Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 33908 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 33908 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 22/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 30126/2019 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE nella persona del custode e amministratore giudiziario, dott. NOME COGNOME e dell’amministratore unico ante sequestro dott. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’Avv. Prof. NOME COGNOME con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, INDIRIZZO giusta procura a margine del ricorso per cassazione.
-ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i
cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della CAMPANIA n. 1911/19, depositata in data 4 marzo 2019, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 4 dicembre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE
1. La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE avverso la sentenza di primo grado, che aveva rigettato il ricorso avente ad oggetto l’avviso di accertamento n. TEB03T200039/2015 (integrativo e modificativo di quello precedentemente emesso n. TEB03T100081/2013 a seguito della conoscenza di nuovi elementi desunti dal PVC), con il quale l’Agenzia delle Entrate aveva accertato l’inesistenza soggettiva degli acquisti effettuati nell’anno d’imposta 2008 e recuperato a tassazione l’Iva ritenuta indetraibile, aveva disconosciuto la detraibilità dei costi ai fini Irap ed aveva considerato indeducibile il costo di cui al reato contestato ai fini Ires, con conseguente irrogazione della sanzione.
2. I giudici di secondo grado, dopo avere preliminarmente rilevato che la sentenza appellata aveva esaminato dettagliatamente i motivi di doglianza esposti dalla società ricorrente fornendo, per ciascuno di essi, specifica motivazione e che i motivi addotti in sede di appello erano stati meramente riproposti senza che emergesse alcun elemento che potesse giustificare una diversa decisione, hanno affermato che: « Quanto alla eccepita pregiudizialità per un nesso di causalità tra la controversia relativa al giudizio inerente alla RAGIONE_SOCIALE – annualità 2002 – e quella oggi in esame che ha ad oggetto autonome violazioni della normativa fiscale [con conseguente
inapplicabilità dell’art. 39 comma 1 bis -aggiunto dall’art. 9, comma 1, lettera o), d.lgs. 156/2015], questa CTR (n. 11153/50/2014) ha già avuto modo di affermare (con specifico riferimento alla predetta RAGIONE_SOCIALE – annualità 2002 – ed all’ordinanza n. 11441/2016 della Corte Costituzionale) “l’irrilevanza del giudizio riguardante la validità del condono rispetto a quello in esame, dal momento che tale modalità di definizione del debito fiscale non impedirebbe comunque l’attività accertativa dell’Amministrazione Finanziaria con riferimento ai crediti vantati dal contribuente, come peraltro più volte enunciato dalla Suprema Corte; ciò anche a prescindere dalla questione riguardante l’ammissibilità o meno di una sospensione dal punto di vista processuale, al di fuori dei casi espressamente previsti dal D.lgs. n. 546/1992, pure comunque affermata dalla Corte Costituzionale”. L’insussistenza del rapporto di pregiudizialità con l’odierna controversia in esame deriva anche dal rispettivo riferimento ad annualità ben distanti da quella che riguardava anni passibili di definizione agevolata e seppure la definizione della vicenda giudiziaria della Dagar avesse esito ad essa positivo va rammentato che “il condono elide in tutto o in parte, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente possa vantare nei confronti del fisco, i quali restano soggetti all’eventuale contestazione da parte dell’ufficio. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto legittimo l’avviso di accertamento emesso dall’Amministrazione finanziaria, successivamente al condono, per il recupero di crediti IRPEG e IVA, derivanti da indebita detrazione per l’utilizzo di fatture inesistenti” (principio sostanzialmente rinvenibile in Cassazione, n. 20433/2014; n.2597/2014; n. 375/2009; Cass. Penale, n. 42462/2010, emessa proprio in relazione alla vicenda attualmente in esame. Si veda anche C. Cost., ord. N. 340 del 2005). Va, infine, rammentato che il condono cui ha fatto ricorso la Dagar riguardava anche l’i.v.a. secondo una normativa contraria al diritto comunitario (Corte Costituzionale, n. 247/2011). Consegue che non può ritenersi errata la decisione del primo giudice che non ha ritenuto sussistente un nesso di causalità tra la vicenda giudiziaria della Dagar e quella dell’odierna appellante che giustificasse la sospensione di questo giudizio in attesa della definizione di quello relativo alla Dagar. Quanto all’eccepita decadenza in cui sarebbe incorsa l’A.F. che si sarebbe avvalsa illegittimamente del cosiddetto “raddoppio dei termini” vale rammentare che il giudice di legittimità Cassazione, n. 9322/2017) ha avuto modo di affermare il condiviso principio cui si intende dare continuità, secondo cui «In tema di accertamento tributario, ai fini del raddoppio dei termini previsti dall’art. 43 d.p.r. n. 600 del 1973, nella versione applicabile ratione temporis, rileva unicamente la sussistenza dell’obbligo di presentazione di denuncia penale, a prescindere dall’esito del relativo procedimento e nonostante l’eventuale prescrizione del reato, poiché ciò che interessa è solo l’astratta configurabilità di un’ipotesi di reato, atteso il regime di «doppio binario» tra giudizio penale e procedimento tributario» come, peraltro, chiarito dalla Corte Costituzionale con l’innanzi richiamata sentenza n. 247/2011 (riferita alla Dagar) che ha ritenuto, detto raddoppio, applicabile anche alle annualità d’imposta anteriori a quella pendente al momento dell’entrata in vigore delle disposizioni in questione. Va, infine, considerato che, come precisato dall’A.F., l’atto impugnato è fondato su attività d’indagine svolte nell’ambito di un procedimento penale già instaurato presso la Procura del Tribunale di Napoli. Premesso che l’accertamento integrativo operato trova la sua legittimazione nell’autorizzazione dell’11.02.2014 concessa
dall’A.G. all’utilizzo in sede fiscale delle violazioni emerse nell’ambito del procedimento penale n. 48015/2008 costituenti “nuovi elementi” trasfusi nel p.v.c, sottoscritto dai legali rappresentanti dell’accertata, va rilevato che non si versa nell’ipotesi di mera rivalutazione di documenti, fatti e circostanze già valutate dall’A.F. e già alla stessa noti; l’Agenzia delle Dogane non ha orientato e trovato la motivazione della sua attività d’indagine sui medesimi fatti ed elementi che sono stati posti a base della contestazione di cui all’accertamento integrativo oggi in discussione. La contestazione fiscale è motivata – dall’Agenzia delle Entrate – dalla discrepanza tra dati contabili e quelli esposti in bilancio e nel modello Unico dell’anno sicché alcun valore può avere la contestazione relativa all’assenza di contestazioni da parte dell’Agenzia delle Dogane in ordine alla formale correttezza delle scritture contabili. La contestazione in esame riguarda discrasie analiticamente determinate dall’Agenzia delle Entrate sulla base delle verifiche dei militi della GdF, che privano del requisito della certezza, inerenza e, quindi, della loro rilevanza fiscale – in termini di detrazioni o deduzione – mancando ogni elemento probatorio dell’effettività dei costi contestati. La sintetica rappresentazione – a pag. 3 dell’avviso di accertamento impugnato – delle discrepanze riferite ad indebita deduzione di elementi negativi (ai fini Ires ed Irap) ed illegittima detrazione (ai fini I.v.a.) per svariati milioni di euro ha riguardato la verifica della documentazione acquisita presso ed alla presenza degli Amministratori Giudiziari ad opera della GdF su incarico della Procura D.D.A.- i cui militi hanno riscontrato annotazioni contabili che hanno interessato vari conti patrimoniali. Sicché la contestazione è ben specificata ed a fronte di essa, nel ricorso introduttivo, la difesa della Società viene affidata, sul punto, alla seguente testuale affermazione: “non si evince alcuna discrepanza tra i dati contenuti nel modello Unico e nel bilancio da una parte e quelli risultanti dalle scritture contabili dall’altra.”. Nel p.v.c. redatto a seguito della concessa autorizzazione, nella sezione “controlli sostanziali” vengono esposte (foglio 6) analiticamente sia gli importi delle differenze che le relative voci contabili interessate dalle rilevazioni contabili nonché le discrepanze più volte richiamate. Consegue che rispetto alla analitica contestazione, la sintetica motivazione esposta in sede di ricorso non può recare effetto beneficio in termini probatori dell’asserita erroneità della pretesa erariale che trova ulteriori e non contestate motivazioni nelle ulteriori chiarificazioni delle finalità delle appostazioni contabili. Quanto, infine, all’irrogazione delle sanzioni, la relativa determinazione appare in linea con le disposizioni introdotte con il comma 4-bis dell’art. 5 d.lgs. n. 471/1997 in ragione della fattispecie sanzionata. Le ulteriori questioni sollevate nel primo grado del giudizio e non espressamente riproposte devono intendersi rinunziate, a mente dell’articolo 346 c.p.c.».
La società RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a quattro motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
CONSIDERATO CHE
1. Il primo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione ed errata applicazione degli artt. 43, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, 56 del decreto legislativo n. 546 del 1992 e dell’art. 329 cod. proc. civ.. La sentenza impugnata era illegittima considerata la mancata impugnazione dell’Agenzia dell’Entrate del capoverso della sentenza di primo grado con cui era stato accertato il rilievo mosso con l’avviso di accertamento integrativo originante il giudizio che era fondato sulla base di documentazione già in possesso dell’Amministrazione al momento della notifica dell’accertamento «integrato», con conseguente formazione di giudicato interno sullo stesso. La documentazione in atti, inoltre, dimostrava l’assenza, nella fattispecie, dei presupposti normativamente richiesti ai fini all’emissione di un accertamento cd. «integrativo», primo fra tutti, la dimostrazione della novità degli elementi che ne erano posti a fondamento, rispetto all’atto impositivo precedentemente emesso. Come documentato dallo stesso PVC del 16 aprile 2014 la Guardia di Finanza non aveva eseguito ricerche documentali nell’ambito dei locali aziendali e non erano state, dunque, effettuate indagini sul sistema informatico della società al fine di reperire documentazione contabile ulteriore rispetto a quella già in possesso dei verificatori. Il libro giornale e il registro Iva acquisito dalla Guardia di Finanza era già in possesso dei verificatori all’esito dell’avviso di accertamento con il quale era stata contestata l’indeducibilità dei costi relativi ad acquisti di merci per operazioni soggettivamente inesistenti. Peraltro l’avviso di accertamento integrativo non indicava i presunti nuovi elementi o le circostanze attraverso le quali l’Ente impositore ne era venuto a conoscenza, né era stato allegato il PVC del 16 aprile 2014, richiamato nell’avviso di accertamento integrativo come atto contenente gli elementi nuovi.
1.1
Il motivo è infondato.
1.2 Secondo un consolidato orientamento di questa Corte, il giudicato interno può formarsi solo su un capo non impugnato della decisione, capace di comportare una parziale soccombenza della parte con conseguente necessità – appunto – della relativa impugnazione, non già su un argomento, sia pure di rilievo, posto nella sentenza impugnata a sostegno della decisione. Ed invero costituisce capo autonomo della sentenza, come tale suscettibile di formare oggetto di giudicato, anche interno, quello che risolva una questione controversa, avente una propria individualità ed autonomia, sì da integrare astrattamente una decisione del tutto indipendente; la suddetta autonomia non solo manca nelle mere argomentazioni, ma anche quando si verta in tema di un presupposto necessario di fatto che, unitamente ad altri, concorra a formare un capo unico della decisione (Cass., 4 ottobre 2018, n. 24358).
1.4 In particolare, « In tema di appello, la mancata impugnazione di una o più affermazioni contenute nella sentenza può dar luogo alla formazione del giudicato interno soltanto se le stesse siano configurabili come capi completamente autonomi, avendo risolto questioni controverse che, in quanto dotate di propria individualità ed autonomia, integrino una decisione del tutto indipendente, e non anche quando si tratti di mere argomentazioni oppure della valutazione di presupposti necessari di fatto che, unitamente ad altri, concorrano a formare un capo unico della decisione » (Cass., 15 dicembre 2021, n. 40276; Cass., 30 giugno 2022, n. 20951).
1.5 Ciò posto nel caso in esame non si è formato alcun giudicato sul «capoverso» che l’avviso di accertamento integrativo originante il giudizio era fondato sulla documentazione già in possesso dell’Amministrazione al momento della notifica dell’accertamento «integrato» e, a tal fine, è sufficiente richiamare la motivazione di rigetto del primo motivo di ricorso con il quale la società aveva rilevato la violazione dell’art. 43, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973 per l’insussistenza dei presupposti normativi richiesti per l’emissione di un accertamento integrativo, per come trascritta a pag. 9 del ricorso per cassazione: « l’avviso di accertamento impugnato ha espressamente ad oggetto le violazioni emerse a carico della società ricorrente nell’ambito del procedimento penale n. 48015 / 2008 e si fonda sull’autorizzazione al relativo utilizzo in sede fiscale concessa dall’A.G. inquirente in data 11.2.2014: tanto basta a dimostrare che l’avviso impugnato integra quello precedentemente emesso a seguito della conoscenza, acquisita dall’Agenzia delle Entrate solo per effetto del p.v.c. richiamato nell’avviso impugnato di “nuovi elementi”, ovvero delle violazioni fiscali scaturite dal citato procedimento penale. (…) Nemmeno è significativo, in senso contrario, che la documentazione analizzata dalla Guardia di Finanza coincida con quella posta a fondamento del precedente avviso di accertamento n. TEB03T100081/2013 emesso dall’Agenzia delle Dogane, atteso che, da un lato, sussiste alterità soggettiva fra Agenzia delle Dogane e Agenzia delle Entrate, dall’altro lato, i “nuovi elementi”, suscettibili di giustificare l’accertamento integrativo, non si identificano nella mera documentazione contabile della società, ma negli elementi di prova, non desumibili esclusivamente da essa ed acquisiti nel corso del procedimento penale, che hanno consentito di far emergere ulteriori violazioni fiscali. In conclusione, l’avviso impugnato risulta coerente con i presupposti per la sua emissione, così come delineati dalla giurisprudenza (…) Se poi non risulta significativo, al fine di inficiare l’avviso impugnato, il fatto che nessuna contestazione sia stata formulata dall’Agenzia delle Dogane, che non ha mai riscontrato alcuna anomalia all’interno delle scritture contabili, atteso che non è dimostrato che il suddetto Ufficio abbia condotto accertamenti in ordine ai medesimi profili che hanno generato i rilievi contenuti nell’avviso impugnato ».
1.6 Non sussiste dunque la violazione degli artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, che, come è noto, consentono all’Amministrazione di modificare un atto impositivo già emesso soltanto nell’ipotesi di sopravvenienza di nuovi elementi di
conoscenza da parte sua, ciò in deroga al principio di tendenziale unicità che connota gli accertamenti, con la conseguenza che l’accertamento integrativo, a differenza di quello parziale, non può basarsi su atti o fatti acquisiti e già conosciuti dall’ente impositore fin dall’origine ma non contestati, in quanto ciò pregiudicherebbe il diritto del contribuente ad una difesa unitaria e complessiva, a cui presidio si pone il predetto principio generale, ma deve necessariamente fondarsi su nuovi elementi atti a giustificarlo, non essendo ammissibile un accertamento a singhiozzo, senza che di essi debba darsi indicazione in modo specifico a pena di nullità (Cass., 1 ottobre 2018, n. 23685; Cass., 4 dicembre 2020, n. 27788, sempre in motivazione, e, più di recente, Cass., 22 aprile 2022, n. 12854).
1.7 Sul rapporto tra accertamento parziale ed accertamento integrativo è stato pure evidenziato che « è pacifico come la locuzione, che, aprendo le disposizioni di cui ai citati artt. 41 bis d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 d.P.R. n. 633 del 1972, fa salva l’ulteriore azione di accertamento nei termini di decadenza previsti, faccia riferimento a pretese dell’Ufficio fondate su fonti diverse da quelle prese a base dall’accertamento parziale (in tal senso, Cass., Sez. 5, 4/8/2010, n. 18065) o comunque su dati la cui conoscenza, da parte dell’Ente impositore, sia sopravvenuta all’accertamento, tali essendo anche «quelli noti ad un ufficio fiscale, ma non ancora in possesso di quello che ha emesso l’atto al momento dell’adozione dello stesso, senza che rilevi in senso contrario l’art. 33 del medesimo decreto, che pone solo un dovere di reciproca collaborazione tra uffici finanziari e Guardia di finanza», proprio in considerazione della finalità propria dello strumento dell’accertamento parziale, ossia quella di favorire la sollecita emersione della materia imponibile, che non preclude, pertanto, l’esercizio dell’ulteriore azione accertatrice, anche ove definito con adesione (sul punto Cass., Sez, 5, 22/1/2018, n. 1542; anche Cass., sez. 5, 12/05/2006, n. 11057). E ciò non in ragione
dell’applicazione degli artt. 43, quarto comma, d.P.R. n. 600 del 1973, e 57, quarto comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, in tema di accertamento integrativo, stante la non sovrapponibilità di tale istituto con quello dell’accertamento parziale, siccome dettati per diverse finalità e soggetti a differenti discipline (vedi Cass., Sez. 5, 1/10/2018, n. 23685; anche Cass. sez. 5, 28 ottobre 2015, n. 21992), bensì in applicazione del principio di tendenziale unicità che connota gli accertamenti, di cui i due strumenti previsti dagli artt. 41 bis e 43 d.P.R. n. 600 del 1973 e 54, quinto comma, e 57, quarto comma, del d.P.R. n. 633 del 1972 costituiscono deroga. Ne consegue che l’accertamento integrativo, susseguente a quello parziale, non può basarsi su atti o fatti acquisiti e già conosciuti dall’ente impositore fin dall’origine ma non contestati, in quanto ciò pregiudicherebbe il diritto del contribuente ad una difesa unitaria e complessiva, a cui presidio si pone il predetto principio generale, ma deve necessariamente fondarsi su nuovi elementi atti a giustificarlo, non essendo ammissibile un accertamento a singhiozzo, senza che di essi debba darsi indicazione in modo specifico a pena di nullità, come invece sancito dall’art. 43 del citato d.P.R. (cfr. Cass., Sez. 5, 1/10/2018, n. 23685) » (Cass., 4 dicembre 2020, n. 27788, sempre in motivazione, e, più di recente, Cass., 22 aprile 2022, n. 12854).
1.8 Ancor più di recente questa Corte ha ribadito che « L’effettuazione di un primo accertamento parziale non preclude l’esercizio dell’ulteriore azione accertatrice, anche ove definito con adesione, sempre che sia sopravvenuta la conoscenza di dati ed elementi, che sono nuovi anche se noti ad un Ufficio, ma non ancora in possesso di quello che ha emesso l’atto al momento dell’adozione dello stesso » (Cass., 24 aprile 2023, n. 10817).
1.9 La Commissione tributaria regionale ha fatto corretta applicazione dei superiori principi e, con un accertamento in fatto non sindacabile in questa sede, ha ritenuto che l’atto impugnato fosse fondato su
attività d’indagine svolte nell’ambito del procedimento penale instaurato presso la Procura del Tribunale di Napoli e che l’accertamento integrativo operato trovasse la sua legittimazione nell’autorizzazione dell’11 febbraio 2014 concessa dall’A.G. all’utilizzo in sede fiscale delle violazioni emerse nell’ambito del procedimento penale n. 48015/2008, costituenti «nuovi elementi» trasfusi nel PVC sottoscritto dai legali rappresentanti della società ricorrente.
Il secondo motivo deduce, in relazione a ll’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione ed errata applicazione degli artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 (applicabili ratione temporis ). La sentenza erroneamente aveva rigettato la doglianza con cui la società aveva rilevato la decadenza dell’Amministrazione finanziaria dall’esercizio del potere accertativo, ritenendo legittima l’applicazione dell’istituto del raddoppio dei termini e che non rilevava l’effettiva trasmissione (entro gli ordinari termini di accertamento) della notizia di reato all’Autorità competente. Come affermato dalla più recente giurisprudenza di merito, a seguito delle modifiche legislative succedutesi tra il 2016 e il 2018 (i. e. Legge di Stabilità 2016 e Decreto legislativo n. 128 del 2018) il Legislatore aveva stabilito che ai fini dell’operatività dell’istituto in esame era necessario, anche per gli atti notificati antecedentemente al 2 settembre 2015, che la notitia criminis fosse stata effettivamente inoltrata all’Autorità competente entro i termini ordinari di accertamento. Nel caso di specie non risultava essere stata mai trasmessa alcuna notitia criminis e l’avviso di accertamento originante il giudizio era stato notificato in data 11 giugno 2015.
2.1 Il motivo è solo in parte fondato.
2.2 Nella vigenza dell’assetto normativo anteriore agli interventi operati dal decreto legislativo n. 128 del 2015 e della legge n. 208 del 2015, la giurisprudenza di questa Corte si è univocamente orientata nel senso che il raddoppio dei termini previsto dall’art. 57, comma 3,
del d.P.R. n. 633 del 1972 (oltre che del raddoppio dei termini previsto dall’art. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 per le imposte sui redditi) presupponeva unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen. per uno dei reati previsti dal decreto legislativo n. 74 del 2000 e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011 (cfr. Cass., 2 luglio 2020, n. 13481).
2.3 E, tuttavia, ai fini del raddoppio dei termini per l’accertamento, il decreto legislativo n. 128 del 2015 ha stabilito che la denuncia da parte dell’Amministrazione finanziaria doveva pervenire necessariamente entro i termini sopra esposti e la successiva legge n. 205 del 1015 ha abrogato la disciplina del raddoppio dei termini, con effetto dagli avvisi relativi al periodi di imposta in corso alla data del 31 dicembre 2016 e ai periodi successivi, secondo la disciplina transitoria dettata dall’art. 132, comma 1, della legge n. 128 del 2015.
2.4 Appare, comunque, incontroverso nella giurisprudenza di questa Corte, avuto riguardo alla richiamata evoluzione normativa, che i termini di cui si discute sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano sorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi di imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, già notificati, incidano le modifiche introdotte dall’art. 1, commi da 130 a 132, della legge n. 208 del 2015, attesa, per l’appunto, la disposizione transitoria, ivi introdotta, che richiama l’applicazione dell’art. 2 del decreto legislativo n. 128 del 2015, nella parte in cui sono fatti salvi gli effetti degli avvisi già notificati (Cass., 19 dicembre 2019, n. 33793), come quello di cui si discute in questa sede, emesso in data 11 giugno 2015.
2.5 Questa Corte, inoltre, ha più volte affermato che « il raddoppio dei termini previsto dagli artt. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e
57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, nei testi applicabili “ratione temporis”, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte cost. nella sentenza n. 247 del 2011, sicché, ove il contribuente denunci il superamento dei termini di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria, deve contestare la carenza dei presupposti dell’obbligo di den uncia, non potendo mettere in discussione la sussistenza del reato, il cui accertamento è precluso al giudice tributario». Ciò comporta che non rileva neppure l’eventuale prescrizione del reato, poiché ciò che interessa è solo l’astratta configurabilità di un’ipotesi di reato, atteso il regime di doppio binario tra giudizio penale e giudizio tributario » (cfr. Cass., 10 dicembre 2021, n. 39416; Cass., 2 luglio 2020, n. 13481; Cass., 19 dicembre 2019, n. 33793; Cass., 29 giugno 2019, n. 17856; Cass., 14 maggio 2018, n. 11620; Cass., 11 aprile 2017, n. 9322).
