Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 33833 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 33833 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 21/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18876/2023 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE in proprio e quale incorporante RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
nonché contro
COGNOME RAGIONE_SOCIALE, n.q. di Commissario Giudiziale di G.T.M. RAGIONE_SOCIALE
-intimato- avverso SENTENZA di CORTE DI GIUSTIZIA TRIBUTARIA DI SECONDO GRADO DEL MOLISE-COGNOME n. 138/2023 depositata il 24/04/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 03/12/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Rilevato che:
Dalla sentenza in epigrafe, in punto di fatto, emerge che RAGIONE_SOCIALE aveva impugnato innanzi alla CTP di Campobasso l’avviso di accertamento n. TR6030201999, notificatole dall’Agenzia delle entrate-Direzione Provinciale di Campobasso il 18 novembre 2013, afferente IRES, IRAP ed IVA per l’anno 2008 per € 320.891,00, € 59.029,00, € 2.124.612,00, oltre sanzioni per € 3.186.918,00. ‘Al ricorso, per ragioni di connessione, veniva riunito quello dalla G.T.M.-RAGIONE_SOCIALE avverso l’avviso di accertamento n. TR603T200569 recante le imposte IRES e IVA per l’anno 2008 riguardanti maggiore imposta IVA per € 1.882.565,00 e sanzioni per € 2.358.772,50′.
1.1. In particolare -riferisce la sentenza in epigrafe -‘gli avvisi opposti traevano origine, per la prima parte dell’accertamento, da una verifica dell’Agenzia delle Entrate che oltre a minori rilievi riguardava presunta omessa contabilizzazione dei ricavi per € 1.177.545,00 e, per la seconda parte, da p.v.c. della G.d.F. di Campobasso elevato in data 25/07/2007 a seguito di verifica effettuata nei confronti delle società RAGIONE_SOCIALE esercente attività di confezione di abbigliamento sportivo ed indumenti
particolari e della NOME svolgente attività di servizi, quali confezionamento del vestiario, stiratura, lavanderia, taglio e cucito’.
La sentenza in epigrafe indi riassume le posizioni delle parti in primo grado, significando che ‘gli accertamenti sono incentrati essenzialmente sulla natura dei rapporti commerciali tra le società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE rapporti che, secondo l’Agenzia dovevano ricondursi a quelli tra committente e commissionario ove la società RAGIONE_SOCIALE costituiva il mandante, con la conseguenza che i passaggi di beni dall’una all’altra società, e viceversa, dovevano essere considerati, ai fini IVA, come cessione di beni ex art. 2, comma 2, del D.P.R. n. 633/72 anziché come prestazione di servizi a norma dell’art. 3 dello stesso D.P.R., mentre, ai fini delle imposte dirette ed IRAP, dovevano essere considerati come maggiore redditualità da attrarre a tassazione. Per l’Agenzia, quindi, il rapporto commerciale intercorrente tra le due società doveva essere qualificato come ‘contratto di commissione’ regolato dagli artt. 1731 e seguenti del c.c. anziché come ‘contratto di lavorazione’ effettivamente pattuito tra le parti. Secondo la ricostruzione, dunque, non sarebbe stata la G.RAGIONE_SOCIALE ad affidare alla RAGIONE_SOCIALE l’incarico di lavorare tessuti per proprio conto, ma sarebbe stata la RAGIONE_SOCIALE ad affidare alla G.RAGIONE_SOCIALE l’incarico di vendere le merci prodotte dalla stessa RAGIONE_SOCIALE. Contestando, a mezzo di ampie argomentazioni gli accertamenti opposti, le società chiedevano dichiararsi la nullità degli avvisi dopo averne accertato l’illegittimità; condanna alla restituzione di somme eventualmente versate nelle more del giudizio e condanna della parte resistente al pagamento delle spese oltre al risarcimento danni ex art. 96 c.p.c.’. Al contrario, ‘l’Agenzia deduceva che a seguito dei propri controlli e di quelli effettuati dai Militari verbalizzanti ed incentrati sul rapporto commerciale intercorrente tra la società RAGIONE_SOCIALE e NOME
