Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 22903 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 22903 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 08/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8055/2023 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE con domicilio digitale come in atti , rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
avverso SENTENZA Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della TOSCANA n. 110/2023 depositata il 08/02/2023, notificata il 16/02/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/06/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Rilevato che:
Con atto di contestazione avente fondamento in PVC della Guardia di Finanza, era irrogata sanzione ai sensi dell’art. 6, comma 9 -bis.3, D.lgs. n. 471 del 1997 a RAGIONE_SOCIALE in liquidazione RAGIONE_SOCIALEgià RAGIONE_SOCIALE , sul presupposto dell’uso di fatture per operazioni inesistenti in qualità di cessionaria in regime di inversione contabile (‘reverse charge’) (essendo risultato che nessuno dei fornitori formali aveva avuto la disponibilità della merce indicata in fattura).
Ai fini della notifica, l’Ufficio si avvaleva del raddoppio dei termini ex artt. 43, comma 3, DPR n. 600 del 1973 e 57, comma 3, DPR n. 633 del 1972, nel testo vigente con riferimento all’anno d’imposta in questione (2011).
La contribuente proponeva impugnazione.
La Commissione Tributaria Provinciale di Firenze, con sentenza n. 39/02/2020 del 13.11.2019, depositata in data 15.01.2020, accoglieva il ricorso, ritenendo che per l’atto di contestazione non operasse la disciplina del raddoppio dei termini prevista per gli atti impositivi in caso di violazione penalmente rilevante.
Proponeva appello in INDIRIZZO l’Ufficio.
Anche la contribuente proponeva appello incidentale condizionato, con riferimento all’avvenuta definizione della lite a seguito del pagamento estintivo delle irregolarità formali ex art. 9 D.L. n.119 del
2018, effettuato in primo grado, ma ritenuto non produttivo di effetti dai corrispondenti giudici; la medesima reiterava altresì le pregresse difese.
La Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana, con la sentenza in epigrafe, rigettava l’appello dell’Ufficio, sul presupposto dell’inapplicabilità del raddoppio dei termini.
Propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate con un motivo; resiste la contribuente con controricorso, insistito ulteriormente con ampia memoria telematica.
Considerato che:
Con l’unico motivo di ricorso si denuncia: ‘Violazione e/o falsa applicazione di legge ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. in relazione al combinato disposto di cui all’art. 20 d.lgs. n. 471/1997 e 57 del DPR 633/72, vigente ‘ratione temporis’, avendo il Giudice di II grado erroneamente ritenuto che per la violazione in contestazione non dovesse farsi applicazione dell’istituto del cd raddoppio in presenza di violazioni penalmente rilevanti’. Ad avviso della ricorrente Agenzia, ‘non appare condivisibile la linea interpretativa seguita dai giudicanti, in entrambi i gradi di giudizio nella parte in cui hanno ritenuto che non potesse operare il rinvio ai diversi termini previsti per l’accertamento per l’irrogazione di una sanzione connessa a violazioni penalmente rilevanti sull’assunto che la stessa sarebbe stata irrogata senza recupero d’imposta’.
Preliminarmente deve rilevarsi che il motivo non è inammissibile, a differenza di quanto sostenuto in controricorso e ribadito ancora in memoria.
In disparte che, secondo quanto emerge dal ricorso, le due comunicazioni di notizia di reato avevano avuto come destinatarie
altrettante Autorità giudiziarie, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Massa Carrara e quella presso il Tribunale di Brescia, il provvedimento di archiviazione del GIP presso il solo Tribunale di Brescia, sia per la sua natura procedimentale, siccome reso allo stato degli atti nella fase delle indagini preliminari, e sia anche per il suo contenuto, nei termini parzialmente riportati in controricorso e memoria, non esclude affatto la sussistenza di ipotesi di reato propriamente tributarie (ex d.lgs. n. 74 del 2000), limitandosi a rilevare la prospettica insostenibilità di un’azione penale in giudizio con riferimento, peraltro, per come pare di arguire in difetto di esplicitazione dell’incolpazione provvisoria, ad una fattispecie associativa.
