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Raddoppio dei termini: la Cassazione esclude l’IRAP

Una società informatica ha ricevuto un avviso di accertamento per l’anno d’imposta 2004, basato su fatture per operazioni ritenute soggettivamente inesistenti. L’Amministrazione Finanziaria ha applicato il raddoppio dei termini di accertamento, giustificato dalla presenza di un’ipotesi di reato tributario. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8042/2025, ha parzialmente accolto il ricorso della società. Ha confermato la validità dell’accertamento per IRES e IVA, ma lo ha annullato per quanto riguarda l’IRAP. La Corte ha stabilito che il raddoppio dei termini non è applicabile all’IRAP, poiché per tale imposta non sono previste sanzioni penali che possano giustificare l’estensione del periodo di accertamento.

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Pubblicato il 20 settembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Raddoppio dei termini: la Cassazione esclude l’IRAP

Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 8042 del 26 marzo 2025, ha fornito un chiarimento cruciale sulla disciplina del raddoppio dei termini per l’accertamento fiscale. La Corte ha stabilito che, sebbene tale meccanismo sia applicabile a imposte come IRES e IVA in presenza di reati tributari, non può essere esteso all’IRAP. Questa decisione ha importanti implicazioni pratiche per i contribuenti e per l’azione dell’Amministrazione Finanziaria.

I Fatti di Causa

Il caso ha origine da un avviso di accertamento notificato a una società di hardware e software per l’anno d’imposta 2004. L’Amministrazione Finanziaria contestava l’indebita detrazione di costi e IVA derivanti da fatture emesse da società considerate ‘cartiere’, ovvero entità create al solo scopo di emettere documenti fiscali falsi. Le operazioni erano state qualificate come ‘oggettivamente inesistenti’ o, quanto meno, ‘soggettivamente inesistenti’.

L’accertamento si basava su un processo verbale di constatazione (PVC) della Guardia di Finanza, che aveva individuato un complesso schema di frode. Poiché l’avviso era stato notificato oltre i termini ordinari, l’Ufficio aveva fatto ricorso all’istituto del raddoppio dei termini, previsto quando l’indagine fiscale fa emergere un’ipotesi di reato tributario.

In primo grado, la Commissione Tributaria Provinciale (CTP) aveva annullato l’avviso, ritenendo che l’Ufficio fosse decaduto dal potere di accertamento. In secondo grado, la Commissione Tributaria Regionale (CTR) aveva ribaltato la decisione, accogliendo l’appello dell’Amministrazione Finanziaria e confermando la legittimità del raddoppio dei termini.

Il ricorso in Cassazione e la questione del raddoppio dei termini

La società ha presentato ricorso in Cassazione, sollevando otto motivi di doglianza. Tra questi, il più rilevante ai fini della decisione finale è stato il sesto motivo, con cui si contestava l’applicabilità del raddoppio dei termini all’IRAP.

La difesa della società sosteneva che la disciplina del raddoppio è strettamente legata alla commissione di reati fiscali per i quali sono previste sanzioni penali. Poiché la normativa sull’IRAP non contempla sanzioni di questo tipo per le violazioni contestate, l’estensione dei termini di accertamento sarebbe illegittima per questa specifica imposta.

Gli altri motivi di ricorso vertevano su questioni procedurali, sulla presunta nullità della notifica, sulla carenza di motivazione in merito alla sussistenza della frode e sull’onere della prova.

Le motivazioni

La Corte di Cassazione ha rigettato quasi tutti i motivi di ricorso, ritenendoli inammissibili o infondati. In particolare, ha confermato la correttezza dell’operato della CTR nel ritenere provata la natura fraudolenta delle operazioni e il coinvolgimento della società contribuente. La Corte ha ribadito il principio secondo cui, in caso di operazioni inesistenti, spetta all’Amministrazione Finanziaria fornire la prova, anche tramite indizi, dell’inesistenza dell’operazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la propria buona fede e la legittimità della detrazione.

Tuttavia, la Corte ha accolto il sesto motivo, quello relativo all’IRAP. I giudici hanno chiarito che il presupposto per l’applicazione del raddoppio dei termini è la configurabilità di un reato previsto dal D.Lgs. 74/2000, che sanziona penalmente le frodi in materia di imposte dirette (IRES) e IVA.

La Corte ha specificato che l’IRAP è un’imposta autonoma, la cui disciplina non prevede sanzioni penali per le violazioni che danno luogo al recupero. Di conseguenza, non sussiste il presupposto normativo per estendere il termine di accertamento. Il raddoppio dei termini è una misura eccezionale, legata alla gravità di condotte penalmente rilevanti, e non può essere applicata per analogia a tributi per i quali il legislatore non ha previsto una tutela penale.

Le conclusioni

In conclusione, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata limitatamente alla parte relativa all’IRAP. Ha deciso la causa nel merito, annullando l’avviso di accertamento per questo tributo e confermandolo per IVA e IRES.

Questa sentenza riafferma un principio fondamentale: il raddoppio dei termini non è un meccanismo automatico. La sua applicazione deve essere rigorosamente ancorata alla sussistenza di un obbligo di denuncia per uno dei reati specificamente previsti dalla legge in relazione al tributo accertato. Per l’IRAP, in assenza di corrispondenti sanzioni penali, tale meccanismo non può operare, garantendo così una maggiore certezza del diritto per i contribuenti.

In quali casi si applica il raddoppio dei termini per l’accertamento fiscale?
Il raddoppio dei termini si applica quando emerge l’obbligo di presentare una denuncia penale per uno dei reati tributari previsti dalla legge (D.Lgs. 74/2000), come nel caso di frodi relative a IVA e imposte dirette.

Perché il raddoppio dei termini non si applica all’IRAP?
Secondo la Corte, il raddoppio dei termini non si applica all’IRAP perché per questa imposta non sono previste sanzioni penali che facciano sorgere l’obbligo di denuncia, presupposto indispensabile per l’estensione dei termini di accertamento.

In caso di fatture per operazioni inesistenti, chi deve provare la frode e chi la propria buona fede?
L’Amministrazione Finanziaria ha l’onere di provare, anche tramite indizi, che le operazioni sono inesistenti e che il destinatario delle fatture era consapevole della frode. Una volta fornita tale prova, spetta al contribuente dimostrare di aver agito con la massima diligenza per non essere coinvolto e di essere in buona fede.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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