svolgenti attività di servizi (confezionamento del vestiario, lavanderia, stiratura, taglio e cucito) emergeva che tra le medesime vi era un accordo stipulato dal 1996 con lettera commerciale dal quale risulta che la G.RAGIONE_SOCIALE. acquista sia dai fornitori nazionali che extra-UE le materie impiegate dapprima nella lavorazione e successivamente consegnate alla RAGIONE_SOCIALE mediante documenti di trasporto con dicitura ‘in conto lavorazione’ o ‘in conto vendita’. In pratica, sostiene l’Agenzia che la RAGIONE_SOCIALE produce i capi di abbigliamento servendosi di società operanti in Albania e Romania alle quali spedisce la merce utilizzando una dichiarazione doganale come merce di esportazione avvalendosi delle liste valorizzate effettuando, in tal modo, una operazione non valida secondo la previsione dell’art. 8 del D.P.R. n. 633/1972. Rilevava che al termine del processo di lavorazione dei capi effettuata nei Paesi esteri, la RAGIONE_SOCIALE rientra in possesso dei prodotti finiti trasferendo tali capi alla G.T.M. per essere immessi da quest’ultima sul mercato che si occupa della commercializzazione alla quale la RAGIONE_SOCIALE emette fattura per la prestazione di servizio dalla stessa effettuata. Per gli esposti motivi riteneva l’Agenzia che tra le due società esistesse un rapporto tra committente e commissionario (mandato senza rappresentanza) nel quale la RAGIONE_SOCIALE costituisce il mandante e la RAGIONE_SOCIALE il mandatario presumendo che il rapporto commerciale tra le società debba essere inquadrato nel contratto di commissione e non già di lavorazione atteso che la Linar, all’atto delle operazioni doganali si dichiara proprietaria della merce. Alla luce di quanto evidenziato sosteneva che, costituendo il passaggio dei beni tra committente e commissionario cessione di beni, le operazioni tra le stesse intercorse erano rilevanti ai fini IVA ‘.
Giusta, nuovamente, sentenza in epigrafe, ‘il giudizio di primo grado, con sentenza n. 680/02/2019 emessa dalla
Commissione Tributaria Provinciale di Campobasso, si concludeva con dichiarazione di cessata materia del contendere per intervenuta conciliazione per la parte degli avvisi di accertamento relativa ai rilievi IRES per la restante parte relativa al rilievo IVA, escluso dall’accordo conciliativo, accoglieva i ricorsi riuniti in compensazione delle spese’.
L’Ufficio proponeva appello, rigettato dalla CGT II del Molise con la sentenza in epigrafe sulla base della seguente motivazione:
Per il Collegio la tesi dell’Agenzia non è condivisibile sostenendo, come già innanzi rilevato che si è in presenza di un contratto in conto lavorazione aderendo alle medesime conclusioni cui è pervenuta questa stessa Corte per le diverse annualità e per identico oggetto ed anche dal giudice penale (con sentenza n. 24/2010 del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Larino) che ha escluso, in ordine alla medesima vicenda, la configurabilità di reati fiscali.
Pur ammettendo che non esiste automatica autorità di cosa giudicata tra il giudizio penale e quello tributario e che la sentenza penale irrevocabile intervenuta per reati attinenti ai medesimi fatti su cui si fonda l’accertamento degli uffici finanziari rappresenta un semplice elemento di prova liberamente valutabile in rapporto alle ulteriori risultanze istruttorie, anche di natura presuntiva deve rilevarsi che, nel caso in esame non viene in rilievo alcun diverso apprezzamento delle fonti di prova quanto piuttosto la corretta interpretazione del rapporto commerciale intercorso tra le parti da qualificarsi come ‘contratto in conto lavorazione’ e non invece come ‘contratto di commissione’.
Il Collegio condivide pienamente la ricostruzione come operata dal giudice penale secondo il quale: ‘Le materie giungono alla RAGIONE_SOCIALE a mezzo D.D.T. sui quali, a volte, è riportata la dicitura ‘in conto lavorazione’ o ‘in conto vendita’.
Quindi, all’atto della spedizione delle materie prime in Albania ed in Romania, la RAGIONE_SOCIALE presenta in dogana la dichiarazione relativa a merce in esportazione definitiva, mediante la redazione di lista valorizzata recante la dicitura ‘non valida ai sensi dell’art. 8 del D.P.R. n. 633 del
1972′ e, al rientro dei prodotti finiti provvede ad emettere autofattura ai sensi dell’art. 17, comma 3, del D.P.R. cit. I prodotti finiti vengono, quindi, in tal modo trasferiti alla RAGIONE_SOCIALE che provvede alla loro commercializzazione immettendoli, attraverso una propria rete di agenti e rappresentanti, nei circuiti commerciali.
Nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE emette, dunque, fattura per le prestazioni di servizio rese.
La RAGIONE_SOCIALE a sua volta, paga le fatture con le provviste derivanti dai ricavi delle vendite.
Sulla scorta di tali elementi fattuali, l’Agenzia delle Entrate, richiamando le conclusioni e la ricostruzione della Guardia di Finanza, sopra enunciate, pone a base del proprio convincimento valutazioni su quel che dovrebbe essere, non su quel che è, costruendo su di esse una realtà giuridica che, però, non è affatto compatibile con l’assetto contrattuale configurato dalle due società.
Ed invero, il fatto che la RAGIONE_SOCIALE sia la capo-gruppo di una holding di cui fa parte anche la RAGIONE_SOCIALE non esclude che la prima possa svolgere un servizio, effettivamente retribuito, a favore della seconda, e certamente non può imporre una lettura a senso unico dei rapporti giuridici che regolano le relazioni commerciali tra le parti.
La circostanza che la RAGIONE_SOCIALE si dichiari proprietaria della merce esportata in conto lavorazione è del tutto fisiologica nel caso di esportazione definitiva senza trasferimento di proprietà, in base ad una sostanziale ‘fictio -iuris’ ammessa, lecita e ben spiegata dalla stessa Guardia di Finanza.
La scelta dei materiali da parte dei dipendenti della RAGIONE_SOCIALE è ragionevolmente spiegabile con il fatto che i prodotti commercializzati dalla RAGIONE_SOCIALE recano il marchio registrato della prima, che ha, dunque, tutto l’interesse a selezionare il materiale con cui confezionare i capi da produrre.
A tanto si aggiunge che l’Agenzia disconosce il contratto di lavorazione effettivamente intercorso tra le parti ritenendo che lo stesso fosse simulato invocando, a tal proposito, il Testo Unico delle leggi
doganali secondo il quale ‘il proprietario della merce viene considerato colui che la presenta in Dogana’ facendo discendere che la LINAR che si presenta in dogana come esportatore è proprietario della merce ai fini civilistici e fiscali.
Ma le disposizioni doganali su cui l’Agenzia fonda l’accertamento non sono più in vigore dal 14 maggio 1998 atteso che il presunto richiamo dei Verbalizzanti all’art. 56 del Testo Unico delle leggi doganali (dichiarazione doganale) è stato vigente dal 12 aprile 1973 al 14 maggio 1998. Secondo tale articolo ‘ogni operazione doganale deve essere preceduta da una dichiarazione da farsi dal proprietario della merce, nelle forme indicate nell’art. 57′. È considerato proprietario della merce colui che la presenta in dogana ovvero che la detiene al momento dell’entrata nel territorio doganale o dell’uscita del territorio stesso’.
Tale art. 56 è stato modificato dall’art. 28 della Legge n. 146 /1998 sancente che ‘ogni operazione doganale deve essere preceduta da una dichiarazione in dogana da rendersi ai sensi dell’art. 64 del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992’.
L’art. 64 stabilisce che ‘la dichiarazione in dogana può essere fatta da chiunque sia in grado di presentare o di far presentare al servizio doganale la relativa merce e tutti i documenti la cui presentazione sia necessaria per consentire l’applicazione delle disposizioni che disciplinano il regime doganale per il quale la merce è dichiarata’.
Quanto indicato tende a dimostrare che, contrariamente a quanto ritenuto dall’Agenzia, nell’anno accertato (2008), non vi è presunzione di proprietà per i beni presentati all’esportazione atteso che sul documento non è richiesta alcuna indicazione del proprietario dei beni trasportati potendo le operazioni essere effettuate da coloro che abbiano un titolo di utilizzo della merce senza la necessità del titolo di proprietà.
Né è meritevole di accoglimento la tesi dell’Agenzia secondo cui il rapporto di lavorazione è precluso dalla mancata istituzione del registro dei beni ricevuti in conto lavorazione atteso che le movimentazioni dei beni possono essere dimostrate mediante i documenti di trasporto anche ai fini delle presunzioni di acquisto e cessione ai sensi dell’art. 53 del DPR n. 633/1972.
