Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 14493 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 14493 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 30/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’ avv. NOME COGNOME e con elezione di domicilio digitale all’indirizzo pec:
EMAIL;
– ricorrente
–
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato ; – controricorrente –
Avverso la sentenza n. 2890/2016 pronunciata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia in data 11 maggio 2016, depositata il 16 maggio 2016.
cui è riunito il ricorso di cui al n. R.G. 30270/2017, fra le stesse parti, con la costituzione di NOME COGNOME difeso dall’ avv. NOME COGNOME proposto avverso la sentenza n. 2309/2017 resa dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia depositata in data 24 maggio 2017.
Raddoppio, inerenza
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16 aprile 2025 dal consigliere NOME COGNOME
RILEVATO IN FATTO
1. Con apposito avviso l’Agenzia delle entrate accertava a carico del contribuente COGNOME NOME COGNOME un maggior reddito per € 7.912 derivante da deduzione di costi non inerenti per l’acquisto di opere letterarie e per € 162.000 da deduzione di costi (risarcimento) non inerenti all’attività professionale svolta, siccome da considerarsi specificamente relativi a transazione stragiudiziale.
La CTP accoglieva il ricorso riconoscendo la sussistenza di un vizio di notifica dell’atto impositivo.
La CTR, adìta in sede d’appello dall’Agenzia, accoglieva con sentenza n. 2890/2016 – il gravame e riformava la sentenza di primo grado, ritenendo sanata la nullità della notifica e non decaduta l’amministrazione dalla potestà impositiva (da cui la dichiarazione di legittimità dell’impugnato avviso di accertamento) ; ravvisava l’ infondatezza nel merito delle pretese del citato contribuente circa l’inerenza dei costi, in quanto non dimostrate.
Il COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi, mentre l’Agenzia delle entrate ha resistito a mezzo di controricorso. Avverso la medesima sentenza qui impugnata, il contribuente proponeva sempre davanti alla CTR ricorso per revocazione, basato sulla circostanza per cui l’oggetto della lite non sarebbe mai consistito nella sussistenza o meno dell’accordo transattivo oggetto della ripresa, che dunque non costituiva fatto controverso.
Tale ultimo ricorso veniva respinto dalla stessa CTR con la sentenza n. 2309/2017, per cui il contribuente ha formulato ricorso in cassazione pure avverso questa pronuncia, sulla scorta di due motivi.
Anche con riferimento a questo ricorso l’Agenzia ha resistito con controricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.Va pregiudizialmente disposta la riunione dei due procedimenti in applicazione analogica delle previsioni di cui all’art. 335 cod. proc. civ., avendo il primo ricorso ad oggetto il gravame proposto avverso la stessa sentenza di cui è stata chiesta la revocazione ex art. 395 cod. proc. civ. col ricorso definito a mezzo della sentenza rispetto alla quale si invoca la cassazione col secondo ricorso in cassazione.
Procedendo in ordine logico co n l’esame dei motivi avverso la sentenza che ha rigettato la domanda di revocazione della pronuncia n. 2890/2016 della CTR lombarda, va osservato quanto segue.
Col primo motivo si censura la sentenza per omesso esame di un fatto decisivo, costituito dalla circostanza per cui oggetto del contendere non fosse stata l’inesistenza o la fittizietà dell’accordo transattivo, ma semmai l’inerenza degli oneri derivanti dall’accordo medesimo.
Col secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in quanto i giudici della revocazione avrebbero omesso di pronunciarsi sul punto cruciale della domanda, cioè il supposto errore di fatto già sopra evidenziato.
Il ricorso avverso la sentenza che rigetta la domanda di revocazione è inammissibile.
I giudici della revocazione hanno ravvisato, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso in quanto la revocabilità della sentenza nel processo tributario sarebbe ammessa, ai sensi dell’art. 64, d.lgs. n. 546/1992, solo avverso pronunce non impugnabili o non impugnate, richiamando in proposito una decisione di questa Corte (Cass. n. 11596/2007).
Come nota lo stesso ricorrente, con ciò la CTR riprende quanto dedotto dalla difesa erariale nelle proprie controdeduzioni in ordine
all’inammissibilità del ricorso per la contemporanea proposizione da parte del contribuente del ricorso in cassazione.
Orbene, ove il giudice, dopo avere ravvisato l’inammissibilità di una domanda, in tal modo spogliandosi della “potestas iudicandi”, abbia ugualmente proceduto all’esame nel merito, le relative argomentazioni devono ritenersi ininfluenti ai fini della decisione e, quindi, prive di effetti giuridici, di modo che la parte soccombente non ha l’onere né l’interesse ad impugnarle, essendo tenuta a censurare soltanto la dichiarazione d’inammissibilità, la quale costituisce la vera ragione della decisione (cfr. Cass. n. 11675/2020 e Cass. n. 27388/2022).
L’esame del merito, dunque, in effetti dipoi sinteticamente svolto dalla CTR, avveniva dopo che il giudice si era ormai spogliato, con il rilievo in rito, della relativa potestas iudicandi.
Con nessuno dei due motivi il ricorrente censura specificamente la sentenza sotto il profilo dell’unica effettiva ratio decidendi , costituita appunto dalla ritenuta inammissibilità nella specie del rimedio revocatorio, e non certo in tal senso assume rilievo la doglianza inerente all’omessa pronuncia sul merito, oggetto del secondo motivo, che altro non è se non la conseguenza della definizione in rito (peraltro il merito, senza che qui occorra verificare la consistenza delle motivazioni e delle argomentazioni rese in proposito, è stato -seppur solo ad abundantiam -affrontato come già detto).
Venendo ora al l’antecedente ricorso in cassazione proposto contro la sentenza della CTR n. 2890/2016, col primo motivo si deduce violazione di legge e omesso esame di un fatto decisivo, con particolare riguardo alla violazione degli artt. 43, comma 3, d.P.R. n. 600/1973; 32 e 58, d.lgs. n. 546/1992.
6.1. Va premesso che le questioni oggetto del presente motivo attengono all’IRES, mentre quanto all’IRAP la relativa disamina va rinviata nell’ambito del sesto motivo.
Ciò detto, in sintesi il motivo è incentrato sulla rilevanza o meno della denuncia penale operata dall’Ufficio, e sulla tempestività della relativa produzione.
Orbene l’avviso di accertamento in esame, riferito all’anno 2008, è stato notificato in data 2 gennaio 2014.
Come noto, fino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 128/2015, e dunque in base alla previgente disciplina, il raddoppio dei termini per l’accertamento della pretesa impositiva dipendeva esclusivamente dall’astratta sussistenza dei presupposti in presenza dei quali si configura in capo al pubblico ufficiale l’obbligo della denuncia penale, a mente dell’art. 331 cod. proc. pen. (in tal senso essendosi adeguata la giurisprudenza di legittimità al dictum della Corte Costituzionale n. 247 del 2011).
Sotto tale profilo risulta, quindi, del tutto irrilevante la data di presentazione effettiva della denuncia all’autorità penale, mentre assumono rilievo solo i presupposti per la denuncia stessa, non spettando peraltro al pubblico ufficiale di verificare la presenza dell’elemento soggettivo, di scusanti od altro che non sia costituito dalla presenza dei meri elementi oggettivi, nella specie costituiti dall’ingiustificata presenza di somme presso un istituto di credito posto in stato all’epoca a fiscalità privilegiata.
Sulla disciplina del raddoppio dei termini (sia quelli stabiliti in materia d’imposte dirette, di cui all’art. 43, d. P.R. n. 600/1973, che di quelli stabiliti in materia di i.v.a., dall’art. 57, d. P.R. n. 633/1972) è poi intervenuto dapprima il d.lgs. n. 128/2015, che dettava una disciplina transitoria, facendo salva la previgente disciplina per gli accertamenti notificati entro la data di entrata in vigore della disposizione stessa (2 settembre 2015) e, successivamente, è sopravvenuta la legge 28 dicembre 2015 n. 208 che, espunta definitivamente la previsione del raddoppio dei termini pro futuro , all’art. 1, comma 132, recava a sua volta una regolamentazione transitoria in base alla quale la nuova disciplina,
imperniata sulla previsione di un termine più lungo ma specifico per le ipotesi di reato, non ha efficacia retroattiva ma si applica a decorrere dai periodi di imposta in corso alla data del 31 dicembre 2016. Per i periodi antecedenti, tale ultima disciplina disponeva che il raddoppio dei termini si applicasse nei soli casi in cui la denuncia penale fosse stata inviata entro e non oltre la scadenza del termine ordinario non raddoppiato.
La norma transitoria, contenuta nell’art. 1, comma 132, della l. n. 208/2015, nulla ha innovato rispetto all ‘ applicabilità di quella, del pari transitoria, di cui all’art. 2, comma 3, del d.lgs. n.128 del 2015, la quale fa salvi, a prescindere dalla data di presentazione della denuncia, gli effetti degli avvisi già notificati alla data di entrata in vigore del decreto legislativo (2 settembre 2015) (Cass. n. 16728/2016; Cass. n. 33793/2019).
