Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 16095 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 16095 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: CORTESI NOME
Data pubblicazione: 16/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso n.r.g. 26034/2022, proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME per procura speciale allegata al ricorso, elettivamente domiciliato presso l’indirizzo di posta elettronica certificata del medesimo (EMAIL
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE , in persona del direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato presso la quale è domiciliata in ROMA, INDIRIZZO
-controricorrente –
avverso la sentenza n. 522/2022 della Commissione tributaria regionale del Piemonte, depositata il 27 aprile 2022; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell’8 maggio 2025 dal consigliere dott. NOME COGNOME
Rilevato che:
L’Agenzia delle entrate notificò alla società RAGIONE_SOCIALE un avviso di accertamento per il recupero della maggiore Irap riferita all’anno di imposta 2016 , oltre all’irrogazione di sanzioni.
Per il medesimo anno di imposta fu notificato identico avviso ai soci NOME COGNOME e NOME COGNOME contenente ripresa a tassazione del maggior reddito da partecipazione.
Gli atti impositivi facevano seguito ad un controllo di Polizia tributaria dal quale era emerso il coinvolgimento della società in condotte di truffa e appropriazione indebita, consistite nel rilascio di polizze contraffatte su moduli obsoleti della compagnia di assicurazioni preponente, dietro pagamento del premio da parte dei clienti.
Le somme percette furono, dunque, assoggettate ad imposta in conformità alla previsione di cui all ‘art. 14 , comma 4, della l. 24 dicembre 1993, n. 537, a mente del quale vanno acclusi al reddito imponibile i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, se non già sottoposti a confisca penale.
Nei confronti dei soci, poi, venne recuperato a tassazione anche il maggior reddito corrispondente all’ammontare dei prelevamenti e versamenti non giustificati, emersi a seguito delle indagini bancarie disposte dalla Procura della Repubblica a carico della società.
NOME COGNOME impugnò gli avvisi innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Cuneo.
Quest’ultima accolse l’impugnazione del contribuente annullando l’avviso «limitatamente alla parte concernente le richieste nei suoi confronti».
La sentenza fu vittoriosamente appellata dall’Amministrazione innanzi alla Commissione tributaria regionale del Piemonte.
I giudici del gravame esclusero che, come sostenuto dal COGNOME, costui fosse estraneo alla gestione della società e, quindi, alle condotte illecite ed alle relative ricadute fiscali.
Osservarono, in tal senso, che nel giudizio penale d’appello, conclusosi con sentenza di condanna, era emersa la circostanza del versamento dei proventi illeciti da un conto asseritamente ‘occulto’ (perché noto al solo Gribaudo) ad altri due conti risultanti in contabilità per oltre un decennio, sui quali il Molinengo operava quotidianamente; ulteriori e convincenti risultanze istruttorie corroboravano tale circostanza, come pure il fatto che entrambi i soci avessero ottenuto cospicui profitti; risultavano, infine, smentite le ulteriori circostanze invocate dal contribuente a propria difesa.
NOME COGNOME ha impugnato la sentenza d’appello con ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
L’Agenzia delle entrate ha depositato controricorso.
Considerato che:
Con il primo motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 24 della l. 7 gennaio 1929, n. 4, e dell’art. 12 della l. 27 luglio 2000, n. 212.
La censura ha ad oggetto la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto sufficiente, ai fini della valida instaurazione del contraddittorio procedimentale, la notifica del p.v.c. al solo legale rappresentante della società; e ciò in quanto i giudici d’appello avrebbero trascurato di rilevare che il ricorrente era receduto dalla società in data anteriore alla notifica.
Con il secondo mezzo d’impugnazione, nuovamente deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della l. n. 212 del 2000, il ricorrente assume poi che la C.T.R. avrebbe errato nel rilevare che, in ogni caso, l’avviso di accertamento notificato al ricorrente aveva «ampiamente esposto le risultanze in fatto e in diritto del PVC, integrando quindi l ‘ipotesi per cui non è necessario allegare l’atto se riprodotto nelle sue parti essenziali».
L’avviso, infatti, richiamava nella sua prima pagina il verbale notificato al legale rappresentante come «parte integrante», senza tuttavia allegarlo o riportarne il contenuto; l’ atto impositivo, in realtà, conteneva addebiti, tutti analiticamente riportati dal ricorrente, la cui comprensione avrebbe imposto di allegare il verbale di constatazione.
Infine, con il terzo motivo, il ricorrente denunzia omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, assumendo che la C.T.R. non si sarebbe pronunziata sul suo argomento difensivo in base al quale i proventi illeciti delle truffe non costituiscono reddito tassabile ai sensi dell’art. 14, comma 4, della l. n. 537 del 1993, trattandosi di somme che costituiscono il corpo del reato e vanno, quindi, restituite alle vittime.