2.6 Tanto premesso, va affermato che è estraneo al perimetro del presente giudizio lo ius superveniens , consistente nelle modifiche introdotte, dapprima, dall’art. 2, primo e secondo comma, del decreto legislativo n. 128 del 2015, che ha limitato il raddoppio dei termini di accertamento per violazioni penali solo ai casi in cui la denuncia è effettivamente presentata e trasmessa all’autorità giudiziaria entro il termine ordinario di decadenza dal potere di accertamento, e, in seguito, dall’art. 1, commi da 130 a 132, della legge n. 208 del 2015, che ha, tra le altre disposizioni, eliminato la fattispecie del raddoppio dei termini ordinari; quanto alla prima modifica, in virtù dell’apposita norma di salvaguardia prevista dall’art. 2 del decreto legislativo n. 128 del 2015, che non si applica alle violazioni punibili constatate in processi verbali notificati prima del 2 settembre 2015 e seguite dalla notifica di atti impositivi entro il 31 dicembre 2015 (quale è quello in oggetto, in cui la notifica dell’avviso di accertamento, relativo all’anno 2 008, è intervenuta
in data 11 giugno 2015); quanto alla seconda modifica, invece, il regime transitorio previsto dalla legge n. 208 del 2015, per i periodi d’imposta anteriori a quello in corso al 31 dicembre 2016 ( secondo cui il raddoppio dei termini di accertamento, quali stabiliti dal secondo periodo del comma 132, opera, nel caso delle indicate violazioni penali, solo a condizione che la denuncia penale sia presentata o trasmessa dall’Amministrazione finanziaria entro il termine stabilito nel primo periodo del medesimo comma 132) , riguarda solo le fattispecie non regolate dal precedente regime transitorio, cioè i casi in cui non sia stato notificato un atto impositivo (o di irrogazione di sanzioni), in quanto, ai sensi dell’art. 3, secondo comma, del decreto legislativo n. 128 del 2015, sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle Entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore di tale decreto (Cass., 16 dicembre 2016, n. 26037; Cass., 9 agosto 2016, n. 16728).
2.7 Ciò posto, secondo la disciplina applicabile alla fattispecie concreta, il raddoppio dei termini deriva, pertanto, dal mero riscontro di fatti comportanti « l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p. », indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l’azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o, di condanna (Cass., 30 maggio 2016, n. 11171), come ha affermato anche la Corte costituzionale (sentenza 25 luglio 2011, n. 247) precisando che l’unica condizione per il raddoppio dei termini è costituita dalla sussistenza dell’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorga ed indipendentemente dal suo adempimento, sicché « il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta
«prognosi postuma») circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’Amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento ».
2.8 La Commissione tributaria regionale ha fatto corretta applicazione delle norme come interpretate da questa Corte per quanto riguarda l’Ires e l’Iva , avendo ritenuto, a pag. 4. della sentenza impugnata, che il raddoppio dei termini di decadenza era applicabile anche alle annualità anteriori a quella pendente al momento dell’entrata in vigore delle diposizioni in esame e che l’atto impugnato era fondat o sulle attività d’indagine svolte nell’ambito d el procedimento penale già instaurato presso la Procura della Repubblica di Napoli, dovendosi, invece, rilevare che « In tema di accertamento, il c.d. “raddoppio dei termini”, previsto dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, non può trovare applicazione anche per l’IRAP, poiché le violazioni delle relative disposizioni non sono presidiate da sanzioni penali » (cfr. tra le tante Cass., 17 aprile 2024, n. 10365; Cass., 9 agosto 2022, n. 24576; Cass., 17 giugn0 2022, n. 19724; Cass. n. 10483 del 3/05/2018); nella specie, con specifico riferimento all’IRAP, è pacifico che l’avviso di accertam ento (emesso nel 2015 per l’anno d’imposta 2008) è stato emesso oltre il termine decadenziale ordinario, con conseguente intervenuta decadenza , con riferimento all’ IRAP, del potere accertativo.
3. Il terzo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la nullità della sentenza per la violazione degli artt. 61 del decreto legislativo n. 546 del 1992, 132 cod. proc. civ., 111 Cost., 2697 e 2727 cod. civ., 109 TUIR e 19 del d.P.R. n. 633 del 1972. La sentenza impugnata era nulla per avere i giudici di secondo grado confermato la contestazione in considerazione, da un lato, della presunta idoneità degli elementi indiziari addotti dall’Amministrazione e, dall’altro, del comportamento processuale della società che aveva affidato la propria difesa ad un’unica affermazione senza produrre alcuna documentazione.
In ordine al primo aspetto, come ripetutamente affermato in entrambi i gradi di merito, si ribadiva che il rilievo contenuto nell’accertamento era stato formulato e supportato sulla base esclusiva di documentazione non ufficiale, consistente in un «brogliaccio» rilasciato dall’amministratore giudiziario pro tempore appena subentrato nella carica al precedente amministratore il quale, non avendo contezza della realtà aziendale, si era limitato ad esibire ai verificatori le bozze, in assenza, dunque, di alcun accesso al sistema informatico della società. In ordine, poi al comportamento processuale tenuto dalla società, contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, erano sono stati depositati in atti sia il bilancio ufficiale depositato presso la Camera di Commercio, sia i partitari contabili, documentazione del testo già esibita nel corso della precedente verifica subita nel 2012 che dimostrava la correttezza dell’importo dedotto e l’erroneità del rilievo formulato. Non era dato avere contezza né della fonte del convincimento dei Giudici, né quali documenti, tra quelli esaminati, fossero stati considerati inattendibili. I Giudici regionali si erano limitati a recepire acriticamente le argomentazioni ex adverso richiamate a supporto della pretesa impositiva, in assenza di un vaglio critico delle compiute e documentate argomentazioni difensive. In definitiva, le conclusioni raggiunte non consentivano di comprendere sulla base di quale ragionamento giuridico il Collegio fosse giunto alla conferma della legittimità dell’operato erariale.