Tanto si ricava dalla disposizione del comma 132 in discorso, dal momento che lo stesso non abroga l’altra disciplina, la quale a differenza di questa, fa espresso riferimento agli avvisi di accertamento notificati. Le norme dunque non sono sovrapponibili, ma disciplinano procedimenti differenti, qualificati appunto l’uno dall’essere l’avviso stato notificato entro la data di entrata in vigore, l’altro (per differenza) dal non esserlo stato, entrambi riferiti a pregresse annualità d’imposta (per le quali solo continua a vigere il regime del raddoppio dei termini).
Va dunque affermato il principio di diritto secondo cui ‘ in tema di raddoppio dei termini della potestà accertativa di cui all’art. 43, d.p.r. n. 600/1973, la relativa previsione è stata abrogata dalla l. n. 208/2015, con effetto dall’anno d’imposta in corso al 31 dicembre 2016; peraltro, qualora gli avvisi di accertamento, relativi a periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, non siano stati ancora notificati alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 128/2015 (2 settembre 2015), si applica la disciplina dettata dal comma 132 dell’art. 11. 208/15, e pertanto il
termine per l’esercizio del potere di accertamento resta raddoppiato ma dev’essere ragguagliato alla data di comunicazione della notitia criminis. Ne consegue che ove quest’ultima non venga effettuata nei termini ordinari di accertamento, non si ha luogo al raddoppio dei termini. Qualora, invece, gli avvisi di accertamento anteriori siano stati già notificati al 2 settembre 2015, si applica la disciplina dettata dall’art. 2 del d.lgs. 128/15, e pertanto occorre far riferimento alla pregressa disciplina, per cui il termine viene raddoppiato indipendentemente dalla formale notitia criminis’ .
Nella specie dunque, per quanto premesso, la denuncia penale e la relativa data risultano del tutto irrilevanti, essendo appunto la notifica dell’avviso intervenuta il 2 gennaio 2014 (quindi ben prima del 2 settembre 2015).
Col secondo motivo si deduce violazione dell’art. 140 cod. proc. civ.
7.1. Pur nel suo svolgimento non chiarissimo, il motivo sottopone in sostanza – a critica la pronuncia impugnata nella parte in cui con essa si ritiene applicabile all’avviso di accertamento il principio espresso dall’art. 156 cod. proc. civ., relativo alla sanatoria degli atti processuali per raggiungimento dello scopo.
In proposito va ricordato che la natura sostanziale e non processuale dell’avviso non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria; sicché il rinvio disposto dall’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 (in materia di notificazione dell’avviso di accertamento) alle norme sulle notificazioni nel processo civile, comporta, in caso di nullità della notificazione stessa, l’applicazione dell’istituto della sanatoria per raggiungimento dello scopo, di cui all’art. 156 c.p.c. (Cass. n. 27561/2018 e Cass. n. 6417/2019 ). Giova, inoltre, ribadire che ‘la tempestiva proposizione del ricorso del contribuente avverso la cartella di pagamento produce l’effetto di sanare ex tunc la nullità
della relativa notificazione, per raggiungimento dello scopo dell’atto ex artt. 156 e 160 c.p.c.’ (Cass. n. 27326 /2024; in tema di impugnazione di atti impositivi v. Cass. n. 6678/2017).
Il motivo è, pertanto, infondato.
Col terzo motivo si denuncia omesso esame di un fatto decisivo, attinente alla questione relativa alla non applicabilità della disciplina transitoria prevista dal d.lgs. n. 128/2015.
8.1. Il motivo è inammissibile prima ancora che assorbito, dal momento che confonde l’esame di una questione giuridica, qual è quella dedotta col motivo (appunto assorbita dal rigetto del primo motivo), con l’omesso esame di un fatto storico, oggetto del vizio delineato dal n. 5 del primo comma dell’art. 360, cod. proc. civ., oggetto della denuncia da parte del contribuente.
Col quarto motivo si denunciano tutti i profili contemplati dall’art. 360, primo comma, cod. proc. civ. , con riferimento ai vizi di cui ai nn. 3, 4 e 5.
9.1. Il motivo esordisce ritenendo che onere del contribuente cui sia contestata l’inerenza dei costi dedotti non consista nella relativa dimostrazione (ormai pacifica) ma nella prova appunto che gli stessi fossero inerenti all’attività svolta.
In realtà la decisione è proprio basata sulla ritenuta assenza di prova in ordine all’inerenza, che come è noto – va dimostrata dal contribuente.