Invero, ai sensi dell’art. 3 del D.P.R. n. 441/1997, dal 7 gennaio 1998, il titolo di provenienza dei beni se diverso dall’acquisto (come il caso di conto lavorazione di cui alla presente fattispecie) deve risultare da documento di trasporto. Solo in ipotesi di mancanza di tale documento il titolo di provenienza può essere dimostrato da registro tenuto in conformità dell’art. 39 del DPR n. 633/1972 rilevando sul punto che, in sede di verifica, i Militi della G.d.F. hanno ritenuto la correttezza dei documenti analizzati.
La Corte di Cassazione ha affermato che la disciplina del D.D.T. contenuta nel D.P.R. 441/97 e in particolare l’art. 1, comma 5, per il quale ‘la consegna a terzi a titolo non traslativo della proprietà risulta in via alternativa: b) dal documento di trasporto previsto dall’art. 1, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 14 agosto 1996 n. 472, integrato con la relativa causale’ ha valenza integrativa e ricognitiva della disciplina in argomento, prima contenuta, esclusivamente, nel richiamato art. 53. La Corte precisa, altresì, che il principio per il quale il D.D.T., recante tutte le indicazioni previste dal decreto istitutivo (D.P.R. n. 472/1996), costituisce valida documentazione del titolo non traslativo della proprietà si deve ‘saldare’ necessariamente con le regole poste dall’art. 53 della legge IVA al fine appunto del superamento della presunzione (sic Cass. Sez. V- Ord. n. 639 del 22/09/2017).
Ed ancora la Cassazione, nella sentenza n. 640 del 2018, ha ampiamente precisato che il documento di trasporto permette di vincere la presunzione di cui all’art. 53 del D.P.R. n. 633 del 1972 .
In definitiva tra le due società sussiste realmente un accordo commerciale di lavorazione con trasferimento di merci in conto lavorazione, come attestato dai documenti di trasporto.
Risulta provato che la RAGIONE_SOCIALE acquista i tessuti e le materie prime che dovranno poi essere lavorati dalla RAGIONE_SOCIALE in Albania e successivamente consegnati alla prima per la commercializzazione dei prodotti finiti.
Imporre per ciascuna fase una tassazione ai fini IVA per intero, come ritenuto dall’Agenzia, importerebbe una violazione della capacità contributiva con conseguenze paradossali ed assai gravose.
La consegna dei beni ai fini della lavorazione non costituisce prova della cessione a terzi della titolarità di tali beni né vi è la prova che le due società avrebbero conseguito indebiti vantaggi nel solo supposto rapporto simulato ove viene ravvisato un fenomeno elusivo .
Invero, l’Agenzia presuppone che G.T.M. fatturi alla LINAR le materie prime e che riacquisti da LINAR le materie prime oltre la lavorazione, senonché dalla comparazione di tale ricostruzione contrattuale con quella effettivamente posta in essere dalle società non si rileva alcun vantaggio fiscale a favore delle stesse vertendosi in ipotesi che l’effetto ai fini IVA è identico, dovendo rilevarsi che i costi di riacquisto devono essere riconosciuti in capo alla G.T.M. per consolidato orientamento di legittimità oltre che costituzionale e, conseguentemente, non risulta esservi ulteriore materia imponibile da tassare rispetto a quella della lavorazione già tassata.
Nella fattispecie, nessuna ulteriore imposta sarebbe stata dovuta se le parti avessero scelto di cedere i beni da RAGIONE_SOCIALE a NOME e riceverli da NOME a RAGIONE_SOCIALE anziché consegnarli in conto lavorazione.
Nella specie difetta del tutto la prova del danno al bilancio dello Stato per mancato introito dell’IVA, palesandosi infondata la tesi dell’Agenzia.
Deve rilevarsi che nella fattispecie, contrariamente a quanto sostenuto dall’Agenzia non si ravvede ipotesi di un indebito vantaggio fiscale né abuso del diritto in relazione al rapporto tributario concernente l’IVA .
Non vi è prova di vantaggio fiscale né di evasione o elusione .
Ma oltre a quanto detto, la prova è contraddittoria anche perché l’Agenzia nell’atto di appello non chiarisce quale sarebbe stato l’intento elusivo od evasivo nel voler celare un contratto di commissione.
La sostenuta doppia fatturazione delle materie prime e dei prodotti finiti avrebbe comportato, certamente, un incremento dei volumi d’affari ma, contemporaneamente, anche dei relativi costi con il conseguenziale effetto che l’unico valore aggiunto dell’operazione sarebbe stato quello riconducibile al servizio di lavorazione. Corrispettivo, quest’ultimo, regolarmente contabilizzato ed assoggettato ad IVA .
Propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate con tre motivi, cui resiste G.M.T., ‘in proprio nonché quale società incorporante la società RAGIONE_SOCIALE con articolato controricorso, ulteriormente insistito con memoria.
Il Commissario Giudiziale della contribuente, cui pure il ricorso risulta notificato, resta intimato.
Il Pubblico Ministero presso la Corte di cassazione, in persona del Sost. Proc. Gen. Dott. NOME COGNOME deposita requisitoria in data 12 novembre 2024, mediante la quale insta per la declaratoria d’inammissibilità del ricorso.
Considerato che:
Preliminarmente deve darsi atto che, con la memoria depositata in vista dell’udienza, la contribuente fa valere, agli effetti del novello art. 21 -bis D.Lgs. n. 74 del 2000, il giudicato della sentenza di non luogo a procedere pronunciata dal GUP presso il Tribunale di Larino nei confronti dell’amministratore delle due società per evasione fiscale in relazione ai medesimi fatti oggetto di giudizio.
Siffatta prospettazione della memoria, che paventa altresì un’irragionevolezza costituzionalmente rilevante con riferimento alla testuale limitazione della vincolatività della sola sentenza assolutoria dibattimentale, è priva di fondamento e deve essere disattesa.
La sentenza di non luogo a procedere non produce effetti suscettibili di rilevare ai sensi dell’art. 21 -bis D.Lgs. n. 74 del 2000, giacché non contiene alcun accertamento in fatto, essendo resa allo stato degli atti in esito all’udienza preliminare, a sua volta celebrata in camera di consiglio
senza istruttoria; detta sentenza conclude la fase delle indagini preliminari sul presupposto meramente prospettico dell’insostenibilità dell’accusa in giudizio (art. 425, comma 3, cod. proc. civ.), talché è strutturalmente inidonea al giudicato, tanto da essere espressamente revocabile (art. 434 cod. proc. pen.), viepiù con semplice ordinanza (art. 436 cod. proc. pen.). Donde la manifesta infondatezza di alcun dubbio d’illegittimità costituzionale dell’art. 21 -bis D.Lgs. n. 74 del 2000, al cui ambito di operatività non può attrarsi altresì la sentenza di non luogo a procedere, siccome non assimilabile, né per struttura né per disciplina, alla sentenza assolutoria dibattimentale, la quale sola, contenendo un accertamento in fatto, è invece votata al giudicato.
Può ora procedersi alla disamina dei motivi di ricorso.
Primo motivo: ‘ Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1731 e segg. 2697 e 2729 c.c., 2, 3 e 53 DPR n. 633/1972 in relazione all’art. 360, c. 1^ n. 3 cpc’.
3.1. ‘a difesa pubblica aveva addotto, in corso di causa, plurimi elementi probatori, di carattere indiziario, univocamente rivolti a far emergere che le due società avevano, in effetti, invocato il diverso rapporto di lavorazione dei tessuti in favore della RAGIONE_SOCIALE, onde dissimulare il reale contratto di commissione tra le stesse intercorso allo scopo di evitare alla commissionaria RAGIONE_SOCIALE la fatturazione ed il conseguente versamento dell’IVA sulle cessioni operate nei confronti della committente RAGIONE_SOCIALE s.r.1. e, parimenti, di evitare l’adempimento degli obblighi ai fini IVA connessi alla successiva fatturazione da parte della RAGIONE_SOCIALE nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, con riferimento ai prodotti realizzati e destinati
alla successiva commercializzazione. E, al proposito, l’Agenzia aveva allegato e dimostrato, sia in sede di accertamento, sia in corso di causa, quanto riscontrato dai militari della Guardia di Finanza nel corso della verifica, ossia che: – era stata la RAGIONE_SOCIALE a presentare in dogana le merci in regime di temporanea esportazione allorquando esse venivano inviate in altri Paesi per il successivo impiego manufatturiero; – la RAGIONE_SOCIALE aveva una maggiore propensione all’attività commerciale, avendo una rete di vendita più efficiente, mentre il profilo della Linar era più ‘operativo’ e produttivo; – sebbene le materie prime fossero state ricevute dalla Linar