A ciò deve aggiungersi la considerazione che, come la stessa contribuente è costretta a riconoscere, a venire decisivamente in linea di conto, ai fini dell’esclusione del raddoppio dei termini ex artt. 43, comma 3, DPR n. 600 del 1973 e 57, comma 3, DPR n. 633 del 1972, nel testo ‘ratione temporis’ vigente, non è l’eventuale infondatezza della notizia di reato, in quanto ‘affermata’ ‘ex post’ dal giudice penale (infondatezza che, nella specie, per quanto sopra, non è stata affatto ‘affermata’), ma un utilizzo eventualmente pretestuoso della presentazione della denuncia da parte dell’A.F., onde beneficiare indebitamente di un termine più lungo dell’ordinario.
È proprio per tale motivo che, in materia di accertamento, la Corte costituzionale, nella nota sentenza n. 247 del 2011, demanda al giudice tributario, che ovviamente non è il giudice della fondatezza o meno della ‘notitia criminis’, perché non è un giudice (anche) penale, di effettuare una valutazione circa l’effettiva sussistenza dell’obbligo di denuncia in capo all’A.F.: ciò sulla base di un criterio che non è prognostico; non lo è perché – tenuto conto che il raddoppio dei
termini, con la sola esclusione dell’IRAP, deriva dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen., indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato, restando irrilevante, in particolare, che l’azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione di proscioglimento, di assoluzione o di condanna (Cass. nn. 13481 del 2020; 22337 del 2018; 11171 del 2016) – il compito demandato al giudice tributario consiste solo nel verificare l’emersione di fatti penalmente rilevanti per i quali sussista obbligo di denuncia, onde escludere, nella condotta dell’Ufficio, un’invocazione meramente strumentale della presentazione in sé della denuncia, senza tuttavia che egli sia legittimato ad attingere il merito della contestazione, la cui cognizione, in concreto, pertiene esclusivamente al giudice penale.
Detto ciò, e conseguentemente affermata l’ammissibilità del motivo, ritiene il Collegio che esso sia fondato e meriti accoglimento.
Premesso che, nel caso che ne occupa, secondo la concorde prospettazione di entrambe le parti, si applica, in punto di disciplina sul raddoppio dei termini, il regime transitorio ex art. 1, comma 132, l. n. 208 del 2015, rileva il tenore dell’art. 20 d.lgs. n. 472 del 1997, ampiamente scrutinato negli atti delle medesime.
Esso recita:
L’atto di contestazione di cui all’articolo 16 ovvero l’atto di irrogazione devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la violazione o nel diverso termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi. Entro gli stessi termini devono essere resi esecutivi i ruoli nei quali sono iscritte le sanzioni irrogate ai sensi dell’articolo 17, comma 3.
Alla stregua della ‘littera legis’, giusta l’impiego della disgiuntiva ‘o’, la notifica dell’atto di contestazione può avvenire, oltreché nel termine del quinto anno successivo alla violazione, altresì, e comunque, ‘nel diverso termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi’: ragion per cui, a misura che, per i singoli tributi, sia previso un termine più lungo del quinquennio -in funzione del raddoppio a causa dell’emersione di fatti penalmente rilevanti -si applica detto termine più lungo, in luogo del quinquennio.
La conferma si ha nella concorrente considerazione dell”accertamento’ e, distintamente, ma in aggiunta, dei ‘provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie’ nell’intervento novellistico, riguardo al raddoppio, operato dall’art. 2 d.lgs. n. 128 del 2015. Infatti, il primo periodo del comma 3 dell’art. 2 testé evocato prevede:
Sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore del presente decreto.
In effetti, la circostanza che anche l’atto di contestazione di per sé possa beneficiare del ‘diverso termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi’, eventualmente raddoppiato ex artt. 43, comma 3, DPR n. 600 del 1973 e 57, comma 3, DPR n. 633 del 1972 ‘ratione temporis’ vigenti, è già acquisita al patrimonio della giurisprudenza di legittimità.
Il riferimento cade su una pronuncia (Cass. n. 23662 del 2023), che, condivisibilmente, ha avuto modo (in motiv., fg. 5) di osservare quanto segue:
È proprio l’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 128 del 2015, a richiamare espressamente la materia delle sanzioni, tra quelle per le quali si fa addirittura salva la pregressa disciplina, così come introdotta dal d.l. del 2006.
Infatti il suddetto comma dispone che «Sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore del presente decreto. Sono, altresì, fatti salvi gli effetti degli inviti a comparire di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218 notificati alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché dei processi verbali di constatazione redatti ai sensi dell’articolo 24 della legge 7 gennaio 1929, n. 4 dei quali il contribuente abbia avuto formale conoscenza entro la stessa data, sempre che i relativi atti recanti la pretesa impositiva o sanzionatoria siano notificati entro il 31 dicembre 2015». Il raddoppio dei termini è cioè espressamente richiamato anche per le sanzioni.
D’altronde, come si desume dall’art. 20 del d.lgs. n. 472 del 1997, «l’atto di contestazione di cui all’art. 16, ovvero l’atto di irrogazione, devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la violazione, o nel diverso termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi», da ciò evincendosi, in modo non equivoco, che i termini per l’accertamento e quelli per la irrogazione delle sanzioni corrono parallelamente.
Sulle solide basi di questa disciplina questa Corte ha pertanto affermato che i termini previsti dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 per l’IRPEF e dall’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’IVA, come modificati dall’art. 37 del d.l. n. 223 del 2006, conv., con modif., in l. n. 248 del 2006, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se archiviata o tardiva, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento già notificati, relativi a periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, incidano le modifiche introdotte dall’art. 1, commi da 130 a 132, della l. n. 208 del 2015, attesa la disposizione transitoria, ivi introdotta, che richiama l’applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 128 del 2015, nella parte in cui fa salvi
gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni e degli inviti a comparire ex art. 5 d.lgs. n. 218 del 1997 già notificati, dimostrando un favor del legislatore per il raddoppio dei termini, se non incidente su diritti fondamentali del contribuente, quale il diritto di difesa, in ossequio ai principi costituzionali di cui agli artt. 53 e 112 Cost. (Cass., 19 dicembre 2019, n. 33793).
A fronte di ciò, l’esegesi proposta dalla contribuente secondo cui la locuzione: ‘ o nel diverso termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi’ si riferirebbe alla sola ipotesi in cui si abbiano anche tributi evasi contestualmente accertati, è priva di alcun effettivo riscontro testuale. Invero, l’art. 20 d.lgs. n. 472 del 1997, nel parlare di ‘diverso termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi’, ha riguardo alla ‘previsione’ – in astratto, dunque – di un ‘diverso termine’ ‘per l’accertamento dei singoli tributi’, senza affatto presupporre che in concreto si proceda all’accertamento, viepiù contestuale, dei tributi; scopo della norma, infatti, è quello di equiparare il termine di accertamento dei tributi al termine di contestazione delle sanzioni, alla stregua di un meccanismo (destinato ad operare in astratto) di binari paralleli, ma reciprocamente indipendenti.
Nella progressione logica dell’analisi, resta però il problema della riferibilità della sanzione ad un tributo pur sempre suscettivo di ‘accertamento’. Infatti, facendosi nuovamente riferimento alla ‘littera legis’, ‘l’atto di contestazione dev essere notificat nel diverso termine previsto per l”accertamento’ dei singoli tributi’, talché, secondo la prospettazione della contribuente, se non v’è un tributo suscettivo di ‘accertamento’, non si applica neppure il ‘diverso termine’.
Secondo l’Agenzia per il solo fatto di essere la sanzione dell’art. 6, comma 9 -bis.3, d.lgs. n. 471 del 1997 commisurata al tributo, si
evidenzia una riferibilità dell’una all’altro, suscettiva di rendere applicabile la superiore interpretazione dell’art. 20 d.lgs. n. 472 del 1997; la contribuente oppone la duplice circostanza, di per sé dall’Agenzia non contestata, che, nel caso concreto, non v’è stato affatto un recupero d’imposta, con enucleazione dunque d’un tributo predicato di debenza, e che l’atto di contestazione oggetto di giudizio deduce ad oggetto esclusivamente l’irrogazione delle sanzioni.
Ora, ritiene il Collegio di non aderire ‘funditus’ alla prospettazione erariale e tuttavia, al contempo, di disattendere la pur pregevole prospettazione della contribuente.
