14784; Cass., 27 luglio 2017, n. 18679; Cass., Sez. U., 27 dicembre 2019, n. 34469).
Nel caso concreto, la mancata riproduzione degli avvisi di accertamento rende la censura non intellegibile.
A prescindere da ciò, la doglianza si scontra con un principio consolidato: in materia di imposte sui redditi, l’art. 42, secondo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, richiede che l’avviso di accertamento contenga non solo gli estremi del titolo e della
pretesa impositiva, ma anche i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che ne giustificano l’emissione. Tali elementi devono essere forniti tempestivamente, ‘ab origine’, e con un grado di determinazione sufficiente a permettere al contribuente di valutare l’opportunità di proporre impugnazione e, se del caso, di contestare efficacemente sia l’ an sia il quantum della pretesa (Cass., n. 16836 del 2014; Cass., n. 15842 del 2006).
Nel caso in esame, risulta chiaro che il contribuente sia stato posto in condizione di conoscere la pretesa impositiva, valutare l’opportunità di impugnare e contestare concretamente sia l’ an sia il quantum della pretesa tributaria, come dimostrato dai ricorsi dettagliati presentati al merito delle riprese fiscali.
In altri termini, la parte ricorrente pretende di elevare a requisito di legittimità dell’avviso di accertamento l’indicazione di specifici riferimenti normativi valorizzati dagli accertatori. Si tratta, tuttavia, di una pretesa priva di fondamento: l’ordinamento tributario non richiede una pedissequa elencazione di norme, tanto è vero che l’errata indicazione nell’atto impositivo della norma tributaria violata non è, di per sé, causa di nullità dell’atto per inosservanza dell’obbligo di motivazione (Cass. n. 16836 n. 2014 in motivazione), né l’Amministrazione finanziaria, in sede di redazione dell’avviso di accertamento, è tenuta ad indicare in quale categoria dogmatica (analitico, analitico induttivo, analitico presuntivo, sintetico, etc.) deve essere iscritto l’atto impositivo notificato al contribuente, poiché rilevano, ai fini della legittimità dell’accertamento tributario e del rispetto del diritto di difesa, la sua fondatezza e la chiara intelligibilità (Cass. n. 16015 del 2024). È sufficiente, quindi, che l’atto consenta al contribuente di comprendere la pretesa e di difendersi.
Il quarto motivo è inammissibile.
Questa Corte ha chiarito, in tema di onere probatorio, che in sede di accertamento dei redditi costituisce presupposto per
l’applicazione del metodo analitico -induttivo la complessiva inattendibilità della contabilità, da valutarsi sulla base di presunzioni ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, secondo criteri di ragionevolezza, anche qualora le scritture contabili risultino formalmente corrette (Cass., 14 ottobre 2020, n. 22184).
A differenza dell’accertamento induttivo puro, l’« incompletezza, falsità od inesattezza » dei dati contenuti nelle scritture contabili non consente di prescindere del tutto da esse, ma legittima l’Ufficio accertatore a colmare le lacune riscontrate, avvalendosi, ai fini della dimostrazione dell’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati, anche di presunzioni semplici, purché dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza previsti dall’art. 2729 c.c. (Cass., 18 dicembre 2019, n. 33604). Tali presunzioni non devono necessariamente essere plurime, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su un unico elemento, purché grave e preciso (Cass., 14 ottobre 2020, n. 22184, cit.), con la conseguenza che l’onere della prova si trasferisce sul contribuente (Cass., 2 novembre 2021, n. 30985), onere che, nel caso in esame, non risulta assolto, come ripetutamente rilevato dai giudici di secondo grado.
Su tali premesse, è evidente che la CTR non abbia sovvertito il riparto degli oneri probatori e che, sotto le mentite spoglie di una denunciata violazione di legge, la parte ricorrente miri in realtà a una rivalutazione del merito della controversia, operazione preclusa in sede di legittimità.
Il motivo è pertanto inammissibile, avendo la parte ricorrente prospettato la violazione dell’art. 2697 c.c., pur in assenza di una effettiva attribuzione dell’onere della prova a soggetto diverso da quello gravato secondo le regole di scomposizione della fattispecie.
