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Proventi illeciti e società di fatto: la Cassazione

La Corte di Cassazione si è pronunciata su un caso di accertamento fiscale per proventi illeciti. L’Agenzia delle Entrate aveva contestato a tre contribuenti la costituzione di una società di fatto finalizzata a sottrarre beni da un’altra società fallita, tassando i relativi redditi. La Corte ha rigettato sia il ricorso dei contribuenti sia quello dell’Agenzia, confermando la decisione di merito che aveva riconosciuto la tassabilità solo dei beni effettivamente distratti. La sentenza ribadisce che la prova dell’esistenza della società di fatto e la quantificazione dei proventi illeciti sono valutazioni di fatto del giudice di merito, se adeguatamente motivate.

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Pubblicato il 27 novembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Proventi Illeciti e Società di Fatto: La Cassazione Conferma la Tassabilità

Con una recente sentenza, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla delicata questione della tassazione dei proventi illeciti, in particolare quelli derivanti da operazioni di distrazione di attivo fallimentare. La decisione analizza il caso di una società di fatto, costituita secondo l’Agenzia delle Entrate al solo fine di sottrarre beni a un’impresa fallita, e chiarisce i confini della tassabilità di tali redditi.

I Fatti di Causa

Il caso trae origine da quattro avvisi di accertamento per IRPEF, IRAP e IVA notificati a tre contribuenti per l’anno d’imposta 2008. L’Amministrazione Finanziaria contestava l’esistenza di una società di fatto tra i tre soggetti, i quali, secondo l’accusa, avevano agito per distrarre l’attivo di una società a responsabilità limitata dichiarata fallita, di cui erano soci.

I proventi illeciti derivanti da tale distrazione venivano quindi imputati fiscalmente alla società di fatto (ai fini IRAP e IVA) e ai singoli soci (ai fini IRPEF). I contribuenti impugnavano gli avvisi di accertamento, ma il loro ricorso veniva respinto dalla Commissione Tributaria Provinciale. In appello, la Commissione Tributaria Regionale accoglieva parzialmente le ragioni dei contribuenti, annullando una parte delle riprese fiscali relative a beni che, pur inclusi nel fallimento, non erano stati effettivamente realizzati o distratti.

Contro questa decisione, sia i contribuenti (con ricorso principale) sia l’Agenzia delle Entrate (con ricorso incidentale) si rivolgevano alla Corte di Cassazione.

I Motivi del Ricorso e la Difesa dei Contribuenti

I contribuenti basavano il loro ricorso principale su diversi motivi, tra cui:
1. Nullità dell’atto per vizio di sottoscrizione: Sostenevano che l’avviso non fosse stato firmato da un funzionario legittimato.
2. Insussistenza della società di fatto: Negavano la configurabilità di una società di fatto tra di loro, ritenendo la valutazione dei giudici di merito errata.
3. Errata determinazione dei redditi: Contestavano il calcolo dei redditi da fonte illecita, sostenendo che l’accertamento fosse privo di adeguata motivazione.
4. Errata applicazione di IRAP e IVA: Ritenevano che i proventi da attività distrattiva non potessero essere assoggettati a tali imposte.

L’Agenzia delle Entrate, dal canto suo, con il ricorso incidentale, lamentava l’esclusione dalla base imponibile di alcune immobilizzazioni e rimanenze, per un valore di oltre 167.000 euro, che la CTR aveva ritenuto non tassabili.

La Tassazione dei Proventi Illeciti: Le Motivazioni della Corte

La Corte di Cassazione ha rigettato sia il ricorso principale dei contribuenti sia quello incidentale dell’Agenzia delle Entrate, fornendo importanti chiarimenti su ciascuno dei punti controversi.

In primo luogo, la Corte ha dichiarato inammissibili le censure relative al vizio di sottoscrizione, affermando che la Commissione Tributaria Regionale aveva correttamente accertato, con una valutazione di merito non sindacabile in sede di legittimità, la regolarità della firma apposta da un funzionario delegato.

Sul punto cruciale dell’esistenza della società di fatto, i giudici hanno ribadito un principio consolidato: la sua configurabilità è una questione di fatto, la cui valutazione spetta al giudice di merito. Poiché la CTR aveva adeguatamente motivato la propria decisione basandosi su elementi concreti (processo verbale della Guardia di Finanza, atti del procedimento penale, relazioni del curatore fallimentare), la statuizione non poteva essere messa in discussione in Cassazione.

Per quanto riguarda la determinazione dei proventi illeciti, la Corte ha respinto le argomentazioni dei contribuenti, evidenziando che la loro contestazione mirava a una rivalutazione dei fatti, non consentita in sede di legittimità. La CTR aveva infatti compiuto una puntuale valutazione di merito sulle riprese contestate.

La Decisione sul Ricorso dell’Agenzia delle Entrate

Particolarmente significativa è la motivazione con cui la Corte ha respinto il ricorso dell’Agenzia. I giudici hanno chiarito che l’annullamento parziale delle riprese da parte della CTR non derivava da un’errata interpretazione della normativa sulla tassabilità dei proventi da reato. Al contrario, era il risultato di una valutazione fattuale: la CTR aveva accertato che, per alcuni beni, non vi era la prova di una totale distrazione. Erano stati considerati tassabili solo i proventi illeciti effettivamente generati dai beni sottratti al patrimonio della società fallita, escludendo quelli rimasti nella disponibilità della procedura fallimentare. La censura dell’Agenzia è stata quindi giudicata inammissibile perché non coglieva la ratio decidendi della sentenza impugnata, basata su un accertamento in fatto e non su un’interpretazione di diritto.

Conclusioni: Implicazioni della Sentenza

La sentenza consolida alcuni principi fondamentali in materia di fiscalità dei redditi da reato. In primo luogo, conferma che la prova dell’esistenza di una società di fatto e la quantificazione dei proventi illeciti sono accertamenti di merito, insindacabili in Cassazione se sorretti da una motivazione logica e congrua. In secondo luogo, e più importante, stabilisce un criterio di concretezza per la tassazione: l’imposizione fiscale scatta solo quando vi è la prova certa che un bene sia stato effettivamente distratto, generando un arricchimento illecito. Non è sufficiente che il bene sia oggetto di liquidazione in sede fallimentare. Questa decisione offre quindi un importante baluardo contro accertamenti fiscali presuntivi, ancorando la tassabilità alla prova effettiva della percezione di un reddito, anche se di origine illecita.

Quando sono tassabili i proventi derivanti da attività illecite come la distrazione di attivo fallimentare?
Sono tassabili quando vi è la prova che i beni siano stati effettivamente distratti e sottratti al patrimonio della società fallita, generando un reddito per i responsabili. La tassazione si applica unicamente ai proventi illeciti relativi ai beni per cui la distrazione è stata provata, escludendo quelli rimasti nella disponibilità della procedura fallimentare.

Come viene provata l’esistenza di una ‘società di fatto’ ai fini fiscali?
L’esistenza di una società di fatto viene provata attraverso una valutazione complessiva di elementi concreti, come l’atto impositivo, i processi verbali di constatazione della Guardia di Finanza, gli atti di un procedimento penale e le relazioni del curatore fallimentare. La valutazione di questi elementi è un compito del giudice di merito.

Chi deve provare la legittimità della firma sull’avviso di accertamento se contestata dal contribuente?
In base al principio di vicinanza della prova, spetta all’Amministrazione Finanziaria l’onere di dimostrare che il funzionario firmatario dell’atto fosse legittimamente delegato, producendo la relativa delega, anche nel corso del giudizio di secondo grado.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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