Ad avviso del Collegio, occorre dare evidenza alla considerazione che il cessionario in regime di ‘reverse charge’ è il soggetto passivo d’imposta ‘in vece’, proprio per via della deroga che peculiarizza siffatto regime, del cedente.
Il ragionamento si articola per gradi.
Sotto il profilo dell’individuazione del cessionario in regime di ‘reverse charge’ quale soggetto passivo d’imposta vale la considerazione (Cass., n. 31274 del 2024, in motiv., p. 6) che le regole sulla doppia registrazione del regime in parola perseguono il primario scopo sostanziale di far emergere le operazioni imponibili, con contestuale liquidazione dell’imposta dovuta direttamente dal cessionario, costituito debitore d’imposta, proprio per effetto dell’artificio contabile della doppia registrazione, in luogo (come d’ordinario) del cedente, altresì consentendo, su un piano nondimeno logicamente dipendente da quello testé descritto, i successivi controlli in capo al cessionario medesimo.
Fermo ciò, può procedersi oltre.
Come pregevolmente illustrato da Cass. n. 4250 del 2022 (in motiv., p. 10),
2.8.1. nel caso di reverse charge, la fattura è emessa dal cedente senza addebito d’imposta, con l’osservanza delle disposizioni stabilite dagli artt. 21 ss. del d.P.R. n. 633 del 1972 e con l’indicazione, prevista dall’art. 74, ottavo comma, del medesimo decreto, che si tratta di operazione con IVA non addebitata in via di rivalsa; 2.8.2. la fattura è quindi integrata, con la specificazione dell’aliquota e dell’imposta, dal cessionario, soggetto passivo dell’imposta, che la registra nel proprio registro delle vendite, in tal modo assolvendo l’obbligo di pagamento del tributo, successivamente detratto con la parallela annotazione nel registro degli acquisti;
2.9. la Corte di giustizia (CGUE 11 novembre 2021, in causa C 281/20, COGNOME), che si è di recente occupata per la prima volta della disciplina del reverse charge in materia di operazioni soggettivamente inesistenti, ha stabilito che la direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio del 28/11/2006 (direttiva IVA), letta in combinazione con il principio di neutralità fiscale, dev’essere interpretata nel senso che a un soggetto passivo va negato l’esercizio del diritto a detrazione dell’IVA relativa all’acquisto di beni che gli sono stati ceduti, qualora tale soggetto passivo abbia consapevolmente indicato un fornitore fittizio sulla fattura che egli stesso ha emesso per tale operazione nell’ambito dell’applicazione del regime dell’inversione contabile, se, tenuto conto delle circostanze di fatto e degli elementi forniti da tale soggetto passivo, mancano i dati necessari per verificare che il vero fornitore aveva la qualità di soggetto passivo o se è sufficientemente dimostrato che tale soggetto passivo ha commesso un’evasione dell’IVA o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione s’iscriveva in una simile evasione ;
2.9.3. del resto, sul piano generale, l’esercizio del diritto alla detrazione dell’IVA va negato se mancano i dati necessari per verificare che il fornitore del soggetto che lo invoca abbia la qualità di soggetto passivo (CGUE 9 dicembre 2021, in causa C -154/20, RAGIONE_SOCIALE, punto 41) ;
2.11. va, dunque, enunciato il seguente principio di diritto: «in tema di IVA, e con riguardo al regime del reverse charge o inversione contabile, in applicazione dei principi di diritto enunciati dalla Corte di giustizia della UE, il diritto di detrazione dell’imposta relativa ad un’operazione di cessione di beni non può essere riconosciuto al cessionario che, sulla fattura emessa per tale operazione in applicazione del suddetto regime, abbia indicato un fornitore
fittizio allorquando, alternativamente, il medesimo cessionario: a) abbia egli stesso commesso un’evasione dell’IVA ovvero sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto di detrazione s’iscriveva in una simile evasione; b) sia semplicemente consapevole della indicazione in fattura di un fornitore fittizio e non abbia fornito la prova che il vero fornitore sia un soggetto passivo IVA».
Alla luce di quanto precede, dunque, il cessionario in ‘reverse charge’ non può esercitare il diritto alla detrazione dell’IVA allorché abbia indicato un fornitore fittizio.