accompagnate da documenti di trasporto ‘in conto lavorazione’, la società non aveva mai istituito il registro di carico e scarico di merce altrui, ovvero non aveva mai predisposto le obbligatorie scritture ausiliarie di magazzino; – la RAGIONE_SOCIALE non solo vendeva il prodotto finito, ma acquistava anche le materie prime; era la Linar stessa a scegliere i tessuti che la RAGIONE_SOCIALE avrebbe poi acquistato per l’utilizzo manifatturiero; – entrambe le compagini societarie erano riconducibili al medesimo soggetto di controllo. Elementi presuntivi ben evidenziati dai i militari verbalizzanti (v. i 2 PVC della GdF di Campobasso del 25/07/2007 redatti nei confronti della RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE alle pagg. 9 e 10 identiche, come testo, in entrambi i processi verbali -All.ti n. 2 alle rispettive controdeduzioni depositate, dall’Amministrazione in primo grado in ciascuno dei giudizi separatamente avviati) ‘. ‘Ebbene la CGT di 2^ grado del Molise, in luogo di prendere in esame i fatti-noti esposti nei PVC redatti all’esito dell’attività di verifica , si è affidata ai seguenti elementi probatori costituiti: – dal documento di trasporto , di per sé, inidoneo a costituire, ex art. 115, comma 1, c.p.c. quale manifestazione di una situazione ‘formale’ apparentemente
legittima -quella prova atta a vincere la presunzione di cessione di beni attraverso un contratto di commissione fondata sui sopra menzionati plurimi fatti-noti, tutti convergenti verso tale tipo di contratto, anziché quello di lavorazione di tessuti; – di una scrittura privata (il su menzionato ‘… accordo contenuto in una lettera commerciale del 1996, acquisita agli atti dai verificatori …’) priva di data certa, come tale non opponibile ai terzi di buona fede (come, appunto, l’A.F.) e, pertanto, ai fini dimostrativi, ‘tamquam non esset’ ‘. ‘E non pare revocabile in dubbio che, nel caso in controversia, la G.RAGIONE_SOCIALE abbia svolto, negli anni oggetto di accertamento, un ruolo, in realtà, di interposizione, prima nell’acquisto dei tessuti da soggetti terzi e poi nella commercializzazione dei manufatti tessili, agendo, tuttavia, in nome proprio, ma per conto della committente RAGIONE_SOCIALE (che, ad esempio, sceglie i tessuti da impiegare nella produzione) e avvalendosi della propria autonomia organizzazione. Evidente, perciò, la ricorrenza degli elementi costitutivi del rapporto di commissione ‘. Ne consegue la violazione delle disposizioni rubricate. ‘Solo per completezza di difesa si censura anche il capo di sentenza con il quale la Corte d’appello attribuisce all’Agenzia il richiamo al TU delle leggi doganali: . Il richiamo a tale disciplina, rinvenibile nei PVC e svolto dalla GdF, non è stato posto dall’Ente Impositore a fondamento del disposto recupero: né nell’avviso e neppure nei propri scritti defensionali. In realtà, come evidenziato già in sede di controdeduzioni in primo grado, è stata la controparte a richiamare detta normativa, nello specifico l’art. 64 del TULD, la cui intitolazione è ‘Soggetto obbligato alla dichiarazione in dogana’ che altro non fa che spiegare chi è il soggetto passivo a fini doganali, individuando il soggetto passivo nel ‘dichiarante’ ‘.
Secondo motivo: ‘ Nullità della sentenza e/o del procedimento ex artt. 111 Cost., 1, 2, e 36 d.lgs. n. 546/1992, 132 e 118 delle disposizioni di attuazione c.p.c. in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 4 c.p.c. -‘error in procedendo”.
4.1. ‘Giusta quanto sopra esposto la pronuncia appare, altresì, viziata, per motivazione apparente’.
Terzo motivo: ‘ Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 20 D.Lgs. 74/00, 7, co. 4^ D.Lgs. n. 546/92, 115 e 116 c.p.c. e 409, 652 e 654 c.p.p. in relazione all’art. 360 1^ co. n. 3 cpc’.
5.1. ‘Il Collegio, pur sostenendo di non volersi limitare a prendere atto della pronuncia del giudice penale , richiama, a supporto, la decisione del Giudice penale sulla quale (differentemente dalle premesse) acriticamente si adagia ‘.
Il secondo motivo, che assume priorità logica, è infondato e va disatteso:
6.1. È sufficiente una semplice lettura della sentenza impugnata per appurare come la stessa esibisca una motivazione effettiva, sia dal punto di vista grafico che contenutistico, dovendosi per l’effetto escludere alcuna ipotesi di omessa motivazione o di motivazione meramente apparente. Quel che il motivo mira a censurare non è un’assenza grafica o contenutistica della motivazione, ma piuttosto il percorso argomentativo che la CGT ha seguito per addivenire alla decisione. Nondimeno, la deduzione di un tale vizio non è più consentita, quand’anche si avesse a riqualificare la censura ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. Vale, invero, l’insuperato insegnamento secondo cui ‘la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati
dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al ‘minimo costituzionale’ del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella ‘mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico’, nella ‘motivazione apparente’, nel ‘contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili’ e nella ‘motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile’, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ‘sufficienza’ della motivazione’ (Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830 -01).
7. Ciò consente di passare al primo motivo.
7.1. Esso si sottrae alle eccezioni di inammissibilità di cui al controricorso, perché, ben lungi dal sollecitare a questa Suprema Corte alcuna rivisitazione del giudizio di merito, evidenzia invece con precisione il vizio che vi si assume affliggere la sentenza impugnata, articolando pertinenti censure vertite in diritto, corrispondentemente ragguagliate a pertinente rubrica.
7.2. Esso è fondato.
7.2.1. In tema di prova per presunzioni, vige il principio secondo cui ‘il giudice, dovendo esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento che si articola necessariamente in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli
intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi. Ne consegue che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento’ (Sez. 3, n. 9059 del 12/04/2018, Rv. 648589 -01).
In specificazione del principio di cui innanzi s’è ulteriormente precisato che ‘il giudice è tenuto, ai sensi dell’art. 2729 c.c., ad ammettere solo presunzioni ‘gravi, precise e concordanti’, laddove il requisito della ‘precisione’ è riferito al fatto noto, che deve essere determinato nella realtà storica, quello della ‘gravità’ al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto desumibile da quello noto, mentre quello della ‘concordanza’, richiamato solo in caso di pluralità di elementi presuntivi, richiede che il fatto ignoto sia -di regola -desunto da una pluralità di indizi gravi, precisi e univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza, e ad articolare il procedimento logico nei due momenti della previa analisi di tutti gli elementi indiziari, onde scartare quelli irrilevanti, e nella successiva valutazione complessiva di quelli così isolati, onde verificare se siano concordanti e se la loro
combinazione consenta una valida prova presuntiva (c.d. convergenza del molteplice), non raggiungibile, invece, attraverso un’analisi atomistica degli stessi. Ne consegue che la denuncia, in cassazione, di violazione o falsa applicazione del citato art. 2729 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., può prospettarsi quando il giudice di merito affermi che il ragionamento presuntivo può basarsi su presunzioni non gravi, precise e concordanti ovvero fondi la presunzione su un fatto storico privo di gravità o precisione o concordanza ai fini dell’inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota e non anche quando la critica si concreti nella diversa ricostruzione delle circostanze fattuali o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica diversa da quella ritenuta applicata dal giudice di merito o senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma’ (Sez. 2, n. 9054 del 21/03/2022, Rv. 664316 -01).
7.2.2. La CGT non ha fatto corretta applicazione dei superiori principi.
Gli errori così compiti dalla CGT sono molteplici.
Ha pregiudizialmente ricusato di valutare gli indizi offerti dall’Ufficio, esaminandoli dapprima singolarmente dappoi unitariamente, in guisa tale da verificarne la conducenza, nel senso di delineare, o meno, un quadro coerente.
Ha di contro attribuito immediata valenza decisiva, in senso contrario alla ricostruzione dell’Ufficio, alla causale espressa dai documenti di trasporto, implicanti, attesa la dichiarazione di consegna delle merci in conto lavorazione, la riserva di proprietà in capo a GTM.
Tenuto presente quanto precede, è più particolarmente ad osservarsi che, negando all’Ufficio la stessa possibilità di
corroborare i propri assunti mediane la dedotta prova per presunzioni, ha totalmente pretermesso di ricostruire, in manera specifica e circostanziata, come invece necessario al fine di sottoporre a vaglio critico le tesi dell’Ufficio e, specularmente, della contribuente, l’intera filiera produttiva: ciò onde stabilire, alla luce di tutti gli elementi di valutazione disponibili, quale società, tra RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, avesse il dominio di detta filiera e quindi ne controllasse, in una visione d’insieme finalizzata al risultato economico finale, i singoli passaggi, a cominciare dall’acquisto delle materie prime: ciò dovendosi peraltro tener presente il dato incontestato che, non solo RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, ma anche le società estere incaricate da RAGIONE_SOCIALE (cui previamente risale anche la scelta delle materie prime), e non da RAGIONE_SOCIALE, della lavorazione mettono capo ad unico assetto proprietario ed in definitiva decisionale.
