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Qualificazione corrispettivi: royalties o provvigioni?

La Corte di Cassazione interviene sulla corretta qualificazione dei corrispettivi versati da un’azienda manifatturiera italiana a una società britannica titolare di un noto marchio. L’Agenzia delle Entrate aveva riqualificato i pagamenti da provvigioni a royalties, applicando le relative ritenute. La Suprema Corte ha confermato la natura di royalties, basandosi sulla sostanza del contratto che concedeva l’uso del marchio per produrre e vendere beni. Tuttavia, ha cassato la sentenza d’appello per omessa pronuncia sulla richiesta di disapplicazione delle sanzioni, rinviando la causa al giudice di merito per una nuova valutazione su questo specifico punto.

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Pubblicato il 9 novembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Qualificazione corrispettivi: Royalties o Provvigioni? La Cassazione fa chiarezza

L’ordinanza in esame affronta un tema cruciale nella fiscalità internazionale: la corretta qualificazione corrispettivi versati a un soggetto estero. Capire se un pagamento sia una royalty per l’uso di un marchio o una provvigione per servizi commerciali ha implicazioni fiscali dirette, in particolare per l’applicazione delle ritenute alla fonte. Con questa decisione, la Corte di Cassazione ribadisce il principio della prevalenza della sostanza sulla forma, offrendo criteri interpretativi fondamentali per le imprese che operano in contesti internazionali.

I Fatti del Caso

Una società manifatturiera italiana, produttrice di scarpe e borse di lusso, stipulava un accordo con una società britannica, detentrice di un prestigioso marchio internazionale. In base a tale accordo, l’azienda italiana produceva i beni e li vendeva a una clientela internazionale indicata dalla stessa società britannica. Per questa attività, l’azienda italiana corrispondeva alla controparte estera dei compensi, contabilizzandoli come provvigioni per l’attività di ricerca clienti e raccolta ordini.

L’Agenzia delle Entrate, a seguito di una verifica, riqualificava tali pagamenti. Secondo l’Ufficio, non si trattava di provvigioni, ma di royalties, ovvero il corrispettivo per la concessione in uso del marchio. Di conseguenza, l’Agenzia contestava all’azienda italiana l’omesso versamento delle ritenute alla fonte previste per i pagamenti di royalties a soggetti non residenti, emettendo avvisi di accertamento per diverse annualità d’imposta.

La Commissione Tributaria di primo grado accoglieva il ricorso della società, ma la Commissione Tributaria Regionale ribaltava la decisione, dando ragione all’Agenzia delle Entrate. La società contribuente ha quindi presentato ricorso in Cassazione.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha esaminato i vari motivi di ricorso presentati dalla società, giungendo a una decisione articolata. Ha rigettato i motivi principali relativi alla qualificazione corrispettivi, confermando la tesi dell’Agenzia delle Entrate, ma ha accolto un motivo subordinato relativo all’omessa pronuncia sulle sanzioni.

In sintesi, la Corte ha stabilito che:
1. I pagamenti erano effettivamente royalties, poiché la loro causa concreta era la remunerazione per il diritto di produrre e vendere beni utilizzando il marchio della società britannica. La natura del rapporto era assimilabile a una licenza di fabbricazione e uso del marchio.
2. La Commissione Tributaria Regionale non aveva, però, esaminato la domanda subordinata della contribuente, che chiedeva l’annullamento delle sanzioni per errore sul fatto e per le condizioni di incertezza oggettiva della normativa.

Per questo motivo, la Corte ha cassato la sentenza impugnata limitatamente al punto relativo alle sanzioni e ha rinviato la causa alla Commissione Tributaria Regionale per una nuova valutazione su questo specifico aspetto.

Le Motivazioni della Corte sulla qualificazione corrispettivi

La Corte ha fondato la sua decisione sul principio secondo cui, per la qualificazione corrispettivi, si deve guardare alla funzione economico-sociale del contratto, al di là del nome che le parti gli hanno attribuito (nel caso di specie, “service charge agreement”).

Secondo i giudici, il rapporto contrattuale andava inquadrato come un contratto di licenza di fabbricazione e uso del marchio. La società italiana poteva produrre e vendere i beni di lusso solo perché la società britannica, detentrice del diritto, glielo aveva concesso. Il pagamento, quindi, non era una semplice provvigione per un’attività di intermediazione, ma il corrispettivo per lo sfruttamento di un bene immateriale, il marchio.

La Corte ha precisato che la presenza di limitazioni e divieti nel contratto (come quelli sulla clientela o sull’uso dei disegni) è del tutto normale nei contratti di licenza e serve a proteggere il prestigio del marchio, senza snaturare la causa del contratto. La definizione fiscale di royalty, contenuta sia nella normativa nazionale (DPR 600/73) sia nel Modello OCSE, include espressamente i compensi per l’uso di marchi di fabbrica o di commercio. Pertanto, la riqualificazione operata dall’Ufficio era corretta.

Le Conclusioni

Questa ordinanza offre due importanti spunti di riflessione per le imprese.

In primo luogo, conferma che l’Amministrazione Finanziaria e i giudici tributari hanno il potere di riqualificare un negozio giuridico basandosi sulla sua causa effettiva e sugli effetti economici reali, ignorando la denominazione formale scelta dalle parti. È essenziale, quindi, che la struttura contrattuale rifletta fedelmente la sostanza dell’operazione economica per evitare contestazioni fiscali sulla qualificazione corrispettivi.

In secondo luogo, la decisione evidenzia l’importanza di articolare le proprie difese in modo completo, includendo anche domande subordinate. L’accoglimento del motivo relativo all’omessa pronuncia sulle sanzioni dimostra che, anche quando la pretesa principale viene respinta, è possibile ottenere un risultato favorevole su aspetti accessori ma economicamente rilevanti. Il giudice di merito è tenuto a esaminare tutte le domande ritualmente proposte, e la sua omissione costituisce un vizio che può portare alla cassazione della sentenza.

Come si distinguono fiscalmente le royalties dalle provvigioni in un contratto internazionale?
La distinzione si basa sulla causa concreta del contratto, non sul nome che le parti gli danno. Se il pagamento remunera l’uso o la concessione in uso di un bene immateriale (come un marchio per produrre e vendere), si tratta di una royalty. Se invece remunera un’attività di intermediazione per la ricerca di clienti e la raccolta di ordini, si tratta di una provvigione.

Cosa succede se un giudice d’appello omette di pronunciarsi su una specifica richiesta del contribuente, come quella sull’inapplicabilità delle sanzioni?
Questa omissione costituisce un vizio della sentenza definito “omessa pronuncia”. Come avvenuto in questo caso, la Corte di Cassazione può accogliere il relativo motivo di ricorso, cassare la sentenza su quel punto specifico e rinviare la causa al giudice del grado precedente affinché si pronunci sulla domanda che era stata ignorata.

Un avviso di accertamento deve essere sempre dettagliatamente persuasivo per essere valido?
No. Secondo la Corte, l’obbligo di motivazione di un avviso di accertamento è soddisfatto quando l’Amministrazione Finanziaria mette il contribuente in condizione di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali (il perché e il quanto si deve pagare), consentendogli di contestarla efficacemente. Non è richiesta un’insufficienza persuasiva, ma la chiarezza degli elementi fondanti della pretesa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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