Il regime del ‘reverse charge’, dunque, non osta al recupero dell’IVA indetraibile in capo al cessionario che lo applica; in altri termini: l’IVA indetraibile è accertabile nei confronti del medesimo.
A fronte di quanto innanzi, la peculiarità del caso di specie consiste in ciò, che l’Ufficio ha ritenuto di non procedere, altresì, al recupero dell’IVA indetraibile, limitandosi a contestare soltanto la sanzione di cui all’art. 6, comma 9 -bis, D.Lgs. n. 471 del 1997.
Ora, a seguito della sentenza delle Sezioni unite di questa Suprema Corte n. 22727 del 2022, è possibile affermare che l’Ufficio ha acceduto ad un’interpretazione del sistema normativo doppiamente benevola, giacché, per un verso, nulla ostava a che recuperasse nei confronti della contribuente l’IVA indetraibile e, per altro verso, date le premesse fattuali riferite nel ricorso per cassazione (cfr. in part. p. 3) la sanzione applicabile si lasciava individuare in quella prevista dal comma 1, e non dal più mite comma 9 -bis.3, D.Lgs. n. 471 del 1997.
Scrivono infatti con chiarezza le Sezioni unite (in motiv., p. 23):
Orbene, il coacervo di tali principi , ivi compreso quello dell’indetraibilità dell’IVA per le operazioni inesistenti, ancorché il contribuente si sia avvalso del sistema
dell’inversione contabile, induce a ritenere che la previsione di cui alla parte finale del comma 9 -bis.3, laddove introduce per le operazioni inesistenti una sanzione ridotta rispetto a quella prevista per i casi nei quali il contribuente non ha applicato l’IVA con il sistema dell’inversione contabile interno, non può che essere interpretata in modo tale da salvaguardare le politiche di contrasto all’evasione e alle frodi che sono state nel tempo veicolate dal diritto vivente di questa Corte e della Corte di giustizia e che, diversamente opinando, risulterebbero fortemente depotenziate.
10. Tale risultato ermeneutico, a giudizio di queste Sezioni Unite, induce ad escludere dall’ambito di applicazione del richiamato comma 9 -bis.3 l’ opzione interpretativa che prima facie poteva orientare verso un’interpretazione lata dell’espressione ‘operazioni inesistenti’, scongiurando un conflitto fra dato normativo interno ed i principi, sovraordinati in materia di tributi armonizzati, espressi dalla Corte di giustizia in tema di contrasto alle operazioni fraudolente, ai quali, peraltro, si ispira pienamente il sistema interno delle sanzioni in materia, proprio perché in caso di operazioni inesistenti non può essere vantata alcuna posta detraibile e non è dunque possibile neutralizzare il debito d’imposta, con conseguente impossibilità di neutralizzazione del debito d’imposta che invece il meccanismo dell’art.9 -bis.3 regimenta.
11. In definitiva, deve ritenersi che la prescritta neutralizzazione dell’IVA a credito e di quella a debito nell’ipotesi di inversione contabile prevista dalla prima parte dell’art. 6, c.9 -bis.3 riguardi esclusivamente le operazioni inesistenti che siano astrattamente ‘esenti, non imponibili o comunque non soggette a imposta’, e non anche le operazioni inesistenti astrattamente imponibili per le quali non è ammesso il diritto a detrazione. Per queste ultime l’azione di forte contrasto all’evasione e alle frodi, di matrice eurounitaria, non può che essere perseguita dall’ordinamento per il tramite delle sanzioni previste dall’attuale art. 6, c.1, d.lgs. n.471/1997, con il quale il legislatore ha inteso fortemente osteggiare le condotte integranti operazioni (non esenti o imponibili) inesistenti, destinate potenzialmente a prestarsi ad intenti frodatori ed evasivi, mancando per tali operazioni i requisiti sostanziali previsti per il riconoscimento del diritto alla detrazione.
Da ciò – con Cass. n. 23262 del 2024 (in motiv., p. 7) ‘l’inapplicabilità delle sole sanzioni, in caso di utilizzazione di fatture inesistenti sebbene in regime di ‘reverse charge’ domestico, dovendosi procedere ad un recupero dell’imposta indetraibile’.
