Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 19921 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 19921 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 17/07/2025
Processo tributarioArt. 27, comma 2, d.l. n. 137 del 2020 -Istanza di discussione della causaNotificazione alla controparteNecessità
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8022/2022 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, COGNOME, rappresentati e difesi, giusta procura speciale allegata al ricorso, dall’ avv. NOME COGNOME;
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis ;
-controricorrente – per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia n. 7922/2021 depositata in data 14/09/2021, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/06/2025 dal relatore consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
L’Agenzia delle entrate, Direzione provinciale di Palermo, emetteva avviso di accertamento nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE di COGNOME RAGIONE_SOCIALE recuperando Irap e Iva per l’anno d’imposta 2006 nonché avvisi di accertamento a fini Irpef nei confronti dei due soci NOME COGNOME e NOME COGNOME; l’ accertamento nasceva dalla mancata presentazione di alcuna dichiarazione fiscale e dalla emissione nei confronti dello IAL Cisl Sicilia, da parte della società rilevatasi una mera cartiera, di fatture fittizie pari a complessivi € 643.245,88 .
La Commissione tributaria provinciale di Palermo rigettava il ricorso proposto dalla società e dai soci.
La Commissione tributaria regionale della Sicilia rigettava l’appello .
Contro tale decisione propongono ricorso per cassazione la società nonché i soci sulla base di quattro motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.
Il ricorso è stato fissato per l’adunanza del 20/06/2025, per il quale i ricorrenti hanno depositato memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 27, comma 2, d.l. n. 137 del 2020, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., invocando la nullità della sentenza o del procedimento per mancato svolgimento della pubblica udienza a fronte di istanza di parte.
1.1. In diritto si osserva che nel caso in esame trova applicazione l’art. 27 del d.l. 28 ottobre 2020 n. 137 (recante «Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle
imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19»), conv. con modificazioni con l. 18 dicembre 2020 n. 176, secondo cui «Fino alla cessazione degli effetti della dichiarazione dello stato di emergenza nazionale da Covid-19, ove sussistano divieti, limiti, impossibilità di circolazione su tutto o parte del territorio nazionale conseguenti al predetto stato di emergenza ovvero altre situazioni di pericolo per l’incolumità pubblica o dei soggetti a vario titolo interessati nel processo tributario, lo svolgimento delle udienze pubbliche e camerali e delle camere di consiglio con collegamento da remoto è autorizzato, secondo la rispettiva competenza, con decreto motivato del presidente della Commissione tributaria provinciale o regionale da comunicarsi almeno cinque giorni prima della data fissata per un’udienza pubblica o una camera di consiglio….» (comma 1). Il successivo comma 2 stabilisce che «In alternativa alla discussione con collegamento da remoto, le controversie fissate per la trattazione in udienza pubblica, passano in decisione sulla base degli atti, salvo che almeno una delle parti non insista per la discussione, con apposita istanza da notificare alle altre parti costituite e da depositare almeno due giorni liberi anteriori alla data fissata per la trattazione. I difensori sono comunque considerati presenti a tutti gli effetti. Nel caso in cui sia chiesta la discussione e non sia possibile procedere mediante collegamento da remoto, si procede mediante trattazione scritta, con fissazione di un termine non inferiore a dieci giorni prima dell’udienza per deposito di memorie conclusionali e di cinque giorni prima dell’udienza per memorie di replica. Nel caso in cui non sia possibile garantire il rispetto dei termini di cui al periodo precedente, la controversia è rinviata a nuovo ruolo con possibilità di prevedere la trattazione scritta nel rispetto dei medesimi termini. In caso di trattazione scritta le parti sono considerate presenti e i provvedimenti si intendono comunque assunti presso la sede dell’ufficio».
La citata normativa emergenziale autorizza, in un contesto di divieti e limitazioni che non consentono l’udienza in presenza, lo svolgimento dell’udienza da remoto prevedendo una disciplina alternativa, in caso di carenze organizzative all’interno degli uffici che impediscano il collegamento, rimessa non alla parte ma al governo del giudice e finalizzata ad assicurare lo svolgimento dell’attività giudiziaria in modo da garantire comunque le essenziali prerogative del diritto di difesa. Si è introdotto, quindi, un sistema di «congegni di sostituzione» (Cass. n. 33175/2021) dell’udienza pubblica di discussione prevedendosi, in prima battuta, la possibilità di svolgimento mediante collegamento da remoto (primo comma) e «in alternativa», la possibilità di decisione «sulla base degli atti» (secondo comma), lasciandosi all’iniziativa della parte la possibilità di insistere per la discussione, con la previsione, ove non sia possibile il collegamento da remoto, della «trattazione scritta» che, secondo la norma emergenziale, è da considerarsi «equivalente» all’udienza, atteso che «le parti sono considerate presenti». Sebbene la trattazione scritta, nonostante la richiesta della parte di discussione in pubblica udienza o con collegamento a distanza, sia legittima, ove carenze organizzative all’interno dell’ufficio impediscano il collegamento da remoto (Cass. n. 6033/2023), la decisione del giudice di disporla deve esplicitare le ragioni organizzative che hanno giustificato tale scelta (Cass. n. 594/2024), perché la regola rimane quella dell’udienza (Cass. n. 33175/2021).
1.2. Nel caso di specie, il motivo è inammissibile, in quanto i ricorrenti deducono di aver (solo) depositato l’istanza di discussione, nel termine previsto di almeno due giorni prima della data fissata per la trattazione, ma non anche di averla notificata alla controparte, come pure previsto dalla citata disposizione, così non compiutamente allegando di aver posto in essere tutti i presupposti del richiesto rinvio.
Anche nel meccanismo previsto dal citato art. 27, comma 2, la notifica dell’istanza di discussione alla controparte è infatti necessaria, dovendosi fare applicazione dell’elaborazione giurisprudenziale riferita all’analoga previsione dell’art. 33 d.lgs. n. 546 del 1992 su cui recentemente questa Corte ha affermato il seguente principio di diritto «In tema di contenzioso tributario, la richiesta di discussione in pubblica udienza di cui all’art. 33 d.lgs. n. 546 del 1992 – che la parte può avanzare nel termi ne di cui all’art. 32, comma 2, d.lgs. cit., nel ricorso introduttivo o nelle controdeduzioni come anche in ulteriori memorie -deve essere notificata a cura dell’istante alle parti costituite, non essendo sufficiente il mero deposito» (Cass. n. 34194/2024, ribadendo i principi di Cass. n. 27162/2011, Cass. n. 14392/2011, Cass. n. 10678/2009).
2. Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., dell’art. 12, comma 7, della legge n. 212/2000, nonché dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea in merito alla nullità dell’avviso di accertamento per difetto del contraddittorio preventivo. Richiamati i principi esposti da questa Corte a Sezioni unite, i ricorrenti evidenziano che nel caso di specie i giudici d’appello hanno ignorato del tutto che l’avviso di accertamento aveva ad oggetto non soltanto imposte dirette ma anche Iva in riferimento alla quale vige l’obbligo di contraddittorio endoprocedimentale a pena di nullità dell’atto, obbligo che nel caso di ripresa congiunta si estende anche alle imposte dirette; evidenziano inoltre che, contrariamente a quanto statuito dai giudici di appello, essi avrebbero assolto l’onere di fornire la cosiddetta prova di resistenza evidenziando che il provvedimento accertativo avrebbe dovuto portare a conclusioni differenti alla luce degli argomenti che si sarebbero potuti esprimere nel corso del contraddittorio con l’Agenzia che avrebbero permesso di dimostrare all’ufficio l’estraneità degli stessi alle condotte
contestate e l’effettivo coinvolgimento del solo NOME COGNOME nella emissione delle fatture fittizie.
2.1. Il motivo è inammissibile.
Sul punto la Commissione tributaria regionale ha ribadito i principi in tema di contraddittorio preventivo di cui a Cass. Sez. U. n. 24823/2015 per cui i n tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, non sussiste per l’Amministrazione finanziaria alcun generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini Irpeg e Irap, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale, mentre per i tributi armonizzati l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa.
La CTR ha quindi correttamente evidenziato che l’obbligo del contraddittorio non sussisteva per le imposte dirette mentre per quanto riguarda l’Iva la parte non aveva assolto all’onere di enunciare in concreto eventuali ragioni che avrebbe potuto far valere nel preventivo procedimento amministrativo.
A fronte di tale affermazione, inerente alla lettura degli atti processuali, il motivo di ricorso, con un primo profilo di censura, si limita a ribadire gli incontestati principi esposti dalle Sezioni Unite di questa Corte, mentre, sotto un secondo profilo, evidenzia, ma in maniera del tutto generica, che se il contraddittorio fosse stato garantito essi avrebbero potuto far valere le proprie ragioni, omettendo del tutto di indicare quali siano tali ragioni e soprattutto in quale atto processuale tale deduzione sia stata formulata, con ciò di fatto neanche
confrontandosi con l’affermazione della Corte di giustizia di secondo grado, che aveva appunto negato che ciò fosse avvenuto.
Con il terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., dell’art. 43, d.P.R. n. 600 del 1973, in merito alla ritenuta decadenza dell’Agenzia delle entrate per decorrenza dei termini per l’accertamento ai fini dell’imposta sul reddito di impresa ed in relazione all’Iva e alla inapplicabilità dell’istituto del raddoppio dei termini per l’accertamento ai fini Irap.
3.1. Il motivo è fondato in parte.
Sul punto la Commissione tributaria regionale ha evidenziato la insussistenza di alcuna violazione dell’art. 43 predetto evidenziando che i verbalizzanti hanno contestato l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, fattispecie penale disciplinata dall’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000, e che non esiste alcun obbligo da parte dell’amministrazione di allegare la denuncia penale all’avviso di accertamento.
3.2. L’art. 43 d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo vigente ratione temporis , prevede che «in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione».
Come più volte chiarito da questa Corte, anche sulla scorta dei principi enunciati da Corte Cost. n. 247 del 2011, il raddoppio opera in presenza di tale presupposto astratto, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denunzia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo (Cass. n. 17586/2019; Cass. n. 22337/2018; Cass. n. 11171/2016), non rilevando «né l’esercizio dell’azione penale da parte del p.m., ai sensi dell’articolo 405 c.p.p.,
mediante la formulazione dell’imputazione, né la successiva emanazione di una sentenza di condanna o di assoluzione da parte del giudice penale, anche in considerazione del doppio binario tra giudizio penale e procedimento e processo tributario» (Cass. n. 9974/2015).
Anche in caso di eventuale prescrizione del reato, questa Corte ha già chiarito che «ai fini del raddoppio dei termini previsti dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, nella versione applicabile ratione temporis, rileva unicamente la sussistenza dell’obbligo di presentazione di denuncia penale, a prescindere dall’esito del relativo procedimento e nonostante l’eventuale prescrizione del reato, poiché ciò che interessa è solo l’astratta configurabilità di un’ipotesi di reato» (Cass. n. 9322/2017).
Ciò naturalmente non rende di per sé legittimo qualunque accertamento compiuto dall’Amministrazione finanziaria oltre il termine-base fissato dalla legge, dovendo al contrario essere evitato, come chiarito dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 247 del 2011, un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni in esame al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento.
Per verificare l’uso pretestuoso del raddoppio dei termini «il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità», con la precisazione però che «il correlativo tema di prova – e, quindi, l’oggetto della valutazione da effettuarsi da parte del giudice tributario – è circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale e non riguarda l’accertamento del reato» (p. 5.3. della sentenza della Corte costituzionale).
La CTR con accertamento in fatto ha quindi ritenuto sussistenti gli estremi di reato poiché i verbalizzanti avevano contestato l’emissione di fatture per operazioni inesistenti e cioè per un fatto punito dalla legge penale, art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000, e che l’evasione di imposta era oltre soglia, e ha altresì correttamente ritenuto che nel predetto quadro normativo non occorresse l’allegazione della denuncia all’avviso di accertamento.
Tuttavia, deve rilevarsi che il raddoppio dei termini di accertamento non opera con riferimento all’Irap posto che, non essendo questa un’imposta per la quale siano previste sanzioni penali, è evidente che in relazione alla stessa non operi la disciplina del raddoppio dei termini di accertamento quale applicabile ratione temporis (Cass. n. 20435/2017; Cass. n. 4775/2016; Cass. n. 23629/2017).
Con il quarto motivo si deduce l’o messo esame in relazione ad un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. costituito dal coinvolgimento e dall’identificazione del sig. NOME COGNOME quale autore materiale delle condotte e, in particolare, dalla riconducibilità a tale soggetto degli assegni circolari emessi dallo I.A.L. Cisl.
4.1. Il motivo è inammissibile poiché, oltre alla presenza di una cd. doppia conforme, è del tutto inesplicitato il carattere decisivo della predetta circostanza, nell’ambito di un accertamento del reddito di impresa della società e di conseguenza dei soci; ciò trova conferma nella lettura dell’atto di appello ove la questione viene sì dedotta ma dopo aver evidenziato che i soci erano falliti e quindi non potevano svolgere attività di impresa per cui quest’ultima e i relativi redditi dovevano essere imputati direttamente a NOME COGNOME; la CTR ha escluso che il fallimento di COGNOME NOME e COGNOME NOME, per altra società, precludesse loro lo svolgimento di attività di impresa, con
statuizione che rende quindi priva di autonoma rilevanza la circostanza fattuale dedotta.
Concludendo, il ricorso va accolto unicamente in relazione al terzo motivo, nei termini indicati; la sentenza va cassata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, in diversa composizione, per nuovo esame, cui si demanda di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il terzo motivo del ricorso nei termini di cui in motivazione e rigetta i residui motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, in diversa composizione, per nuovo esame, cui demanda di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 20 giugno 2025.