I primi due motivi sono fra loro connessi e possono essere scrutinati congiuntamente.
4.1. In relazione all’eccepita nullità dell’avviso di accertamento in dipendenza della mancata notifica del processo verbale di contestazione, la C.T.R. ha testualmente affermato che l’atto impositivo aveva «ampiamente esposto le risultanze in fatto e in diritto del PVC, integrando quindi l ‘ ipotesi per cui non è necessario allegare l’atto se riprodotto nelle sue parti essenziali ».
Tale statuizione appare in linea con il consolidato orientamento di questa Corte (cfr. ex plurimis Cass. n. 20157/2021; Cass. n. 32957/2018; Cass. n. 5645/2014), secondo cui l’ obbligo
dell’amministrazione finanziaria di allegare ad un avviso di accertamento gli atti indicati nello stesso dev ‘ essere inteso in relazione alla finalità ‘ integrativa ‘ delle ragioni che giustificano l’emanazione dell’atto impositivo, sicché detto obbligo riguarda i soli atti che non siano stati già trascritti nella loro parte essenziale nell’avviso stesso, con esclusione, peraltro, di quelli cui l’Ufficio abbia fatto comunque riferimento, i quali, pur non facendo parte della motivazione, sono utilizzabili ai fini della prova della pretesa impositiva.
Ed invero, con tali principii, ripetutamente affermati, non si confronta il primo motivo di ricorso, che, pertanto, va dichiarato inammissibile perché non incide sulla complessiva ratio decidendi della sentenza impugnata.
4.2. Quanto al secondo motivo, che ha invece ad oggetto tale specifica statuizione, esso muove dal rilievo del fatto che l’atto impositivo riporta un riferimento come propria «parte integrante» al p.v.c. non notificato al Molinengo; il che, ad avviso del medesimo, sarebbe significativo del fatto che dal solo avviso non erano chiaramente evincibili le ragioni che ne avevano giustificato l’emissione.
L’espressione oggetto di censura appare, tuttavia, connotarsi in termini stilistici e non contraddice il rilievo dei giudici d’appello in base al quale l’avviso di accertamento «esponeva le risultanze in fatto e in diritto del PVC».
Né tale assunto è validamente smentito dalle considerazioni svolte dal ricorrente in punto a singoli addebiti, ed in particolare al fatto che, in relazione a talune movimentazioni di denaro in conto corrente, non sarebbero stati indicati gli esatti importi delle transazioni.
Al riguardo, questa Corte ha infatti da tempo affermato che la motivazione di un avviso di accertamento risponde ai requisiti di
validità anche quando richiama altri atti o documenti dei quali si limita a riprodurre il contenuto essenziale, sì da consentire al contribuente -anche nel successivo, eventuale sindacato giurisdizionale -di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento (cfr. Cass. n. 3388/2019; Cass. n. 9323/2017; Cass. n. 9032/2013; Cass. n. 13110/2012).
Ne deriva, pertanto, il rilievo di infondatezza del secondo motivo.
Il terzo motivo è anzitutto inammissibile per come formulato.
5.1. È noto, infatti, che una censura articolata con riferimento al parametro indicato dall’art. 360, comma primo, num. 5), cod. proc. civ., necessita, a pena d’inammissibilità, che sia indicato, come elemento trascurato dal giudice di merito, un fatto storico, principale o secondario, inteso come «un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico – naturalistico, la cui esistenza risulti dalla sentenza o dagli atti processuali che hanno costituito oggetto di discussione tra le parti avente carattere decisivo» (così, fra le altre, Cass. n. 13024/2022).
A tale indicazione non si conforma il mezzo d’impugnazione, che lamenta la mancata considerazione di una mera argomentazione in diritto, concernente l’interpretazione dell’art. 14, comma 4, della l. n. 537 del 1993.
5.2. In ogni caso, il motivo è infondato.
La tesi del ricorrente si pone, infatti, in dichiarato contrasto con l’indirizzo da tempo assunto dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui i proventi illeciti, anche qualora non classificabili nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del d.P.R. 1986, 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), sono comunque considerati come «redditi diversi» per il fatto stesso della loro sussistenza (così, fra le altre, Cass. n. 829/2023 e Cass. n. 31026/2017), in presenza di
elementi che possano supportare adeguatamente l’esistenza dell’illecito che ha dato luogo al provento illecitamente ottenuto (Cass. n. 28174/2017).
6. In conclusione, il ricorso merita di essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
Sussistono i presupposti per la condanna del ricorrente al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso stesso, a norma del comma 1bis dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in € 2.400,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte