Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 4376 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 4376 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: CORTESI NOME
Data pubblicazione: 19/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso n.r.g. 29386/2020, proposto da:
COGNOME NOME COGNOME rappresentato e difeso, per procura allegata al ricorso per cassazione, dall’Avv. NOME COGNOME presso il quale ha eletto domicilio in ROMA, INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE , rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in ROMA, INDIRIZZO
-controricorrente –
avverso la sentenza n. 1052/17/2020 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 24 febbraio 2020; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21 gennaio 2025 dal consigliere dott. NOME COGNOME lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona della Sostituta Procuratrice Generale dott.ssa NOME COGNOME la quale ha chiesto il rigetto del ricorso.
Rilevato che:
NOME COGNOME impugnò l’avviso di accertamento n. TK3016200159/2017, notificatogli il 22 febbraio 2017, con il quale l’Amministrazione finanziaria aveva ripreso a tassazione, per l’anno d’imposta 2009, maggiori redditi accertati a suo carico con metodo analitico- induttivo a seguito di quanto da lui dichiarato nel Modello Unico 2010.
Il ricorso fu respinto dalla Commissione tributaria provinciale di Roma e il successivo appello del contribuente seguì identica sorte.
La C.T.R. del Lazio ritenne che l’Amministrazione non fosse decaduta dalla potestà impositiva, poiché sussistevano i presupposti per l’applicazione del termine raddoppiato di cui all’art. 43, comma terzo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e a ll’art. 57 , comma terzo, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633; osservò poi, quanto al merito della pretesa erariale, che i dati emersi dall’esame delle movimentazioni bancarie svolto a carico del Collalti avevano un valore presuntivo che le prove offerte da quest’ultimo non avevano superato.
La sentenza d’appello è stata impugnata dal contribuente con ricorso per cassazione affidato a due motivi. L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso. Il Pubblico Ministero ha fatto pervenire conclusioni scritte.
Considerato che:
Con il primo motivo, articolato con riferimento all’art. 360, comma primo, num. 4), cod. proc. civ., il ricorrente denunzia la nullità della decisione impugnata per «motivazione meramente apparente».
Al riguardo, premette di aver eccepito, fin dall’originaria impugnazione dell’avviso di accertamento, l’intervenuta decadenza dell’Amministrazione dalla potestà impositiva, evidenziando l’insussistenza di ragioni che giustificassero il raddoppio del termine di cui agli artt. 43, comma terzo, del d.P.R. n. 600/1973 e 57, comma terzo, del d.P.R. n. 633/1972, nel testo applicabile ratione temporis .
In particolare, non poteva essere invocato il fatto che il processo verbale di constatazione prodromico all’avviso recasse nota informativa dell’avvenuta denuncia di ipotesi di reato. Quest’ultima, infatti, concerneva condotte a lui attribuite nella sua qualità di legale rappresentante di varie società, mentre l’avviso di accertamento si fondava sul rilievo di una dichiarazione infedele, da lui commessa in relazione ai propri redditi professionali; e tale circostanza non era priva di rilievo, perché la condotta contestata nell’avviso di accertamento non costituiva illecito penale, non risultando raggiunta la soglia contributiva necessaria.
Poste tali coordinate, il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui, decidendo sull’eccezione, si è limitata a ritenere sufficiente la denuncia presentata all’autorità giudiziaria, senza alcun riferimento specifico alla questione da lui posta.
Con il secondo motivo, denunziando violazione degli artt. 43, terzo comma, del d.P.R. n. 600/1973 e 57, terzo comma, del d.P.R.
n. 633/1972, il ricorrente agita identica questione sotto forma di violazione di legge.
Osserva, in particolare, che, per costante orientamento di questa Corte, agli atti impositivi relativi a periodo d’imposta precedente al 2016 si applica il testo dell’art. 43, terzo comma, anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 2 del d.lgs. n. 128/2015; pertanto, il raddoppio del termine non può operare «qualora la denuncia da parte dell ‘ Amministrazione finanziaria, in cui è ricompresa la Guardia di finanza, sia presentata o trasmessa oltre la scadenza ordinaria dei termini di cui ai commi precedenti».
Tale sarebbe, per l’appunto, l’ipotesi verificatasi nella specie, poiché la denuncia per i fatti concernenti la pretesa impositiva era contenuta nel citato p.v.c. del 9 novembre 2016, e perciò era successiva alla perenzione del termine ordinario calcolato con riferimento al periodo d’imposta 2008.
Preliminarmente all’esame dei motivi, va osservato che, con nota depositata l’11 dicembre 2024, il ricorrente ha chiesto che sia dichiarata l’estinzione del giudizio in ragione dell’avvenuta rottamazione del carico iscritto a ruolo; allo scopo, ha depositato atto di rinuncia e nota di riscontro dell’Amministrazione a una propria domanda di definizione agevolata ai sensi dell’art. 1, comma 231, della l. n. 197 del 2022, corredata della lista della cartelle e degli avvisi che risultavano pagati a partire dall’anno 2000 .
Nei termini con i quali è stata formulata, tuttavia, la richiesta del contribuente non può trovare seguito; non vi è, infatti, corrispondenza fra il numero dell’atto impositivo oggetto di impugnazione nel presente giudizio (TK3016200159/2017) e quelli indicati nella richiamata lista delle cartelle e degli avvisi che risultano
pagati, né il COGNOME ha offerto elementi dai quali sia possibile inferire detta corrispondenza.
Ciò posto, e passando allo scrutinio del ricorso, il primo motivo non è fondato.
4.1. Il vizio rilevante quale motivo di nullità della sentenza ai sensi dell’art. 132 n um. 4, cod. proc. civ. (e, sub specie , dell’art. 36, secondo comma, num. 4, del d.lgs. n. 546/1992), si configura quando la motivazione «manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell ‘ oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione -ovvero formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum . Tale anomalia si esaurisce nella ‘ mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico ‘ , nella ‘ motivazione apparente ‘ , nel ‘ contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili ‘ e nella ‘ motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile ‘ , esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ‘ sufficienza ‘ della motivazione, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata» (Cass. Sez. U n. 8053/2014 e numerose altre seguenti).
In particolare, si è in presenza di motivazione apparente quando le ragioni della decisione, pur essendo materialmente espresse, non sono tuttavia obiettivamente percepibili perché consistono di argomentazioni inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento e quindi a consentire un controllo effettivo sulla sua esattezza, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarlo con le più varie, ipotetiche congetture (così Cass., Sez. U, n. 22232/2016; v. anche Cass. n. 5927/2023).
4.2. Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha statuito sul motivo di appello nel quale era veicolata l’eccezione di decadenza sollevata dal contribuente ritenendo «più che sufficiente la denuncia penale all’autorità giudiziaria in relazione all’anno di imposta 2009 per reati previsti dal D.lgs. 74/2000».
In tal senso, i giudici d’appello, seppur sinteticamente, hanno reso obiettivamente percepibili le ragioni del loro convincimento, evidenziando che la circostanza dell’avvenuta presentazione della denuncia bastava a consentire il raddoppio del termine operato dall’Amministrazione.
Ciò esclude che nel caso di specie sussista un’ipotesi di motivazione apparente, conforme al paradigma più sopra descritto; diversa questione attiene alla possibilità che i giudici, nell’esprimere la loro valutazione, abbiano omesso di considerare altre circostanze di fatto rappresentate dal contribuente, il che, tuttavia, avrebbe dovuto costituire ragione di censura ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 5), cod. proc. civ.
Anche il secondo motivo è infondato.
5.1. In tal senso, occorre premettere che alla fattispecie è applicabile l’art. 43, terzo comma, del d.P.R. n. 600/1973 nel testo vigente dopo le modifiche introdotte dall’art. 1, commi da 130 a 132, della l. n. 208/2015.
Avuto riguardo al caso di specie -caratterizzato da violazione concernente il periodo d’imposta 200 9, con atto impositivo notificato al contribuente nel 2017 -l’art. 1, comma 132, prevedeva:
che gli avvisi di accertamento dovessero «essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione»;
che tuttavia, «in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per alcuno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74», tale termine andasse raddoppiato «relativamente al periodo d’imposta in cui è stata commessa la violazione»;
che detto raddoppio non potesse però operare «se la denuncia da parte dell’Amministrazione finanziaria, in cui è ricompresa la Guardia di finanza, sia presentata o trasmessa oltre la scadenza ordinaria» di cui sopra.
5.2. Il ricorrente sostiene che tale scansione normativa non sarebbe stata rispettata dall’Amministrazione, la quale, a fronte di una violazione concernente il periodo d’imposta 200 9, aveva trasmesso una valida denuncia soltanto con il processo verbale di constatazione del 9 novembre 2016; nessun rilievo, in tal senso, poteva attribuirsi alla precedente denuncia del 29 settembre 2011, in quanto riferita a condotte diverse da quelle sulle quali si fondava la ripresa a tassazione, che concerneva invece fatti inidonei a fondare una responsabilità penale del contribuente.
Pertanto, in sostanza, egli ritiene che manchino i presupposti per il raddoppio del termine, perché l’avviso di accertamento impugnato non si fonda sui rilievi che avevano perfezionato i presupposti per la denuncia penale.
5.3. Tale assunto non può essere condiviso.
Deve premettersi, al riguardo, che, per dato incontestato e risultante dalla lettura dello stesso, l’atto impositivo notificato al contribuente riguardava una dichiarazione infedele accertata in relazione a redditi professionali, dei quali, precedentemente, era emersa la percezione in forza di fatture per operazioni inesistenti,
riconducibili alle società delle quali il COGNOME era legale rappresentante.
Pertanto, l’accertamento delle condotte sulle quali l’avviso si fonda si pone in rapporto di dipendenza causale, oltreché cronologica, con quello delle condotte oggetto di denuncia dell’Amministrazione all’autorità giudiziaria del 29 settembre 2011.
5.4. Ciò premesso, è noto che il raddoppio dei termini previsto dalla disciplina applicabile all’epoca dei fatti atteneva solo alla commisurazione del tempo per l’ accertamento; i termini prolungati, dunque, erano anch ‘ essi fissati direttamente dalla legge e non integravano un’ ipotesi di riapertura o proroga di termini scaduti, né determinavano la reviviscenza di poteri di accertamento già esauriti.
La previsione di termini ‘raddoppiat i ‘ per dar corso al procedimento accertativo rispondeva alla precisa ratio di dare all’Ufficio un tempo maggiore per gli accertamenti nei casi più gravi , caratterizzati dall’emersione di elementi di rilievo penale.
5.5. È avuto riguardo a tale scopo che gli argomenti del ricorrente perdono consistenza.
Come, infatti, questa Corte ha sottolineato anche in tempi recenti, la possibilità che, in esito all’ accertamento sui fatti oggetto di denuncia e agli sviluppi dell’istruttoria procedimentale, l’atto impositivo si fondi su elementi privi di rilievo penale, non può certamente implicare, a posteriori, il venir meno dei presupposti del raddoppio dei termini (cfr. Cass. n. 20409/2023); e ciò in quanto il procedimento di accertamento tributario ha ad oggetto una complessiva posizione fiscale, non il fatto di reato e la conseguente responsabilità, e segue dunque un percorso del tutto autonomo rispetto alla verifica della responsabilità penale.
Tale è il motivo per cui, ad esempio, la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente esteso il termine raddoppiato anche al socio della società a ristretta base partecipativa, quantunque estraneo da responsabilità penale perché privo di rappresentanza legale (cfr. Cass. n. 27026/2024; Cass. n. 18451/2021); e ciò in forza di una regola ermeneutica che va applicata necessariamente anche al caso in cui, come nella specie, la rilevata ipotesi di reato costituisca, nell’ambito della medesima verifica, l’antecedente causale per l’accertamento di ulteriori violazioni tributarie riferibili al medesimo soggetto.
5.6. Del resto, diversamente opinando si finirebbe con il vanificare la richiamata finalità della disposizione sul raddoppio dei termini, sottraendo alla potestà impositiva tutte le condotte che -in ragione della complessità dell’accertamento e della gravità dei fatti contestati -possano emergere, in relazione ai medesimi fatti, in un momento successivo.
Né si può ritenere che una tale impostazione si connoti in sé come pregiudizievole per le ragioni del contribuente.
Com’è noto, infatti, il giudice tributario può essere sempre richiesto di verificare la sussistenza originaria del presupposto per il raddoppio del termine, con valutazione da condurre in base al criterio della cosiddetta ‘prognosi postuma’ ; ed in tal senso egli dovrà accertare se l’ amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità o, invece, abbia fatto un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate, al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento (cfr. fra le numerose altre, con richiamo alla nota sentenza della Corte Costituzionale n. 247 del 2011, Cass. n. 31328/2024; Cass. n. 24157/2024; Cass. n.
20409/2023; Cass. n. 1291/2020; Cass. n. 4203/2019; Cass. n. 8226/2017; Cass. n. 13483/2016).
Quest’ultima evenienza, tuttavia, non è stata neppure prospettata dal ricorrente; pertanto, e per le ragioni tutte sopra esposte, il motivo deve ritenersi infondato.
6. In conclusione, il ricorso dev’essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
Sussistono i presupposti per la condanna del ricorrente al versamento dell’importo previsto dall’art. 13, comma 1 -bis , del d.P.R. n. 115/2002.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in € 7.000,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2025.