È al cospetto della superiore doverosa individuazione, sul piano dell’effettività sostanziale, della società posta a capo della filiera produttiva che necessita di essere valutata la congruità della causale formalmente espressa nei documenti di trasporto, in uno alla (peraltro non riferita) dicitura dell’accordo tra le due società, saggiandone l’effettiva tenuta, tanto più considerato che l’elemento formale della consegna da RAGIONE_SOCIALE a Linar in conto lavorazione comunque di per sé non collima con altri elementi parimenti formali: ‘in primis’, l’espletamento delle procedure di espatrio e rimpatrio da parte di RAGIONE_SOCIALE senza la spendita di un titolo abilitante alla mera detenzione (considerato, da un lato, che, al netto di non finalizzate speculazioni sulla normativa doganale, è la stessa CGT ad affermare, previo dunque corrispondente accertamento, che ‘la circostanza che la RAGIONE_SOCIALE si dichiari proprietaria della merce esportata in conto lavorazione è del tutto fisiologica ‘ e, dall’altro, non è contrastata dalla contribuente la circostanza di
fatto, allegata in ricorso, che NOME presentava la merce in dogana senza indicare, come ben avrebbe agevolmente potuto e dovuto fare proprio in forza dei dd.dd.tt., la riserva di proprietà in capo a G.T.M.); ma anche il mancato reperimento di rilevazioni contabili, in seno a NOME (che non si dichiara impresa esclusivamente mercantile), registranti l’accettazione della merce a titolo detentivo (in conto lavorazione).
A quest’ultimo riguardo, infatti, deve osservarsi che, sebbene la consegna e riconsegna di merci in conto lavorazione costituiscano operazioni in sé adeguatamente documentate dai documenti di trasporto, ragion per cui i relativi beni non devono essere inventariati (ossia, propriamente, inseriti nell’inventario di magazzino), non per ciò solo, tuttavia, essi sfuggono ad alcuna rendicontazione, dovendo invece essere dettagliati in apposita annotazione di bilancio, previo specifico rilievo mediante scrittura ausiliaria nel registro di magazzino, ai sensi degli artt. 2214, comma 2, cod. civ. e 14, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973, in guisa da giustificare la confluenza del mastro ‘lavorazione per conto terzi’ nel conto economico tra i ricavi delle vendite e delle prestazioni.
7.2.3. In aggiunta a quanto precede, mette soltanto conto di sottolineare che la pretesa insussistenza di danno erariale (da parte della CGT2 laddove scrive che ‘l’Agenzia nell’atto di appello non chiarisce quale sarebbe stato l’intento elusivo od evasivo nel voler celare un contratto di commissione. La sostenuta doppia fatturazione delle materie prime e dei prodotti finiti avrebbe comportato, certamente, un incremento dei volumi d’affari ma, contemporaneamente, anche dei relativi costi con il conseguenziale effetto che l’unico valore aggiunto dell’operazione sarebbe stato
quello riconducibile al servizio di lavorazione. Corrispettivo, quest’ultimo, regolarmente contabilizzato ed assoggettato ad IVA’) appare, oltreché decentrata nel richiamo alla fattispecie elusiva, meramente locutoria, siccome, non già solo priva di alcuna dimostrazione concretamente radicata sul compendio documentale versato in atti, ma ‘a priori’ frutto di pura speculazione, non cogliendo che la ricostruzione agenziale (la cui fondatezza o meno spetterà al giudice di rinvio verificare) mira al contrario a dimostrare l’artificiosità del meccanismo della consegna in conto lavorazione proprio in guisa da creare il presupposto formale per evitare gli obblighi di fatturazione ed i connessi versamenti dell’IVA.
L’accoglimento del primo motivo determina l’assorbimento del terzo.
Conclusivamente, in accoglimento del primo motivo, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio per nuovo esame e per le spese, comprese quelle del grado.
P.Q.M.
In accoglimento del primo motivo di ricorso, rigettato il secondo ed assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Molise, per nuovo esame e per le spese.
Così deciso a Roma, lì 3 dicembre 2024.