Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 35096 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 35096 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 30/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 27641/2017 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in Roma INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, domiciliata ex lege in Roma INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-controricorrente-
nonché contro
PROCURA GENERALE DELLA REPUBBLICA
-intimata- avverso Sentenza della Commissione Tributaria Regionale delle Campania n. 3640/2017 depositata il 19/04/2017.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28/11/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Nell’ambito di un’indagine penale svolta nei confronti della impresa individuale RAGIONE_SOCIALE COGNOME Rosa e di RAGIONE_SOCIALE di Guarino Rosa, la Guardia di Finanza rilevava che tali
imprese, oltre ad essere evasori totali per non aver presentato dichiarazioni dei redditi per gli anni 2008, 2009, e 2010, venivano gestite, di fatto, non dalla signora NOME COGNOME, mero prestanome, ma dal coniuge di quest’ultima, NOME COGNOME.
La Guardia di Finanza acquisiva quindi i nomi dei soggetti che avevano concluso affari con tali imprese, e tra essi rinveniva anche la RAGIONE_SOCIALE accertando quindi che tale società aveva dichiarato, come costi, fatture emesse dalle suddette imprese per circa 370.000 euro.
In sede di accertamento, i militari assumevano informazioni dal Pianese, il quale dichiarava di non conoscere la RAGIONE_SOCIALE, né il suo amministratore NOME COGNOME, ma di conoscere i suoi figli, NOME COGNOME e NOME COGNOME che, nel 2008, avevano diretto accesso ai conti correnti, intestati alla moglie del Pianese, ma di fatto nella disponibilità del marito.
Questi dichiarava inoltre che sui suddetti conti i figli di NOME COGNOME avrebbero versato gli assegni emessi dalla RAGIONE_SOCIALE in pagamento delle fatture emesse dalla RAGIONE_SOCIALE di COGNOME e dalla RAGIONE_SOCIALE di Guarino Rosa, e poi avrebbero incassato dagli stessi conti le medesime somme versate con quegli assegni. In questo modo avrebbero ottenuto fatture passive, da iscrivere in contabilità e dichiarate come costi, senza avere mai effettivamente acquistato e ricevuto le merci indicate in fattura e senza, altresì, avere mai effettivamente pagato gli importi ivi indicati.
Su tali premesse l’Agenzia delle entrate -Direzione Provinciale di Napoli emetteva, nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, avviso di accertamento di maggiore Ires, Irap e Iva per l’anno 2008 , disconoscendo i costi portati in deduzione dalla società in relazione alle fatture in questione.
Il ricorso proposto dalla società veniva accolto dalla CTP di Napoli.
Quindi, la CTR della Campania, con la sentenza indicata in epigrafe, in accoglimento dell’appello dell’Amministrazione, e rigettando l’appello incidentale della società contribuente, statuiva le legittimità dell’atto impositivo impugnato.
Avverso la predetta sentenza ricorre la RAGIONE_SOCIALE con tre motivi e resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso (rubricato sub II.1), la società contribuente denuncia , in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la «Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e, più specificamente, dell’art. 54, secondo comma, del DPR 26 ottobre 1972, n. 633», deducendo il mancato rispetto delle regole di distribuzione dell’onere probatorio tra Amministrazione e contribuente.
1.1. A tale riguardo va rammentato che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di operazioni oggettivamente inesistenti, l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare che l’operazione non è mai stata posta in essere, indicandone i relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva (Cass., Sez. V, 18 ottobre 2021, n. n. 28628), ricorrendo alla prova che l’emittente è una «cartiera» o una «società fantasma», ciò essendo gravemente indiziario della oggettiva inesistenza delle operazioni, spettando poi al contribuente provare l’effettiva esistenza delle operazioni sottostanti; né tale onere può ritenersi assolto con l’esibizione della fattura, ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, in quanto essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass., Sez. V, 5 luglio 2018, n. 17619; Cass., Sez. V, 30 ottobre 2018, n. 27554; Cass., Sez. V, 27 novembre 2019, n. 30937; Cass., Sez. V, 15 febbraio 2022, n.
4826; Cass., Sez. VI, 22 marzo 2022, n. 9304; Cass., Sez. V, 12 aprile 2022, n. 11737).