3.1 Il motivo è infondato perché come emerge da quanto diffusamente riportato nella parte dedicata ai fatti di causa, la motivazione dei giudici di secondo grado è sufficiente ad evidenziare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale e funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione (cfr. pagine 5 e 6 della sentenza impugnata dove si richiama pag. 3 dell’avviso di accertamento e foglio 6 del pvc)
3.2 Ed invero, la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo , quando, benché graficamente
esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., 5 luglio 2022, n. 21302; Cass., 1 marzo 2022, n. 6758).
3.3 Nel caso di specie, infatti, i giudici di secondo grado, hanno sostanzialmente affermato che l’Ufficio aveva formulato i rilievi all’esito del riscontro analitico dei dati risultanti dalla contabilità (secondo l’assunto della società ricorrente costituito da un brogliaccio rilasciato dall’amministratore giudiziario appena subentrato) con quelli emergenti dal bilancio e dalla dichiarazione modello Unico 2009 per l’anno 2008 presentata dalla stessa società, rilevando tutta una serie di incongruenze (cfr. anche pagine 38-42 del controricorso) e a fronte di detta contestazione specifica la società non aveva prodotto alcuna documentazione, né assumeva rilievo la sintetica motivazione esposta in sede di ricorso, ciò nonostante le ulteriori chiarificazioni delle finalità delle appostazioni contabili, nemmeno contestate dalla società ricorrente.
3.4 In realtà con la censura formulata la società ricorrente mira a contestare l’accertamento in fatto operato dalla Commissione tributaria regionale, insindacabile in questa sede, stante che la valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito (cfr. Cass., 19 luglio 2021, n. 20553).
3.5 Ed infatti la giurisprudenza prevalente di questa Corte è nel senso che, con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento di fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che lo scrutinio dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità,
dal momento che, nell’ ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione che ne ha fatto il giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento, e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass., 26 ottobre 2021, n. 30042; Cass., 7 aprile 2017, n. 9097; Cass., 7 marzo 2018, n. 5355).
3.6 In sede di legittimità è, poi, possibile censurare la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. solo allorché ricorra il cd. vizio di sussunzione, ovvero quando il giudice di merito, dopo avere qualificato come gravi, precisi e concordanti gli indizi raccolti, li ritenga, però, inidonei a fornire la prova presuntiva oppure qualora, pur avendoli considerati non gravi, non precisi e non concordanti, li reputi, tuttavia, sufficienti a dimostrare il fatto controverso (Cass., 13 febbraio 2020, n. 3541), evenienza che, nel caso in esame, non è stata dedotta dalla società ricorrente.
3.7 A questo riguardo, va precisato che l’apprezzamento del giudice di merito circa il ricorso alle presunzioni, la valutazione della ricorrenza dei requisiti di gravità (che si riferisce al grado di convincimento che le presunzioni sono idonee a produrre nel senso che l’esistenza del fatto ignoto dev’essere desunta con ragionevole certezza, anche probabilistica), precisione (che impone che i fatti noti, da cui muove il ragionamento probabilistico, ed il percorso che essi seguono non siano vaghi ma ben determinati nella loro realtà storica) e concordanza (che postula che la prova sia fondata su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto) richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, la scelta dei fatti noti che costituiscono la base della presunzione e il giudizio logico con cui si deduce l’esistenza del fatto ignoto sono riservati al giudice di merito, rimanendo il sindacato del giudice di legittimità circoscritto alla verifica
della tenuta della relativa motivazione, nei limiti segnati dall’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ. (cfr. Cass., 17 gennaio 2019, n. 1234; Cass., 23 gennaio 2006, n. 1216), censura che, nel caso in esame, è inammissibile per violazione dell’art. 348 ter , ultimo comma, cod. proc. civ., stante il rigetto dell’appello principale statuito dalla Corte di merito e non avendo la parte attuale ricorrente specificato in ricorso le ragioni di fatto poste rispettivamente a fondamento della decisione di primo e di secondo grado, così dimostrando che esse sono tra loro diverse (cfr. Cass., 11 maggio 2018, n. 11439; Cass., 26 gennaio 2021, n. 1562; Cass., 9 marzo 2022, n. 7724).
3.8 Né sussiste la violazione dell’art. 2697 cod. civ., che si configura quando il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l ‘onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di ripartizione basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass., 23 ottobre 2018, n. 26769).
3.9 In ultimo va precisato che « Ai fini della detrazione dell’IVA ex art 19 del D.P.R. n. 633 del 1972, e della deduzione di un costo dalla base imponibile ai sensi dell’art. 109 del d.P.R. n. 917 del 1986, la deducibilità di costi e oneri richiede la loro inerenza all’attività di impresa, da intendersi come necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea a essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità – anche solo potenziale e indiretta – secondo una valutazione qualitativa e non quantitativa, la cui prova, a fronte di contestazioni dell’Amministrazione finanziaria, è a carico del contribuente, dovendo egli provare e documentare l’imponibile maturato e, quindi, l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto di impresa perché in correlazione con l’attività di impresa e
non ai ricavi in sé » (Cass., 1 giugno 2023, n. 15530; Cass., 16 marzo 2022, n. 8646).
4. Il quarto motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 5 e 6 del decreto legislativo n. 472 del 1997. La sentenza impugnata era viziata per avere i giudici di secondo grado rigettato la doglianza con cui la società aveva rilevato l’illegittimità delle sanzioni irrogate, essendo del tutto assenti i presupposti previsti dalla legge ai fini dell’irrogazione della sanzione amministrativa. La violazione sanzionata, al pari di quanto avvenuto con l’accertamento emesso per la stessa annualità e per quelle precedenti, costituiva l’automatica conseguenza del modus accertandi dell’Amministrazione finanziaria, che, con l’avviso emesso nei confronti della cedente RAGIONE_SOCIALE per l’annualità 2002, non solo aveva accertato il presunto credito inesistente indicato dalla stessa, ma aveva, altresì, azzerato il relativo importo confluito nelle dichiarazioni dei redditi inerenti i periodi d’imposta successivi, determinando l’automatica contestazione non solo degli utilizzi in compensazione del medesimo credito da parte della società cedente ma, altresì, dell’insistenza delle reali operazioni commerciali poste in essere nelle annualità successive, tra le quali quella di cui era causa. Nella fattispecie, non risultava imputabile alla società alcun tipo di responsabilità fiscale . L’operato dell’Ufficio si poneva in contrasto con il principio del ne bis in idem in quanto, acclarata la natura sostanzialmente penale delle sanzioni tributarie, lo stesso soggetto non poteva essere punito più di una volta per il medesimo fatto di reato.
4.1 La censura è inammissibile per la novità della questione dedotta, che non risulta dal provvedimento impugnato, rilevandosi, sul punto, il ricorso privo di autosufficienza perché non rispettoso del noto principio secondo cui « Qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorso deve, a pena di inammissibilità, non solo allegare l’avvenuta loro
deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto in virtù del principio di autosufficienza del ricorso » (Cass., 9 luglio 2013, n. 17041; Cass., 9 agosto 2018, n. 20694; Cass., 13 giugno 2018, n. 15430; Cass., 13 agosto 2018, n. 20712).
4.2 Nel giudizio di cassazione, infatti, non si possono prospettare nuove questioni di diritto ovvero nuovi temi di contestazione che implichino indagini e accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito, nemmeno se si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (Cass., 13 giugno 2018, n. 15430) e, in quest’ottica, il ricorrente ha l’onere di riportare, a pena d’inammissibilità, dettagliatamente in ricorso gli esatti termini della questione posta al giudice di merito (Cass., 9 luglio 2013, n. 17041).
4.3 La censura è pure inammissibile per difetto del requisito dell’attinenza della censura alla ratio decidendi della sentenza impugnata, laddove i giudici di secondo grado hanno affermato che « Quanto, infine, all’irrogazione delle sanzioni, la relativa determinazione appare in linea con le disposizioni introdotte con il comma 4bis dell’art. 5 d.lgs. n. 471/1997 in ragione della fattispecie sanzionata » e poiché questa affermazione che, integra un’autonoma ratio decidendi ed è idonea a sorreggere di per sé sola la decisione sul punto, non è stata fatta oggetto di alcuna contestazione, ne deriva, come questa Corte ha più volte osservato, che la società ricorrente non ha interesse a dolersi del profilo qui impugnato, poiché, quand’anche se ne riscontrasse la fondatezza, l’impugnata decisione si suffragherebbe pur sempre in base all’affermazione non censurata (Cass., 18 giugno 2019, n. 16314; Cass., 12 ottobre 2007, n. 21431; Cass., Sez. U., 8 agosto 2005, n. 16602).
Per quanto esposto, va accolto parzialmente il secondo motivo con riferimento alla sola Irap e vanno rigettati i restanti motivi; la sentenza impugnata va cassata in relazione alla parte del secondo motivo accolto
e, decidendo nel merito, va accolto il ricorso introduttivo della lite limitatamente all’IRAP.
5.1 In ragione dell’esito della lite le spese dei giudizi di merito vanno interamente compensate fra le parti, mentre le spese del giudizio di legittimità vanno compensate nella misura del 25% e per la restante parte, pari al 75%, la società ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla Agenzia controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte accoglie parzialmente il secondo motivo del ricorso, nei limiti di cui in motivazione, e rigetta i restanti motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione alla parte del motivo accolto e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo della lite limitatamente all’IRAP; compensa interamente fra le parti le spese dei giudizi di merito; compensa le spese del giudizio di legittimità nella misura del 25% e condanna la società ricorrente al pagamento la società ricorrente al pagamento, in favore dell ‘Agenzia controricorrente , della restante parte, pari al 75%, che liquida in euro 18.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2024.