Il giudice d’appello ha infatti ritenuto assolto l’obbligo
motivazionale da parte dell’Amministrazione finanziaria, senza alterare il corretto riparto dell’onere probatorio.
La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura esclusivamente nell’ipotesi in cui il giudice attribuisca l’onere della prova a una parte diversa da quella che ne è gravata in base alla norma, e non quando, a seguito di una valutazione incongrua delle acquisizioni istruttorie, ritenga erroneamente che la parte onerata abbia assolto tale onere. In quest’ultimo caso, si è in presenza di un errore di apprezzamento sull’esito della prova, censurabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (Cass., 19 agosto 2020, n. 17313).
In particolare, la violazione dell’art. 2697 c.c. presuppone che il giudice di merito applichi in modo errato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova, attribuendo l’ onus probandi a una parte diversa da quella che ne è onerata, secondo le regole di ripartizione basate sulla distinzione tra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass., 23 ottobre 2018, n. 26769). Ciò non è accaduto nel caso di specie, in cui il giudice ha correttamente individuato la parte gravata dell’onere probatorio.
Piuttosto, la censura si risolve in una doglianza volta a contestare la valutazione delle prove effettuata dal giudice di merito, lamentando un erroneo apprezzamento dell’esito istruttorio. Tale doglianza, come noto, è sindacabile in sede di legittimità esclusivamente sotto il profilo del vizio motivazionale di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (Cass., 5 settembre 2006, n. 19064; Cass., 10 febbraio 2006, n. 2935).
In definitiva, con la denunciata violazione, il ricorrente non si duole dell’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalla norma, né dell’omesso esame di fatti decisivi, ma tende ad ottenere una diversa ricostruzione dei fatti di causa, censurando la ritenuta congruità dell’interpretazione fornita dalla Corte territoriale in ordine agli elementi presuntivi valorizzati. Si tratta, pertanto, di
una censura inammissibile, in quanto volta a sollecitare una rivalutazione del merito, estranea al perimetro del giudizio di legittimità.
Il quinto motivo è inammissibile.
Esso si risolve in una censura meramente formale, che si atteggia, in maniera artificiosa, a doglianza volta a sollecitare una rivalutazione del merito in ordine al calcolo delle sanzioni, già effettuato ed esplicitato dai giudici di merito. La parte ricorrente contesta l’erroneità del calcolo, senza tuttavia fornire elementi concreti idonei a configurare un vizio di diritto o una violazione normativa.
Il calcolo della sanzione risulta chiaramente esplicitato in sentenza, con evidenza del profilo della continuazione e l’ancoraggio degli aumenti alla sanzione più grave, sicché la doglianza si rivela priva di fondamento giuridico, mirando ad aggredire una valutazione che rientra nella discrezionalità del giudice di merito.
Ne consegue che il quinto motivo non coglie nel segno e deve essere respinto, risultando estraneo al perimetro del giudizio di legittimità, il quale non può essere trasformato in sede di riesame del merito. La censura, infatti, non si confronta con alcuna violazione di norme di diritto sostanziale o processuale, limitandosi a contestare una valutazione quantitativa operata dal giudice di merito, che, in quanto tale, è insindacabile in sede di legittimità, salvo il ricorrere di vizi motivazionali specifici, nella specie non dedotti né dimostrati.
In conclusione, il ricorso merita accoglimento nei limiti indicati, essendo fondata la censura relativa all’illegittima applicazione del raddoppio dei termini di accertamento ai fini IRAP, in assenza dei presupposti normativi richiesti. Le restanti doglianze, invece, si rivelano inammissibili o infondate, come ampiamente esposto. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di merito, la causa può essere decisa nel merito, con l’accoglimento, limitatamente
all’IRAP, dell’originario ricorso del contribuente. In considerazione dell’esito complessivo della controversia e della parziale fondatezza delle censure, si ritiene equo disporre la compensazione integrale delle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte, pronunciando sul ricorso, lo accoglie limitatamente al secondo motivo, nei termini di cui in motivazione, in riferimento all’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), respingendo le restanti censure.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, accoglie l’originario ricorso del contribuente limitatamente all’IRAP.
Compensa integralmente le spese di lite tra le parti, avuto riguardo all’esito complessivo della controversia.
Così deciso in Roma, il 09/07/2025.
Il Presidente
NOME COGNOME