1.2. Va ancora rammentato che il giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass., Sez. 1, 2/8/2016, n. 16056), e che la valutazione del compendio probatorio è preclusa a questa Corte, essendo riservata al giudice di merito al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass., 13/01/2020, n. 331; Cass.,04/08/2017, n. 19547; Cass., 04/11/2013, n. 24679; Cass., 16/12/2011, n. 27197; Cass., 07/02/2004 n. 2357).
1.3. Va in particolare rilevato, a fronte di specifica contestazione della ricorrente, che questa Corte ha affermato che «Le dichiarazioni extraprocessuale di terzi sono ammissibili ed utilizzabili nel processo tributario – nel rispetto dell’art. 6 CEDU e del principio di parità delle armi di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea -e hanno valore di elementi indiziari, utilizzabili sia dall’Amministrazione, sia dal contribuente.» (Cass. n. 8221 del 22/03/2023; v. anche Cass. n. 32024 del 28/10/2022; Cass. 17/11/2023 n. 32009).
1.4. Nel caso di specie, la CTR (sentenza, p. 6) ha in primo luogo evidenziato i «precisi elementi indiziari che hanno condotto alla
legittima presunzione che le contestate fatturazioni sono riconducibili ad operazioni inesistenti» consistenti: i) nella mancata presentazione delle dichiarazioni dei redditi da parte delle società emittenti le fatture, ii) nelle dichiarazioni autoaccusatorie rese da NOME COGNOME, iii) nella analitica ricostruzione, da parte degli operanti, del «sistema finanziario truffaldino consistente nel versamento di assegni bancari riconducibili alle imprese emittenti le fatture passive ed il loro sistematico prelevamento in contanti da parte di altri soggetti che hanno indebitamente gestito i conti (cfr. p. 8-10 del PVC a carico di RAGIONE_SOCIALE) tra i quali il Pianese indica proprio i due figli del legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE NOME COGNOME.
La CTR ha quindi rilevato che «dal canto suo, la RAGIONE_SOCIALE, lungi dall’ottemperare al suo onere probatorio in merito alla effettività delle operazioni poste in essere, ha evidenziato a più riprese la correttezza formale della propria contabilità, elemento, invero, che talvolta è esso stesso elemento tipico di meccanismi elusivi» (sentenza, p. 6).
La CTR si è pertanto conformata ai principi richiamati e, dunque, ne consegue il rigetto del motivo di ricorso.
Con il secondo motivo di ricorso si propongono due autonome censure.
2.1. Con la prima, rubricata «II.2 Violazione e falsa applicazione ex art. 360 comma 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 12 della Legge 212 del 2000», la ricorrente lamenta che la Commissione territoriale abbia errato nel rigettare la censura di violazione del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione .
2.2. La censura è infondata. Le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito che «in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto,
purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito». Dunque «non sussiste per l’Amministrazione finanziaria alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini Irpeg ed Irap, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale, vertendosi in ambito di indagini cd. a tavolino» (Cass. S.U. n. 24823/2015).
2.3. Nel caso di specie, pertanto, per quanto attiene alle contestazioni relative alle imposte dirette, non vi era alcun obbligo di instaurazione del contraddittorio preventivo prima dell’emissione dell’avviso di accertamento, in quanto risulta circostanza pacifica che la verifica non si è svolta presso i locali del contribuente.
2.4. Per quanto attiene ai tributi armonizzati, la medesima decisione ora richiamata ha inoltre sancito la necessità di operare una “prova di resistenza” ai fini della valutazione del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, in determinati casi.
Infatti, in tal caso l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito.
2.5. Sulla base di tali caposaldi, la Corte ha poi affermato che in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000 (cd. Statuto del
contribuente), nelle ipotesi di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, opera una valutazione “ex ante” in merito alla necessità del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, sanzionando con la nullità l’atto impositivo emesso “ante tempus”, anche nell’ipotesi di tributi “armonizzati”, senza che, pertanto, ai fini della relativa declaratoria debba essere effettuata prova di “resistenza”, invece necessaria per i soli tributi “armonizzati”, ove la normativa interna non preveda l’obbligo del contraddittorio con il contribuente nella fase amministrativa (ad es., nel caso di accertamenti cd. a tavolino), ipotesi nelle quali il giudice tributario è tenuto ad effettuare una concreta valutazione ex post sul rispetto del contraddittorio (Cass. Sez. 5, n. 701 del 15/01/2019; conforme, Cass. Sez. 5, n. 22644 del 11/09/2019).