In conclusione, se è vero che l’art. 20 d.lgs. n. 472 del 1997, nel parlare di ‘diverso termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi’, ha riguardo alla sola astratta previsione di un siffatto ‘diverso termine’, senza esigere che ‘l’accertamento dei singoli tributi’ sia in concreto esplicato, è altresì vero che, in caso di operazioni (anche solo) soggettivamente inesistenti, poiché il cessionario in ‘regime di reverse charge’ soggiace al recupero dell’IVA indetraibile, si realizza il presupposto dell’accertabilità del tributo, a prescindere dall’essere questo effettivamente accertato o meno: sicché il maggior termine per l’accertamento, in costanza di fatti penalmente rilevanti, fonda il parallelo maggior termine per la contestazione delle relative sanzioni.
Ne deriva che ai fini della notifica di un atto di contestazione volto all’irrogazione della sanzione ad un soggetto che abbia fatto uso, nella qualità di cessionario in regime di ‘reverse charge’, di fatture per operazioni (anche solo soggettivamente) inesistenti, l’A.F. può beneficiare del ‘diverso termine previsto per l’accertamento ‘ ex art. 20 D.Lgs. n. 472 del 1997, eventualmente raddoppiato a seguito di denuncia di fatti penalmente rilevanti giusta gli artt. 43, comma 3, DPR n. 600 del 1973 e 57, comma 3, DPR n. 633 del 1972 ‘ratione temporis’ vigenti, senza che vi osti il concreto mancato recupero dell’IVA indetraibile.
Tale conclusione, infine, trova riscontro in quanto affermato da Cass. n. 534 del 2024, in un caso in cui una società attiva nel settore del commercio di rottami, e dunque soggetta al regime del ‘reverse
charge’, era attinta da atto di contestazione, a mezzo del quale ‘l’Ufficio aveva accertato l’omessa regolarizzazione di fatture infedeli per errata indicazione del soggetto cedente e, ai sensi dell’art. 6, comma 8, del d.P.R. n. 471 del 1992, aveva determinato la sanzione nella misura del 100% dell’imposta’, ritenendo applicabile ‘il raddoppio dei termini di notifica dell’atto impugnato in quanto l’atto di contestazione riguardava l’accertamento della mancata regolarizzazione per l’anno 2007 di fatture ritenute fittizie emesse per operazioni soggettivamente inesistenti’ (in motiv., pp. 2 e 4). Dinanzi alla S.C., era dedotto (ivi, pp. 4 e 5) che ‘la sentenza impugnata errata perché, nel caso di specie, non poteva trovare applicazione il raddoppio dei termini , non essendoci stata la notifica di un atto impositivo (né poteva esserci, trattandosi di violazione non collegata al tributo), ma l’emissione di un provvedimento sanzionatorio da parte dell’Amministrazione finanziaria . Il riferimento contenuto nell’art. 20 del decreto legislativo n. 472/97 al «diverso termine previsto per l’accertamento dei tributi» non poteva trovare applicazione nel caso di specie dove non si era proceduto ad alcuna rettifica o recupero di imposta, dal momento che non si era verificato alcun mancato pagamento di imposta’.
Ebbene, la S.C. -pur senza esplicitamente soffermarsi sul regime del ‘reverse charge’ -rileva (in motiv., p. 6) che, ‘per quanto si evince dalla disciplina richiamata , il raddoppio afferisce tanto alle imposte quanto alle sanzioni, avuto riguardo anche alla data di notifica dell’atto di contestazione impugnato in questa sede (1 agosto 2013)’: e ciò espressamente richiamando la citata Cass. n. 23662 del 2023.
In evidenza, il giudice d’appello (come già quello di primo grado) non ha prestato ossequio ai superiori insegnamenti.
Ne discende che la sentenza impugnata va cassata con rinvio, per l’esame delle ulteriori questioni vertite in causa e rimaste assorbite, nonché per la definitiva regolazione tra le parti delle spese, comprese quelle del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
In accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana, in diversa composizione, per l’esame delle questioni assorbite e per le spese.
Così deciso a Roma, lì 13 giugno 2024.