Infatti quanto alla transazione, in ordine alla contestazione di non inerenza in quanto si sarebbe trattato di un ‘affare di famiglia’ essendo la consulenza rivolta al fratello del contribuente e sarebbe consistita in una mera segnalazione di affare, la CTR osserva come il contribuente non abbia offerto prova dell’inerenza, difettando la dimostrazione che ‘il supposto risarcimento del danno eseguito dal contribuente sia dipendente dalla sua attività professionale’, in particolare facendo riferimento alla corrispondenza ‘colloquiale’ col fratello e alla mancanza di incarichi formali, confutandosi poi la
rilevanza del documento 12 (ritenuto privo di prova del relativo autore, data di formazione, inserimento nell’attività professionale, e costituirebbe un report privo di professionalità), mentre la documentazione firmata da tale COGNOME costituirebbe null’altro che l’attestazione che il fratello e la cognata avrebbero chiesto al contribuente il risarcimento.
Tali elementi da un lato dimostrano come la CTR abbia invece esaminato le prove da cui il contribuente voleva trarre la prova dell’inerenza, ritenendole insufficienti in base ad un accertamento di fatto certamente non censurabile in questa sede; e dall’altro superando anche l’ulteriore contenuto del motivo, che , in effetti, censura la sentenza sotto il profilo motivazionale, poiché appunto come si ricava da quanto precede – la CTR ha chiarito le ragioni della ritenuta non inerenza.
Anche tale motivo è, dunque, infondato.
Col quinto motivo si deduce violazione di legge e omesso esame di un fatto decisivo con riferimento alle spese relative all’acquisto di opere letterarie.
10.1. Anche in questo caso la censura, pur rivolta all’altra voce di costo disconosciuta, si riferisce in realtà a un difetto di motivazione.
Anche tale motivo è, però, infondato, perché anche qui la CTR osserva che ‘il contribuente ha affermato che trattasi di opere letterarie esposte in studio e pertanto riconducibili a spese di rappresentanza’, e in ordine alla prova rileva che ‘le affermazioni del contribuente non hanno trovato alcun conforto probatorio’.
L’affermazione secondo cui nell’avviso di accertamento non sarebbe posto in discussione che le opere fossero esposte nello studio non trova alcun elemento di supporto: non viene, infatti, indicato dove, ed in quale punto, l’avviso di accertamento indicherebbe che le opere in argomento sarebbero ‘esposte’ nello studio del contribuente, né diversamente in quale atto la difesa dell’Agenzia
abbia ammesso tale circostanza, e ciò soprattutto a fronte di un accertamento in fatto svolto dal giudice del merito, che non può essere rimesso in discussione, tanto più che lo specifico elemento probatorio che sarebbe rimasto trascurato, come fatto storico, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 5), cod. proc. civ., doveva essere specificamente identificato, se mai rilevante.
Col sesto motivo, infine, si deduce violazione di legge in quanto l’IRAP costituirebbe un tributo non ‘penalmente rilevante’.
11.1. Di là dall’impropria espressione della rubricazione del motivo, è certo che le violazioni relative all’imposta in oggetto non assumono rilevanza penale, per cui non può ritenersi applicabile la disciplina del raddoppio dei termini.
In relazione a ciò va, dunque, rilevato che il rilievo omnicomprensivo svolto dal contribuente fin dal primo grado merita accoglimento.
In definitiva il ricorso per cassazione va accolto con riguardo al solo sesto motivo, respinti gli altri, con rinvio al giudice d’appello (limitatamente alla doglianza ritenuta fondata) che provvederà a regolare anche le spese del presente giudizio.
Con riferimento al ricorso avverso la sentenza di rigetto della domanda di revocazione lo stesso dev’essere dichiarato inammissibile e per esso -risultando l’inerente giudizio definitivamente concluso – deve disporsi la condanna alle spese (liquidate come in dispositivo) in capo al ricorrente, in quanto soccombente.
Sussistono, in dipendenza di tale esito giudiziale, anche i presupposti processuali per dichiarare l’obbligo -a carico del COGNOME – di versare, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. 24 dicembre 2012, n. 228, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso avverso la sentenza n. 2309/2017, condannando il ricorrente al pagamento dei compensi che liquida in € 5.600 ,00, oltre spese prenotate a debito.
Dichiara, in relazione a tale ricorso, la sussistenza dei presupposti processuali per l’obbligo, a carico del ricorrente, di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto.
Accoglie il sesto motivo del ricorso avverso la sentenza n. 2890/2016 e rigetta tutti i restanti.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di 2^ grado della Lombardia che, in diversa composizione, provvederà a regolare anche le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 16 aprile 2025