2.6. Ora, nella specie, i giudici di appello hanno erroneamente ritenuto che il contraddittorio fosse stato instaurato dall’Agenzia , pur con un invito a comparire tardivamente recapitato alla società contribuente.
2.7. A tale riguardo, la motivazione espressa dalla CTR va corretta, nel senso che, per la ripresa IVA, in assenza di valido contraddittorio, si pone in astratto un problema di rispetto del principio discendente dal quadro normativo europeo applicabile, profilo critico che tuttavia non si risolve in una declaratoria di invalidità dell’avviso, conclusione cui giunge anche la sentenza impugnata, in quanto la prova di resistenza non è nemmeno adombrata dalla ricorrente, così neppure ponendosi, nel caso di specie, la questione oggetto dell’ ordinanza interlocutoria n. 7829 del 22/03/2024, e rimessa alle Sezioni unite, riguardante i contenuti ed i limiti della prova di resistenza.
Con la seconda censura mossa con il motivo in esame, rubricata «II.2.A Insufficiente motivazione su fatti controversi e decisivi del giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 5», si lamenta che la CTR abbia insufficientemente motivato in merito ai rilievi svolti dal
contribuente in relazione alla denunciata violazione del contraddittorio sollevata sia in primo sia in secondo grado. La censura è inammissibile.
3.1. Va ribadito che l’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 d.l. 22 giugno 2012 n. 83, conv. in L. 7 agosto 2012 n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli art. 366, 1 comma, n. 6, e 369, 2 comma, n. 4, c.p.c., il ricorrente deve indicare il «fatto storico», il cui esame sia stato omesso, il «dato», testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il «come» e il «quando» tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua «decisività», fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio denunciato qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. ex multis , Cass. Sez. U. 22/9/2014 n. 19881; Cass. Sez. U. 7/4/2014 n.8053; Cass. n. 27415 del 29/10/2018; di recente v. Cass. n. 9664/2023).
3.2. Ad ogni modo, neppure si versa in ipotesi di omessa pronuncia, ricorrendo invece una pronuncia di rigetto, della quale la ricorrente lamenta, inammissibilmente, la «insufficiente motivazione».
3.3. Va ancora, a tale ultimo riguardo, rammentato che «La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni
ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione» (Cass., Sez. U., 07/04/2014, n. 8053; Cass. Sez. 1, 03/03/2022 n. 7090).
Con il terzo motivo di ricorso, rubricato «II.3 Violazione ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. degli articoli 43 del DPR n. 600/1973, 57 DPR 633 del 1972 e art. 25 del D.Lgs. 446 del 1997», la ricorrente lamenta che la CTR abbia errato nel ritenere applicabile, nella specie, l’estensione dei termini per l’accertamento per effetto dell’invio di una notizia di reato quando era già intervenuta la decadenza dell’Amministrazione con riguardo al termine ordinario, e ciò anche in considerazione dello ius superveniens . Inoltre, l’Ufficio, non producendo in giudizio la denuncia, non avrebbe consentito al giudice di verificare la sussistenza dei presupposti per la sua obbligatoria presentazione.
4.1. Il motivo è parzialmente fondato, nei termini che seguono.
4.2. Costituisce, ormai, ius receptum che «In tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsto dagli artt. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, nei testi applicabili ratione temporis , presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua
effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte cost. nella sentenza n. 247 del 2011, sicché, ove il contribuente denunci il superamento dei termini di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria, deve contestare la carenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, non potendo mettere in discussione la sussistenza del reato il cui accertamento è precluso al giudice tributario» (v. Cass. 28/04/2021 n. 11156; Cass. 02/07/2020, n. 13481).
4.3. Si è, anche, precisato che detti termini sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se archiviata o tardiva, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento già notificati, relativi a periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016 (ed è il caso in esame), incidano le modifiche introdotte dall’art. 1, commi da 130 a 132, della L. n. 208 del 2015, attesa la disposizione transitoria, ivi introdotta, che richiama l’applicazione dell’art. 2, del d.lgs. n. 128 del 2015, nella parte in cui fa salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni e degli inviti a comparire ex art. 5 d.lgs. n. 218 del 1997 già notificati, dimostrando un favor del legislatore per il raddoppio dei termini se non incidente su diritti fondamentali del contribuente, quale il diritto di difesa, in ossequio ai principi costituzionali di cui agli artt. 53 e 112, Cost. (Cass. 19/12/2019, n. 33793; 14/05/2018, n. 11620).
4.4. Infine, Cass. n. 36474 del 24/11/2021 ha statuito che «In tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsto dall’art. 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, nel testo applicabile “ratione temporis”, può operare anche se la notizia di reato è emersa dopo la scadenza del termine ordinario di decadenza. Infatti, per la Corte costituzionale (Corte cost., 25 luglio 2011, n. 247) i termini raddoppiati di accertamento non costituiscono una proroga di quelli ordinari, ma sono anch’essi
termini fissati direttamente dalla legge, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva, cioè ove sussista l’obbligo di denuncia penale per i reati tributari, senza che all’Amministrazione finanziaria sia riservato alcun margine di discrezionalità per la loro applicazione. I termini raddoppiati, quindi, non si innestano su quelli brevi, in base ad una scelta discrezionale degli uffici tributari, ma operano autonomamente allorché sussistano elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia penale per i reati previsti dal d.lgs. 74/2000. Non può dunque farsi riferimento alla riapertura o alla proroga di termini scaduti, né alla reviviscenza di poteri di accertamento ormai esauriti, poiché i termini brevi e quelli raddoppiati si riferiscono a fattispecie ab origine diverse, che non interferiscono tra loro ed alle quali si connettono i diversi termini di accertamento. Pertanto, mentre i termini brevi di cui ai primi due commi dell’art. 57 d.P.R. 633/1972 operano in presenza di violazioni tributarie per le quali non sorge l’obbligo di denuncia penale di reati, i termini raddoppiati di cui al terzo comma dell’art. 57 operano, invece, in presenza di violazioni tributarie per le quali vi è l’obbligo di denuncia.
4.5. Inoltre, il comma 26 dell’art. 37 del d.l. 223 del 2006 non prevede una riapertura di termini di accertamento già scaduti, ma risolve solo una questione di successione di leggi nel tempo, senza dettare una disciplina sostanziale. La norma prevede che «le disposizioni di cui ai commi….25 si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale alla data di entrata in vigore del presente decreto sono ancora pendenti i termini di cui al primo e secondo comma dell’art. 57 del d.P.R. 633/72». In tal modo, dunque, non viene retroattivamente riaperto un termine già scaduto, ma viene solo escluso che il raddoppio dei termini si applica alle violazioni tributarie per le quali, alla data di entrata in vigore del decreto (4 luglio 2006), fosse già decorso il termine di accertamento previsto dalla normativa anteriore. Pertanto, il
raddoppio del termine, costituendo un termine del tutto slegato dai termini ordinari di accertamento, perché opera in via automatica al verificarsi del presupposto della sussistenza di illeciti penali, anche per consentire al giudice tributario di utilizzare elementi istruttori delle indagini penali nel frattempo espletate, può operare anche se la notizia di reato è emersa dopo la scadenza del termine ordinario di decadenza.
4.6. Nel caso in esame, infine, la sussistenza dell’obbligo dì denuncia penale ex art. 331 c.p.p., come si desume dalla ricostruzione operata dai giudici del merito, emergeva dagli elementi di fatto, contenuti nell’avviso di accertamento. Il giudice tributario, del resto, deve limitarsi a controllare, se è richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’Amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità, con la precisazione, però, che il correlativo tema di prova – e, quindi, l’oggetto della valutazione da effettuarsi da parte del giudice tributario- è circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale e non riguarda l’accertamento del reato (Cass., sez. 6-5, 15 aprile 2021, n. 9958).
4.7. Tanto premesso, va tuttavia evidenziato che, come più volte rilevato da questa Corte, «In tema di accertamento, il cd. “raddoppio dei termini”, previsto dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, non può trovare applicazione anche per l’Irap, poiché le violazioni delle relative disposizioni non sono presidiate da sanzioni penali» (Cass. n. 472/2020; n. 10483/2018; n. 20435/2017; n. 4775/2016; n. 26311/2017, n. 23629/2017), cosicché, con riguardo a tale tributo, dovrà essere accertato il rispetto del termine originario.
5. In conclusione, rigettati il primo e secondo motivo di ricorso ed accolto il terzo per quanto di ragione, la sentenza impugnata va
cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania affinché, in diversa composizione, proceda a nuovo e motivato esame nel rispetto dei principi sopra illustrati, nonché provveda alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo e secondo motivo di ricorso ed accoglie il terzo per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania affinché, in diversa composizione, proceda a nuovo e motivato esame nonché provveda alle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 28/11/2024.